
“Finché tutto bruci il fuoco del giudizio”. Sulla poesia di Gerard Manley Hopkins
Poesia
Giorgio Anelli
Tra le altre cose, Borges sciacquava i panni nel Mar del Nord. Era il 1953 e il divino, ormai cieco, tentava di decifrare le rune. Si arrese.
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In quel giro d’anni Borges stende la bozza della Storia dell’eternità, redige un pezzo su Ulfila (che inventò l’alfabeto cirillico per gli ariani) e poi, per non farsi mancare nulla, ne fa un altro sul re nordico Coifi. Insomma, senza inventare una lingua, come Joyce in Finnegan, fa il cartomante degli alfabeti altrui.
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È comprensibile in fin dei conti che uno come lui, inerme davanti alla stesura di un romanzo lungo (“scrivo una pagina sui gauchos e per me si chiude lì”, dirà a Graham Greene) fosse allibito davanti alle rune. Le rune sembra che abbiano il dono della sintesi, molto più di un haiku. Ma qui è faccenda di atmosfere, di gradazioni di sensibilità che variano con le distanze dei mari.
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Il saggetto che proponiamo per ampie falcate qui sotto è ripescato dal numero di Sur del 1953. Vi compare un bel corteo in quel numero, tra gli altri Onetti, Buber e quel noioso di Pratolini. Borges si incunea nel fascicolo come un fachiro, fa il facchino di messaggi distanti. Ragiona insomma sul legame che unisce rune e romanzo.
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Non è una trovata peregrina. In effetti, scartando tra le note di Flaubert giovane, c’è un abbozzo di resoconto sulle pietre bretoni di Carnac. Peccato che nell’ultima edizione italiana di inediti questo lavoretto non sia stato riprodotto se non per il suo titolo, in una nota scalcinata. Mistero.
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L’idea di Borges è questa: si può comporre un romanzo al modo in cui si incide una runa. Ad una condizione: dotarsi di bola de cristal. Elevare il caos della semplicità costretta in simbolo fino a farla esplodere nel solido massiccio di forma romanzesca.
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Ma Borges era troppo lucido per affaticarsi lo sguardo alla lettura delle rune. Così lasciò perdere romanzi e rune mitologiche. E qui, sfiancata e aggirata l’agiografia borgesiana, godiamoci il pezzo prelibato. (Andrea Bianchi).
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Jorge Luis Borges, Destino scandinavo
Gli epitaffi vichinghi percorrono come cicatrici la faccia della terra per mezzo delle pietre runiche. Una di queste dice: Tola eresse questa pietra in memoria di suo figlio Harald, fratello di Ingvar. Partirono in cerca di oro e andarono lontano come l’aquila quando raggiunge l’Oriente. Morirono al Sud, in Arabia.
Un’altra dice: Possa Dio aver pietà delle anime di Orm e Gunnlaug benché i loro corpi giacciano a Londra.
Quest’altra fu trovata su un’isola nel Mar Nero: Grani ha costruito questo carro in memoria di suo fratello Karl.
Quest’altra fu scavata su un leone di marmo trovato al Pireo e poi portato a Venezia: I guerrieri hanno inciso a lettere runiche. Uomini di Svezia le hanno deposte sul leone.
E d’altro canto monete greche e arabe si ritrovano in Norvegia insieme a catene dotate e antichi gioielli orientali. (…)
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Snorri Sturluson a inizio tredicesimo secolo scrisse una serie di biografie di re del nord. Un’altra testimonianza della vastità della sfera scandinava sta nella nomenclatura geografica. In quelle pagine si legge di Jorvik (York); di Biarmaland, che è Archangelsk o forse sono gli Urali; di Nörvesuud (Gibilterra); di Serkland (Terra dei Saraceni) che confina coi regni Islamici; di Blaaland (Terra dei Blu o Terra dei Neri), che è l’Africa; di Saxland o Sassonia, cioè la Germania; di Helluland (Terra delle Pietre lisce), che è il Labrador; di Markland (Terra delle Foreste), che è il Newfoundland lì vicino; e di Miklagard (Vasta popolazione), che è Costantinopoli dove sino alla caduta dell’Impero le guardie di corte furono Svedesi e Anglosassoni.
Nonostante la vastità della lista non si tratta proprio di qualcosa di epico e o di imperiale. Cortes e Pizarro conquistarono terre per i loro re. Le prolungate spedizioni dei Vichinghi erano individuali. (…)
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A fine dodicesimo secolo, vent’anni prima che Dante componesse la Vita nova, il rigore classico della prosa islandese coesiste (fatto notevole) con una poesia barocca. I poeti non dicevano corvo ma cigno rosso o cigno di sangue. Non dicevano carcassa ma carne o cereale del cigno di sangue. Le loro parole per indicare il sangue erano acqua della spada o rugiada della morte. Lo scudo era la luna del brigante.
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Il realismo del picaresco spagnolo soffre per il suo tono sermoneggiante e per una certa pruderie riguardo le materie sessuali (fatta eccezione per quelle escrementizie). Il realismo francese d’altronde oscilla tra la stimolazione erotica e quel che Paul Groussac chiamava fotografia da nascondere nella pattumiera. Il realismo statunitense sta tra lo sdolcinato e il crudele. Ha scritto con ficcante esaltazione William Paton Ker: “La maggior conquista del mondo antico nei suoi ultimi giorni fu la prosa storica islandese che avrebbe avuto la virtù di cambiare il resto del mondo. Solo che rimase una prosa sconosciuta e incompresa” (English Literature, Medieval, 1912). In un’altra pagina di un altro libro scrive che “la grande scuola islandese morì senza un erede finché i suoi metodi non furono reinventati in modo indipendente dai grandi romanzieri dopo secoli di naufragante incertezza” (Epic and Romance, 1896).
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A mio giudizio questi fatti sono sufficienti a definire lo strano e futile destino delle genti scandinave. Nella storia del mondo le guerre e i libri scandinavi è come se non fossero mai esistiti. Tutto rimase isolato e senza traccia quasi fosse passato in sogno o nelle sfere di cristallo dove fissano lo sguardo i chiaroveggenti.
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Nel dodicesimo secolo gli islandesi scoprirono il romanzo – l’arte di Flaubert, quell’altro normanno – e questa scoperta è tanto segreta e sterile, per l’economia del mondo, quanto la loro scoperta dell’America.
Jorge Luis Borges
*traduzione di Andrea Bianchi