18 Dicembre 2023

“Fedele al suo destino di poeta vagabondo e maledetto…”. Vita & versi di Carlos Pezoa Véliz

Si è attratti dal negativo della vita di Carlos Pezoa Véliz: un uomo, pare, che poteva tutto e tutto ha perduto.

In realtà, si chiamava Carlos Enrique Moyano Jaña. Nato a Santiago del Cile nel 1879, da un immigrato spagnolo e da una sarta, fu affidato alle cure di una coppia di anziani. Autodidatta, addestrato dalla fame, da un livido desiderio di rivalsa, fu presto ammansito dalla causa politica – a sinistra – in favore dei derelitti. Fu, in sostanza, giornalista, Carlos Pezoa Véliz: nei suoi articoli, una furia schietta, il barbaro verbo di chi crede di vivere tra ingiusti e giustiziati, sostituì i ghirigori retorici degli scrittori dell’epoca. Le sue cronache furono pubblicate su “La Voz del Pueblo”, il quotidiano di Valparaíso e su “La Comedia Humana”, il giornale di Viña del Mar. Spesso firmava con pseudonimo, restando, in sostanza, un paria tra i club delle patrie lettere. La poesia era il suo gergo congeniale: scabra, incattivita, a latrati, che sterzava dalla tradizione simbolista e dai reflui romantici. Ai vampiri e agli scorci lunari, Pezoa Véliz preferiva la carne viva, i cani randagi, la canicola e la polvere. I suoi lari erano Edgar Allan Poe – mediato dall’idolatria francese – e l’incommensurabile Rubén Darío: presto però Pezoa Véliz trovò una sua voce, pur rauca, con la bava.

Un articolo pubblicato sulla rivista letteraria “Altazor”, dal titolo perentorio – Fisonomía inconfundible – parla di Carlos Pezoa Véliz come del “primo poeta cileno in grado di realizzare una voce propria, dalla fisionomia inconfondibile”, eleggendolo, di fatto, a caposcuola della nuova poesia di laggiù, il padre scalzo, diseducato, di Pablo Neruda, Nicanor Parra, Gabriela Mistral. Primato, tra l’altro, che gli è riconosciuto anche da Roberto Bolaño, che a Pezoa Véliz ha dedicato una (brutta) poesia e parole dal fuoco borgesiano:

“Mi chiede della letteratura cilena? Probabilmente è l’incubo del più risentito e grigio e forse più codardo dei poeti cileni: Carlos Pezoa Véliz, morto all’inizio del XX secolo, autore di due sole poesie memorabili, ma – questo sì – veramente memorabili, e che continua a sognarci e a patire. È possibile che Pezoa Véliz non sia mai morto, magari sta agonizzando e il suo ultimo minuto è abbastanza lungo, no?, da contenerci tutti. O almeno da contenere tutti noi cileni”.

Le due “poesie memorabili” a cui accenna – con cervellotico cinismo – Bolaño s’intitolano Nada e Tarde en el hospital. Quest’ultima è stata scritta nelle corsie dell’Hospital Alemán di Valparaíso, dove il poeta trova soccorso in seguito al terribile terremoto dell’agosto del 1906, che rase al suolo parte della costa cilena. Desolazione, angoscia, il bisbiglio della pioggia, confinano il poeta in una solitudine priva di belve, di inquietante purezza. La prima poesia, Nada, narra la desolazione – o il sogno – di morire sconosciuti. Il reiterato ritmo – nada, nadie – è una cantilena funebre: l’ingresso nell’ignoto – il nada-Dio – passa per arcangeliche palate di terra, distribuite dal San Pietro becchino. Nessuno spiraglio di aldilà tempra l’ideogrammatica violenza di Pezoa Véliz.

Le due poesie-manifesto di Pezoa Véliz sono state tradotte in Italia da Pier Luigi Mariani per l’antologia Orfeo, costruita da Vincenzo Errante e stampata da Sansoni nel 1949. Per il resto, Pezoa Véliz resta lontano dai nostri interessi editoriali, troppo spesso di cortile, cortigiani.

La tragedia pare impressa a fuoco sul volto di questo poeta cileno, a suo modo rivoluzionario. Carlos Pezoa Véliz muore a 28 anni, il 21 aprile del 1908, per l’aggravarsi di un’appendicite. In vita, non riuscì a pubblicare alcun libro – la sua opera poetica sarà riscoperta e stampata negli anni successivi. “La stampa dell’epoca riferisce che alcuni amici hanno accompagnato il feretro del poeta; la cerimonia si svolse in silenzio: nessun discorso funebre, nessuna lettura di poesie”. Di volta in volta, lo hanno definito come el poeta triste o il candor de los pobres. Non possiamo non entrare in sintonia con il destino di Pezoa Véliz, sintetizzato con queste parole nella biografia composta dai redattori di Orfeo:

“Fedele solo a se stesso e al suo destino di poeta vagabondo e maledetto… è uno schietto poeta cileno, attaccato alla sua terra, fuori da ogni scuola. Dopo una vita miserabile, morì in una corsia d’ospedale. Le sue poesie uscirono tutte postume”.  

