“Perennemente scisso, l’uomo è condannato a un’esistenza errabonda”. L’orrore del doppio: da Hoffmann a Calvino
Cultura generale
Massimo Triolo e Giusy Capone
La rivelazione, infine, nell’ultima lettera, il 28 agosto del 1957, “Comunque sono riuscita a vivere fino a vedere molte cose – grazie al destino, a Dio, agli uomini. Ho vissuto fino all’incontro con te ed ecco ora, fino all’incontro con le sorgenti stesse della vita e della creazione della mamma, ho vissuto fino alla mia personale preistoria!”. Lei si firma la tua Alja, la madre è morta sedici anni prima, l’ultimo giorno di agosto, e lui è Boris Pasternak. “Oggi si è costretti a pagare un caro prezzo per avere il diritto a vivere nel domani”: così termina la lettera Ariadna Efron, la figlia di Marina Cvetaeva; Pasternak era ossessionato dal futuro, dalla sua innocenza, e viveva sbriciolandosi: nel passato riconosceva una intransigenza inquietante.
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Proprio nel 1957 Boris Pasternak termina di scrivere Autobiografia: è l’ennesimo scritto autobiografico, l’ennesimo specchio, potremmo dire – cioè il sasso con cui rompere il riflesso. A differenza de Il salvacondotto, l’autobiografia del 1931, un romanzo scintillante, luminoso, caotico, Pasternak trova, qui, una lingua ferma, come di chi enumeri gli spettri nel marmo. La sua esattezza sfiora l’indifferenza – se è indifeso, BP lo è nei riguardi del futuro, l’anonimo. “Penso che la massima rivalutazione totale, il massimo dei riconoscimenti attendono la Cvetaeva. Eravamo amici”, scrive BP. L’epistolario residuo tra Pasternak e la Cvetaeva racconta qualcosa più di un’amicizia, semmai un estremo sodalizio; un entusiasmo. In Autobiografia Pasternak racconta come “le lettere della Cvetaeva andarono perdute”, durante la Seconda guerra; e della volta, era il 1935, a Parigi, in cui andò a trovarla, “Non ero in me, un’insonnia che mi tormentava da quasi un anno m’aveva condotto sull’orlo della pazzia. A Parigi conobbi il figlio, la figlia e il marito della Cvetaeva…”. Ecco: il figlio piccolo della Cvetaeva, ‘Mur’, morì al fronte, neanche ventenne; la figlia, Ariadna, nata nel 1912, cominciò a scrivere, con luminosa ossessione, a Pasternak. Le sue lettere non si sono perse.
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L’epistolario tra Ariadna Efron e Boris Pasternak – raccolto in Italia come Le tue lettere hanno occhi, da Archinto, nel 1987, “non disponibile” da tempo, che disgrazia, io l’ho ricevuto per grazia di Claudia Sogliano, traduttrice del libro insieme a Bruno Mozzone – è una testimonianza straordinaria per disparità. Se Ariadna, ‘Alja’, infatti, scrive a Pasternak per ostinarsi al passato, Pasternak vorrebbe staccarsi per sempre da quel passato, spazzarlo via da sé. Se per ‘Alja’, allora, Pasternak è una casa, una sala oceanica, con il tavolo da pranzo in mezzo, dove lei può nascondersi, lì sotto, e immaginare un bosco in quattro gambe, e sognare; per Pasternak ‘Alja’ è una prigione, il tagliagole. Se Pasternak, intendo, relega la Cvetaeva nel cristallo del ricordo, la figlia, Ariadna, gliela sbatte addosso viva, calda di genio, potente. L’epistolario, in questo, è spietato: le lettere di Ariadna sono lunghe, articolate, moltissime, belle – così il 26 agosto 1949: “Da Krasnojarsk abbiamo navigato sull’Enisej, molto lungo e lontano: mai nella vita avevo visto un fiume così grande, forte nella sua indifferenza, graficamente netto e a tal punto nordico. E mai avrei pensato di vederlo io stessa. Le rive si sono trasformate da taiga in tundra e dal nord veniva freddo come dalle fauci di una belva extraterrestre” – mentre le risposte di Pasternak sono stitiche, rare, educate, bianche. ‘Alja’ gli scrive in forme lussureggianti, come in cerca di approvazione; cerca l’amore, forse, di certo, scrive a Pasternak come scrivesse a sua madre, perché la lacerazione del suicidio è insopportabile e lui la completa, la invalida. Pasternak invia soldi ad ‘Alja’, finanzia il suo destino fortunato, le invia il manoscritto del Dottor Zivago, più per darle a intendere di essere ‘scelta’ che per attendersi un responso.
