04 Settembre 2019

“Se ero più alto facevo il poeta”: su Ennio Cavalli, il poeta sardonico. Dal confronto con Virgilio al diario del sequestro Moro

Ennio Cavalli (nato a Forlì nel 1947, vive a Roma dove da inviato della Rai si è occupato prevalentemente di cultura e spettacoli), è un letterato sardonico e mordace, che fa dell’abilità ironica il piatto prelibato di una lunga produzione e di una multifocalità di temi ancestrali: dalla finitudine al dolore, al senso della sconfitta umana per un destino spesso inconcepibile. Stavolta la sua umanità restituisce il dato costitutivo dell’opera di un Menandro, poeta e commediografo dell’antichità greca, imitatore di fenotipi che influenzarono la commedia latina, valente trasmettitore di ilarità estrapolata dai pregi e dai difetti della società. L’analisi psicologica di Menandro non prescindeva dalla severità nei confronti degli attori di una scena teatrale che si ripeteva, ma che non consentiva di formulare definizioni coerenti sulle persone, sempre pronte a mostrare, nei loro comportamenti, il rovescio della medaglia. Non esistono postulati, ma rapporti che determinano la svolta di soggetti coinvolti nel cinismo, nella contesa, nell’inganno e nell’adulazione: punti di fuga degli schemi strutturali delle commedie, direzionate dalla casualità e da fattori ambientali. Ma la vita è una cosa troppo importante per essere presa sul serio, notava Oscar Wilde.

*

Ennio Cavalli, con una certa leggerezza e con un distacco vigile, opta per questa caduca constatazione. Punge e irride nell’ultimo libro, metalinguistico, dal titolo Se ero più alto facevo il poeta (La nave di Teseo, 2019) che ingloba haiku, aforismi, versi e lacerti narrativi, con l’aggiunta, nel finale, dell’immaginario confronto con Virgilio tra coscienza soggettiva e percezioni plurime, sollevato nelle opinioni intercalate dalla spinta emotiva dei due intrattenitori. È stato scritto che Ennio Cavalli ha adottato la formula del “pensiero lungo”, accordato alla parola e al legame con il tempo, con il sovrannaturale, con gli accadimenti che confermano le verità dell’esistenza nella custodia di elementi sia vivi che illusori, riempiti di richiami, di immagini che fanno sorridere, che inanellano un labirinto di sostantivi, aggettivi, puntualizzazioni, rimandi, volteggi e in cui prevale l’elemento visionario. Cavalli, in prosa, scrive umoristicamente, con un atteggiamento perfino farsesco: “La Natura non è crudele, forse neanche indifferente. Funziona come la dea Fortuna. Distribuisce a sua discrezione salute e tosse canina, piaceri e scadenze, carezze, calci negli stinchi, stringhe e siringhe, talenti, dividendi, buoni pasto”. Come ribattendo alle sue stesse esclamazioni, annette in poesia lo stesso dire maturato in narrativa: “La morte ammazza il tempo / meglio di chiunque”. Una scrittura tesa, immanente, che pone in relazione un profluvio di appunti, quasi che un picaro si aggiri nelle strade a meditare a voce alta sul suo canto: “Se ero più solo non mi accoppiavo. / Se ero più bello si vedeva che imbruttivo. / Se ero più giovane non mi davo tante arie. / Se ero più alto facevo il poeta”.  Il tempo, usando l’espressione di Ennio Cavalli, si rinnova, si mescola, ma non si può “spacchettare”. E nel cammino vengono annotati qua e là istanti, passaggi, scivoli. L’impazienza di tracciare una coordinata coincide con l’impazienza della stessa memoria che viene a galla, che si fa recuperare, accertata all’interno del meccanismo compositivo. Come illuminando il buio della notte, la decisione irrevocabile sta nel modulare l’alterità del mondo, ma anche nell’attribuire una paternità all’universo sfilacciato. Un afflato universale arriva ad escludere la dimensione dell’io. La domanda delle domande, che non trova spiegazioni scientifiche, né poetiche, rappresenta il nervo scoperto: Dio c’è? Il mio, il tuo, o quello degli altri? “Quello che c’era, ma si è nascosto e tutti l’hanno dato per sconfitto, per scontato”. L’uomo scava emulando la talpa, ma non afferra alcunché.

*

Cosa dimostra questo eccentrico libro nella realtà odierna, così viscerale, prostrata, insicura? Qual è, per osmosi, il punto di contatto con ciò che si vede, si sente, si respira emergendo fuori dalla letteratura? È l’Italia, la nostra Italia, mai un Paese “tutto d’un pezzo”. L’Italia dei compromessi, difesa in tribunale, negli asili, nei mercati, nei talk show, negli studi di fattibilità. “E che nessuno dica / abbiamo fatto gli italiani ed ecco il risultato, / un popolo abusivo che celebra a distanza / l’anniversario della noncuranza”. Una delle parti più interessanti di Se ero più alto facevo il poeta è il diario sul sequestro Moro (1978) seguito dall’allora giovane cronista Cavalli che si recò con la radiomobile dalla sede della Rai, in via del Babuino, in via Fani, dove erano appena avvenuti l’agguato e la strage della scorta dello statista. Il ricordo lascia ancora l’amaro in bocca, un “arretrato di giustizia” e un senso di rimorso per la guerriglia civile dilagata in inutili carneficine. Un’Italia dove sembrava che nel clima indistinto non si potesse fare a meno di individuare un nemico, vero o presunto. Oggi, forse, nulla è cambiato.

Alessandro Moscè

*In copertina: Ennio Cavalli in un ritratto fotografico di Dino Ignani

Gruppo MAGOG