09 Ottobre 2023

“Cercate l’oscurità e il silenzio”. A Venezia con Maurice Barrès

Troppe parole, troppe impressioni si sono sedimentate attorno ai luoghi più celebrati del turismo d’ arte, producendo un’inflazione verbale e visiva che allontana dalla loro comprensione anziché avvicinarli. Si deplora giustamente la trasformazione di tutto il mondo in una sorta di Disneyland a uso e consumo di turisti distratti e fermi solo all’epidermide delle cose e l’evidenza di questo assalto ai monumenti in cui tutto si riduce a una serie di cartoline illustrate, di immagini votate alla vita effimera di Instagram e dei social si accompagna all’ indigestione di parole che opprime i luoghi dell’anima. 

La grande orgia verbovisiva della modernità non è forse più passibile di un salto all’indietro, di una revulsione, ma è possibile comunque coltivare ancora individualmente un’idea dei luoghi. 

Chi abbia avuto la fortuna di rivedere Venezia nell’atmosfera di sospensione e rarefazione seguita ai lockdown ha riscoperto finalmente una città del silenzio, depurata dalle turbe di assalitori frenetici, restituita a uno sguardo quasi immemoriale, a ritmi in cui il visitatore poteva indugiare indisturbato. Al di là della fortuita riscoperta di Venezia dovuta all’ingrato prezzo della carcerazione pandemica, si può continuare a ripercorrere la città attraverso le pagine dei viaggiatori innumeri che vi sostarono, consegnandoci impressioni ancora vivissime. 

Uno dei meno noti oggi, almeno in Italia, è quella grande figura della scena letteraria europea al crocevia dei due secoli che fu Maurice Barrès, nome impopolare ma che sarà sempre caro ai cultori della Carne, la Morte e il Diavolo di praziana memoria. Barrès è una figura scomoda per l’attualità, uno spirito antimoderno e “inattuale” nel senso nietzscheano come pochi altri, inconciliabile con la facilità accomodante, l’approssimazione, la correttezza ostentata e svuotata di ogni opinione che sembra dare l’impronta ai nostri tempi. Egli fu accesissimo individualista e avrebbe senz’altro sottoscritto la fede nei Grandi Solitari a scapito della massificazione teorizzata in seguito da Ernst Jünger. Il suo “culte du Moi” non era un tripudio narcisistico, un accarezzamento egotistico fine a sé stesso, ma una difesa strenua dell’individualità e delle sue radici contro i “Barbari”, termine che in Barrès finiva col designare tutti coloro che si oppongono alla libera espansione dell’ Io.

Proprio la fedeltà alle radici rese il suo individualismo conciliabile con un acceso nazionalismo e con altre sue posizioni sempre appassionate e scomode. Barrès fu accanito antidreyfusardo all’epoca del clamoroso processo e della scesa in campo di Zola con il “J’accuse” ma riscoprirà in seguito gli Ebrei esaltandoli come una delle grandi famiglie spirituali della Francia. Tradizionalista, cultore dell’estetismo, deputato nelle file del generale Boulanger, fu interventista nel corso del primo conflitto mondiale al punto da essere bollato come l’“usignolo dei massacri”. L’interventismo di Barrès dovrebbe essere ricondotto a tutto il brodo di cultura che lo generò e sarebbe ingeneroso condannarlo a posteriori in modo troppo netto per il semplice fatto che la gran parte dell’intellighenzia dei paesi belligeranti si era schierata a favore della guerra in una vera e propria ubriacatura vitalistica. 

Chi non ricorda fra i nostri scrittori l’atroce pagina di Papini sui cavoli che avrebbero mangiato i francesi, concimati dalle fanterie tedesche, o le grasse patate che si sarebbero raccolte in Galizia, fecondate dai massacri in corso? E chi non ricorda le tirate belliciste di un Marinetti, “Cretino Fosforescente”, epiteto datogli da D’Annunzio, il cui interventismo, seppur condannabile, era ben altrimenti carico di suggestioni vitali? O i compiacimenti estetizzanti di un Renato Serra nell’“Esame di coscienza di un letterato”, dove, in pagine di meravigliosa bellezza, il critico cesenate si consegnava vilmente allo slancio della guerra, a quello che Croce poi definirà seccamente nella Storia d’Italia come “un fremito voluttuoso” (pare che in privato il filosofo avesse causticamente detto che Serra voleva la guerra come si vuole una femminetta).

