02 Dicembre 2024

“Credo nei miracoli dell’arte”. Vita & versi di Jane Kenyon, l’Achmatova d’America

Per il suo funerale scelse il salmo 139 – tenebra mi annulla/ la notte è luce su di me. L’amico Liam Rector, postura plastica da poeta, declamò i versi di Let Evening Come e Otherwise. Il celebrante accordò, a cappella, le note di Amazing Grace.

Aveva già opzionato il suo loculo, Jane Kenyon. Quindici anni prima, insieme al marito Donald Hall, in una terra siglata da cespi di betulle e granitiche querce del New Hampshire. L’acquisto officiò il matrimonio della coppia con il luogo – l’amena cittadina di Wilmot.  

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Si erano sposati per affetto, dunque per difetto, nel 1972. Accademico, il fato, con seducente banalità, dirottò la Kenyon, studentessa, presso il seminario di scrittura creativa di Hall all’Università del Michigan. Non emerse per talento, non affiorò per avvenenza. In dote, gli recò, imberbe, i suoi versi acerbi. Lui era reduce dall’unione con la prima moglie, Kirby Thompson – corredata di due figli –, la Kenyon da una liaison imbozzolata nella gioventù.

Condivisero l’amore per la poesia, il sesso frequente e i gatti. Scarsamente appassionati, si amarono per conforto. Fu un legame di miti vertigini.

Alle nozze intervennero i parenti stretti. Jane non riportò memorie scritte di quel giorno. Unico sigillo, a testimonianza, il regalo di sua nonna Dora – una copia rilegata in pelle bianca della Bibbia di Re Giacomo.

Consacrazione di un epilogo, per il ventiduesimo anniversario Hall le donò un anello di tormalina rosa serrato da nove minuti diamanti. Lei lo battezzò “Please, don’t die”. La leucemia stillava piena egemonia. Jane Kenyon aveva appena intessuto le sue poesie più fauste. Morì un anno dopo, il 22 aprile 1995. Aveva quarantasette anni.

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Coronata d’alloro al tempo stesso – fu Poeta laureato del New Hampshire – se ne andò insignita di lirica reputazione. Dunque, in pace. Mal tollerò l’opprimente veste di poeta moglie di un poeta e avrebbe disprezzato postumi riscatti femminei alla Sylvia Plath. Pure, credette di abdicare alla vita. Ma preferì morire da poeta, che da suicida.

«La mia fede in Dio, soprattutto l’idea che un credente è parte del corpo di Cristo, mi ha impedito di farmi del male. […] Quando ho sofferto talmente tanto da desiderare di non essere viva o cosciente… mi sono detta: “Se ti ferisci, ferisci il corpo di Cristo, e Cristo è già stato ferito abbastanza”».

Oppressa dalla depressione, generò Having It Out with Melancholy – versi afflitti d’atrabile e farmacologica soggezione. In epigrafe s’appellava a Čechov, suo mentore insieme a Keats.

A stringare il morbo nel verbo, le scarne righe di Suggestion from a Friend – “Non saresti così depresso/ se davvero credessi in Dio”.

Rigettò ogni visione romantico-terapeutica del rapporto fra malattia e scrittura. Piuttosto, se ne avvalse per scopo clinico, cinico – la poesia per aumentare la comprensione della patologia. Pare prossima, di spirito e d’intenti, a Margiad Evans – autrice che sguainò la poesia contro l’epilessia. Rifiutò, dunque, di recitare il melodramma – promosso da certe poetesse – della rosea invasata, dell’artista rosa dalla follia.  

Gregory Orr velatamente l’annoverò fra i poeti post-confessionali – la poesia autobiografica come bianca arma di sopravvivenza e riconciliazione col mondo. Di trasformazione – l’uso della lingua a emendare l’esperienza. Era disposta a capitolare, per non ricapitolare – in versi – la vita.

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Madrina dell’anti-canone delle Plath e delle Sexton, Jane Kenyon – fanatica della mistica – si votò a Teresa D’Avila, Giuliana di Norwich. Quindi a Emily Dickinson ed Elizabeth Bishop – dai meandri del New England le condusse fino ai setosi dedali della Cina, con una sequela di letterarie lectures, salmodiando sulla loro opera. Nel 1979, alla cerimonia commemorativa della Bishop, franò nella commozione – ne ammirava il verso scarno, preciso, il linguaggio pressato. Beneficiò spesso del paragone con la Dickinson – la ricerca di Dio, della solitudine nella natura, il mistero della bellezza, il diafano legame fra depressione e gioia.

Fu, anzitutto, devota ad Anna Achmatova. Tradusse la russa con altera premessa – giudicando insoddisfacenti le rare versioni in circolazione, decretò di confezionare la propria.

Il marito, Hall, ammantato di un radicalismo poetico virato allo snobismo più estremo – nel 2006 nominato Poeta laureato degli Stati Uniti –, fu d’opposto avviso. Pur avendo costeggiato e corteggiato svariati generi della parola, prestò somma fedeltà al suo originale suono – in mancanza, riteneva inafferrabili le connessioni interne alla poesia.