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Il 25 maggio del 1950, piuttosto, Pasternak si svela: “Ogni volta che il discorso cade sui libri o i manoscritti della mamma, per me è come un coltello al cuore. È certo un rimprovero che annienta e distrugge il fatto che non mi sia rimasto nulla di mio padre, della Cvetaeva, di Rilke, di caro come la vita e che, come la vita, se ne è andato… Questa perdita non si può giustificare né con il mio modo di vivere, né con la piega che ha preso la mia vita…”. Pasternak non vuole sapere più nulla del suo passato, e ciò che ha perso non è per malia del caso, ma per desiderio di dissoluzione. Chi è grande – il talento straborda fino ad annientare chi lo porta, slaccia i cancelli – non conserva tracce del proprio passato, non ricorda, è proteso tra le fauci del futuro: sono altri, semmai, a ricordarsi di lui.
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Legata al padre, all’attività controrivoluzionaria, Ariadna torna a Mosca, nel 1937, dopo i vagabondaggi dell’infanzia, tra Berlino, Praga, Parigi, con la famiglia, complice della madre. Nel 1939 è arrestata e confinata in un campo di lavoro. Anche il padre, spia per i ‘bianchi’, viene arrestato, e ucciso. Ariadna sconta la prigionia fino al 1948; nel 1941 la madre si ammazza, il fratello muore in guerra, nel 1944. È come se ‘Alja’ fosse, della solitudine, l’orfano: un buco supremo, il tabernacolo di tutte le assenze. Così, appena liberata – ma la riabilitazione è del 1955 – inizia a scrivere a Boris Pasternak – “Scrivimi almeno un poco di te. Mi hanno detto che ti sei sposato. È vero?” – a cercare tracce della madre, fino a Elabuga, il tugurio dove si è uccisa. Talentuosa scrittrice, abile nel disegno, ‘Alja’, con la nobiltà dei santi, delle creature scelte da più mondi, sceglie di sacrificare la propria vita per realizzare quella, troncata, della madre. Si dedica a lei, scoprendo testi, costruendo un archivio, curando la pubblicazione analitica delle opere di Marina Cvetaeva.
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Ariadna è piena di una vitalità barbara, bruciata dalla prigionia (“Con il sole tutto diventa agile, flessibile, i ramoscelli dei larici, i rami degli abeti, folti come code di volpe, mentre i tratti perdono la loro asciuttezza, nitidezza, schematicità invernale. Alla luce del sole sbucano ragazzini e cuccioli, il raccolto di questo inverno, cresciuti nelle isbe alla pari di vitellini e galline”, scrive il 17 aprile 1950); Pasternak parla sempre da un aldilà, da una sparizione che sfiora il paradosso. “Libri, carta, minute, fotografie, corrispondenze. Io distruggo, getto via o do via tutte queste cose, limitando la parte manoscritta all’attuale lavoro in corso mentre lo eseguo… Quando non ci sarò più di me rimarranno solo le tue lettere e tutti trarranno la conclusione che non conoscevo nessuno eccetto te”. Che virtuosismo verbale! Da un lato, allora, una che è stata eliminata dalla storia raccoglie in adorazione reliquie – Pasternak è una di queste –; dall’altro il poeta che elimina, che scrive estinguendo.
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Più volte Ariadna fa riferimento alla madre come al labirinto – lei, però, è una Arianna a contrario, che con il filo tenta di ricomporre i vicoli, sibilanti, di un labirinto in frantumi. Né eroe né mostro, Pasternak è il re, che mira sodali e assassini con lo stesso sguardo, la stessa benedizione.