In ragione di questo contesto di imbarbarimento bellicista la voce di Barrès andrebbe almeno ricondotta a tutta una situazione, a tutto un quadro in cui si inseriva. 

Comunque, valutazioni morali e politiche a parte, Barrès rimane una figura altamente significativa del panorama letterario europeo della sua epoca, e, per dirla col suo estimatore André Malraux, “un caporale in politica, un generale in letteratura”. Certo la parte per noi più viva della sua opera resta quella del sacerdote della Bellezza, votato a celebrarne i fasti, proprio in relazione a Venezia, in “La Mort de Venise”, all’interno di “Amori et Dolori Sacrum”. Queste pagine dimenticate, rese per la prima volta in italiano negli anni Trenta da Decio Cinti (il segretario privato di Marinetti), furono poi riproposte nel 1985 dall’editore Novecento col titolo, calco letterale manniano, “Morte a Venezia”. 

La percezione veneziana di Barrès è ancora strettamente figlia delle Pietre di Venezia di Ruskin (e in quella piccola edizione di Novecento il corredo iconografico era infatti costituito dai vibranti disegni di Ruskin con scorci della Serenissima). Venezia si configura come una città dei sognatori, un rifugio dei vinti, che possono specchiare nel suo meraviglioso disfacimento il proprio disfacimento interiore. La Bellezza si alimenta dal suo stesso processo di decomposizione, di lento e insondabile approssimarsi alle correnti del Lete.

Si affacciano in queste pagine il Cimitero di San Michele, primo modello dell’Isola dei Morti di Böcklin ed emblema dell’approdo finale della Bellezza, ma anche luoghi relativamente meno transitati e più discosti come Murano, Burano, Torcello, Mazzorbo e Chioggia, quest’ultima resa stupendamente dalla sensibilità preromantica del pennello di Leopold Robert. La Repubblica di San Marco, la Venezia dogale il cui trapasso verso la Repubblica era stato meravigliosamente descritto nelle “Confessioni” del Nievo appare a Barrès morta quanto l’Egitto dei faraoni.

Il mondo incantato fissato dalla grande pittura veneziana e che nel vedutismo di Canaletto e del Guardi aveva avuto i suoi ultimi colpi di coda è scomparso per sempre già all’ epoca dello scrittore francese, che già lamentava (siamo negli ultimi anni dell’Ottocento!) le carovane dei turisti che si sostituivano ai Veneziani e l’avvento di una nuova Venezia cosmopolita, che i visitatori privavano della sua solitudine. Come in una costruzione a matrioska le impressioni di Barrès si sovrappongono e si confondono con quelle dei suoi grandi predecessori fra i canali e le calli veneziane, da Goethe a Chateaubriand, da Byron sino al duo romantico di de Musset e di George Sand, da Gautier a Taine a Wagner, che a Ca’ Vendramin Calergi morì, e in cui il suo ultimo respiro, come cantava D’ Annunzio, “odono le anime perpetuarsi come la marea che lambe i marmi”.

Goethe e Chateaubriand paiono a Barrès speculari nel loro essere viaggiatori a occhi bendati, il primo vittima di un pregiudizio classicista, in cui l’immagine di Venezia viene cristallizzata nella fissità del marmo, il secondo vittima di un pregiudizio romantico, antitetico eppure a esso complementare.

Barrès cita stupendamente un grande poeta anch’egli dimenticato, Lamartine, forse perché vittima del suo stesso esacerbato romanticismo:

“Se dovessi ricominciare la mia vita, non vi cercherei la felicità, perché so che non esiste, ma vi cercherei con cura l’oscurità e il silenzio, le due divinità domestiche che custodiscono la soglia dei meno infelici”.

Al visitatore veneziano non dovrebbero mai mancare al fianco queste due divinità domestiche e gemelle a fargli da viatico nell’ intrico labirintico delle sue pietre e delle sue acque. 

Alessio Magaddino

Gruppo MAGOG