D’indole diversamente tirannica, entrambi rigettarono la traduzione come pratica ordinaria, grigio esercizio, servizio.    

Il poeta Hayden Carruth qualificò la Kenyon quale Achmatova americana. Arduo immaginare due esistenze più dissimili. Contemplativa e apolitica, la poesia della Kenyon si nutrì nondimeno dello slancio slavo – s’apparentarono gli spiriti. 

Della Venere di Odessa venerò la lirica succinta, la supremazia, imperiale, dell’immagine a scapito del simbolo – le sei poesie inizialmente tradotte furono incluse nella sua prima raccolta, From Room to Room (1978); confluite poi in Twenty Poems of Anna Akhmatova (Ally Press, 1985).

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Lirismo tangibile, quello di Jane Kenyon. Mirava a una verità d’opale, epifania privata compressa nell’attimo. Digiuna di orpelli, scrittura prossima alle Scritture, ellittica, irrisolta, come l’onnipresente rimando al mondo naturale.

Il poeta Robert Hass la paragonò, per temi pastorali e cupe meditazioni, a Robert Frost – che pure aveva conosciuto suo marito anni prima – ma con uno sguardo più interiore.

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Il giornalista Bill Moyer, nel 1993, effigiò Jane Kenyon e Donald Hall in un documentario – A Life Together – vincitore di un Emmy Award. Proiezione routinaria di un matrimonio fra poeti dominato da una viscosa discepolanza, sfociata in rivalità lirica. “È dannatamente duro con la mia prosa. Sarcastico. Quando parliamo di poesia, so di trovarmi su un terreno più solido, ma con la prosa può ridurmi in poltiglia” – così Jane, a commento del marito. Lo diceva dispotico e possessivo. Ad ogni modo, l’ultimo atto letterario di Hall – morì nel 2018 – fu la cura e selezione di The Best Poems of Jane Kenyon (Graywolf Press). Riteneva gemmata, la consorte, dalla sua costola poetica.

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Coltivava narcisi e peonie, Jane. Poesia e giardinaggio come suoi talenti privati – il connubio ricorda la schiva scrittrice italiana Pia Pera, che pure tradusse i russi, fra tutti Čechov e Puškin. Entrambe, arti intrise di morte e resurrezione. Lottò con la fede, la Kenyon. Finché una domenica, nella nivea chiesa di Wilmot, il ministro Jack Jensen evocò Rainer Maria Rilke nel suo sermone. Col tempo, la sua vita religiosa invase la sua vita letteraria. Credeva in una funzione sacerdotale del poeta.

*

Per la sepoltura, Hall scelse di drappeggiare sul corpo di Jane una salwar kamiz bianca e un foulard sulla spalla sinistra provenienti dall’India – c’erano stati insieme due volte. Fra le dita, ossute e incrociate – ornamento d’eterno – la fede nuziale. Le baciò per l’ultima volta le labbra, fredde e rigide. Lapidario, scolpito nel nero marmo della lapide, l’epitaffio recita un verso di Jane.    

Credo nei miracoli dell’arte, ma quale
prodigio ti terrà al sicuro al mio fianco

L’aveva composto per osteggiare la morte di Hall – svilito, all’epoca, da un cancro. All’ombra delle sue parole, oggi, riposano entrambi. Ogni poetica contesa è trascesa.

Fabrizia Sabbatini

***

Versi per Achmatova

Treno notturno da Mosca, debutta la frenata,
s’appressa alla tua città dormiente.
Suono di esili campane nell’aria artica… Poi
l’inserviente appare con bicchieri di tè forte.
“Sveglia, signore! Siamo a Leningrado”.

Attillati canali luccicano neri e immoti
sotto lampioni fregiati, e nei parchi
foglie d’oro stagnano su sentieri sabbiati
e lignee panchine. Alla luce meridiana  
donne anziane vestite di buio le spazzano via
con scope dal manico di betulla.

La tua opera, la tua vita amorosa, i tuoi studi –  
tutto è avvenuto qui, dove il Partito
ti ha ammutolita per un quarto di secolo
per aver scritto d’amore – esercizio borghese.

Marito e figlio, amanti, amati compagni
incarcerati o assassinati, sono emigrati o morti.
Tu, ancora più ritorta,
impassibile come la Porta dei Leoni, vivevi
ostinata, citando Dante a memoria.

Sopravvissuta al genocida
georgiano dai baffi folti come un serpente.
E nella gloria, senile, scrivevi:
Non riesco a capire se sta finendo il giorno, o il mondo,  
o se il segreto dei segreti è di nuovo in me.

*

Il pipistrello

Leggevo del razionalismo,
il genere di cose che facciamo al nord
all’esordio d’inverno, dove il sole
abdica al giorno alle 4:15.

Forse il mondo è intelligibile
al genio razionale;
forse accendiamo lampade al crepuscolo
per nulla…

Poi ho udito delle ali sopra la testa.