Una strana asimmetria divarica l’opera fisiognomica di Carlos Pezoa Véliz. Nei rari ritratti pare cupo, chiuso in sé, più vecchio della sua età; nelle fotografie è intimidito e malinconico: un uomo ricco di grazia, capitato nel mondo sbagliato.

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Nulla

Oh, quel povero diavolo! Veniva
sempre nella città dove vivevo.
Era giovane, biondo, macilento,
sudicio e trasandato, come fisso
in lontani pensieri.
                                 Una mattina,
d’inverno, lo trovarono riverso
dentro un ruscello prossimo al mio orto
alcuni cacciatori, che la strada,
dietro i cani, cantando, percorrevano.
Frugarono tutte le sue carte:
non trovarono nulla. I magistrati
ne chiesero alla guardia, e questa nulla,
nulla seppe dire loro dell’estinto.
Nulla il vicino Pérez, nulla Pinto,
l’altro vicino. Una ragazza disse
che era un pazzo, un vagabondo,
un morto di fame. Ascoltando quei
discorsi un giovinastro rise: “Sempliciotti!”.
Una palata di terra gli lanciò
il becchino: arrotolò un sigaro,
calò il cappello sulla testa, e via.
Dopo la palata, nessuno disse
più nulla di lui. Nulla, nessuno. Nulla…

*

Sera in ospedale

Nel cortile l’acqua cade
monotona placida lieve
il grigiore tutto invade;
                                 piove…

Desolata è la corsia
io nel letto giaccio infermo:
per fuggire la malinconia
                                 dormo…

Ma la pioggia ora fiotta
presso di me, mi importuna,
lieve, e trasalgo spaventato;
                                          piove…

Vinto allora dall’angoscia
guardo fuori il mondo immenso
mentre cade l’acqua uggiosa,
                                               penso.

Traduzioni di Pier Luigi Mariani

*

Il cane randagio

Magro, sudicio, dal pelo irto
lo rode un’ansia febbrile mentre scava
nella spazzatura; benché sia giovane
emana odore di tomba.

Infinito è il suo viaggio
tra paesi, piazze, fiere:
tutto attraversa come un’ombra
carnale poema della miseria.

Vasta storia di comuni deliri
giorni senza pane, notti senza ricovero.
Nidi di tristezza si agglutinano
nei suoi occhi vitrei, senza vita.

Il derelitto non ha altra visione
oltre a ciò che vedono i suoi occhi
azzurri: la stella della pietà balugina
a tratti tra le pozzanghere.

Quando agguanta un osso
miseria appare per le case:
fugge tra lugubri ululati
inseguito da filari di minacce.

Eccolo. Ha in sé qualcosa di abietto.
Lo accerchia uno sciame di insetti:
trascina la sua disgustosa figura
intonando il triste canto della fame.

Verbo del dolore. Denuncia
scagliata da tempo, inevasa.
Quella belva è il pieno autunno
nella primavera della vita.

Non ha altro che il suo male:
nessuna carità gli è propizia.
La schiena non ha mai sentito
il tocco di una carezza.

Quando c’è festa, ruba
un grumo di carne agli altri
cani: irrompono proteste
tra le bestie artigliate dal collare.

Nelle strade che valichi a passo lento
cerca i tuoi occhi senza folgore:
la tratta di un mendicante macilento
a cui possa fare da guida.

*

Egloga

Amo la cosa che mi assale e ciò che mi assopisce
la luce che brilla, l’ombra notturna;

l’inno della bocca
che tocca la fronte amata
il rumore di seta delle foglie
dopo il passaggio di una ragazza.

Amo il colpo d’ascia, in montagna,
il canto della moglie, in camera;

Amo il crepitio della legna
nella casa, mentre il contadino sogna
esplosioni di spighe rosse, piaghe
di pioggia che scavano la miniera del dolore;

Le ultime preghiere
che si levano dalle lontane valli
orchestrate dal campanaro.

Amo la malinconica elegia
delle frasche nei viali alberati.

Amo la sera
la muta stella
la rima che arde
la pallida luce
che ne discende.

Amo ciò che fiorisce e ciò che si annida
nell’immenso campo della vita;

il Dio che si rivela in un sussurro:
lo amo perché è bello, perché è suo.

Carlos Pezoa Véliz

Gruppo MAGOG