I gatti ed io abbiamo inseguito il pipistrello
in tondo – soggiorno, cucina,
ripostiglio, cucina, soggiorno…

A ogni giro ci sfuggiva

come l’identità del terzo
della Trinità: colui
che ha parlato per mezzo dei profeti,
colui che ha sorpreso Maria
apparendo all’improvviso.

*

Prognosi

Vagavo sola nell’alba galaverna
la mente balzava, dicono i maestri

del distacco, come una scimmia
ebbra. Quindi una grigia sagoma, un gufo,

mi sopravanzò. Un gufo non è
un corvo. Il corvo gracchia

conviviale quando vola,
ma il gufo mi sorpassò in volo

prima che lo captassi, e quando
si posò, non un rollio del ramo.

*

Stagione del fango

Qui in purgatorio la terra brulla
si vede, a parte gli antri ombrosi
dove impera la neve.

Eppure, ogni giorno
un altro animale fa ritorno:
un passero, poc’anzi un’assonnata vespa;
e, al vespero, la puzzola
sbuca dalla tana,
ansiosa di incontrare simili e prede…

Il pavimento della legnaia
esala gelo,
e presto i primi germogli
di asparagi gemmeranno,
le dita di Lazzaro…

Le ferite dischiuse della Terra – dove l’aratro ha
ha solcato il terreno in novembre –
devono essere appianate; alcune irrorate
di semi, e tutte obliate.

Ora il picchio muratore disdegna la sugna,
riprende la sua dieta di mosche, e
la rete, flaccida e unta, si può
smantellare.

Lungo il gradino della veranda
il croco si prepara a un’euforia
di porpora, ma al momento
tiene a freno la lingua…

*

Che venga la sera

Che l’estremo bagliore del giorno
scivoli tra le crepe del fienile, migrando
le balle mentre il sole ormeggia.  

Che la cicala prenda a frinire
come una donna prende ago
e filo. Che venga la sera.

Che la rugiada nidifichi sulla zappa abbandonata
nel folto dell’erba. Che germoglino le stelle
e riveli la luna il suo corno d’argento.

Che la volpe rincasi alla sua tana sabbiosa.
Che s’ammansisca il vento. Che il capanno
muti in nero all’interno. Che venga la sera.

Al fiasco nel fossato, alla pala
nell’avena, all’aria nel polmone
lascia che venga la sera.

Lasciala venire, come verrà, e non
temere. Dio non ci abbandona
senza conforto, quindi lascia che venga la sera.

*

La pera

È un momento di mezza età
sei nauseata, furente
con la tua mente scadente,
atterrita.

Quel tempo il sole
fulgido avvampa,
fa di te un deserto.

Subdolo, come una pera
che marcisce all’interno,
arduo da intuire
se non già troppo oltre.

*

Indietro

Tentiamo un altro farmaco, nuova alchimia
medica, d’improvviso
ripiombo nella mia vita

come un’arvicola ghermita da un fortunale
e poi abbandonata a tre valli
e due monti lontano da casa.

Devo rinvenire la strada. So
che riconoscerò la bottega
dove acquistavo latte e benzina.

Rimembro la casa e il fienile,
il rastrello, le tazze blu e i piatti,
i romanzi russi che tanto amavo,

e la veste da notte in seta nera
che una volta lui ha infilato
nella mia calza di Natale.

*

Pomeriggio alla MacDowell

Ventilato giorno d’estate, ben vestiti
i curatori occupano la prima fila
sotto la pensilina a strisce gialle e bianche.
La loro corsa al capitale è conclusa,
e per un attimo questo è un rifugio sicuro.

Smunto, dopo il tuo secondo intervento, indossi
l’abito grigio leggero che abbiamo comprato otto
anni fa per le occasioni importanti
nella stagione estiva. Le mie mani sonnecchiano in grembo,
sotto lo scialle di cotone fine ricamato
di specchi che abbiamo negoziato l’autunno passato
a Bombay, all’oscuro della tua malattia.

Le gambe delle nostre sedie forano
il prato. Il sole entra ed esce
da grandi nembi, rendendo l’aria viva
di luce dorata, e poi, come se gli spiriti
del cielo fossero in caduta, tutto s’offusca.

Dopo musica e poesia ci approssimiamo alla macchina.
Credo nei miracoli dell’arte, ma quale
prodigio ti terrà al sicuro al mio fianco,
mentre guidi, armeggiando con la radio
in cerca dell’ultimo inning di una partita dei Red Sox?

*

*La vita e l’opera di Jane Kenyon e i suoi rapporti col marito Donald Hall sono ricostruiti a partire dai seguenti volumi: Jane Kenyon: The Making of a Poet di Dana Greene (University of Illinois Press, 2023); Jane Kenyon: A Literary Life di John T. Timmerman (Wm. B. Eerdmans-Lightning Source, 2002); The Best Day the Worst Day: Life With Jane Kenyon di Donald Hall (Houghton Mifflin Harcourt, 2007; The Best Poems of Jane Kenyon (Graywolf Press, 2020).

Il servizio, la scelta e la traduzione delle poesie sono di Fabrizia Sabbatini

*In copertina: Jane Kenyon in 1974. Courtesy Ann Arbor District Library.

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