10 Aprile 2020

Victoria Ocampo, la regina della letteratura. Storia dell’ideatrice di “Sur”, corteggiata da Drieu e da Tagore, adorata da Borges e da Camus

Spigliata, scontrosa, “una oligarca”, dicevano; affascinante – lo dice una fotografia di Man Ray –, “quella bellissima milionaria argentina”, precisava Virginia Woolf, con cui intrattenne un rapido epistolario, a cui dedicò un libro, Virginia Woolf en su diario (1954). Voleva fare dell’Argentina il centro del mondo, l’equatore della letteratura planetaria – ricchissima, di antica genia aristocratica, educata tra Londra, Ginevra, Parigi (il francese fu la sua prima lingua), piuttosto, lavorò affinché il suo dito mignolo fosse la Delfi della cultura del tempo. Ci riuscì.

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È pressoché impossibile districarsi tra l’armeria di relazioni che hanno punteggiato la vita di Victoria Ocampo – relazioni, s’intende, in cui è lei, sempre, a detenere lo corona. Avrebbe compiuto 130 anni lo scorso 7 aprile, è nata a Buenos Aires e lì riposa, in un trionfo di marmi, dal gennaio del 1979; morì a 88 anni – infinito raddoppiato al contrario –, l’articolista del “New York Times” ricordò una sua intervista del 1966 in cui lei, imperiale, disse, “mi attaccano perché pubblico troppi stranieri: di certo, non pubblicherò mai chi non sa scrivere in modo eccellente”.

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A New York, tra l’altro, la Ocampo era atterrata nel 1946 per conoscere Albert Camus. “Il corridoio che circonda la mia casa è come il ponte di una nave, una nave che naviga sul verde. Era estate. Avevo appena letto Caligola, il lavoro di uno sconosciuto. Mi sembrava di conoscerlo da sempre. Cominciai a tradurlo”. Camus è ospite della Ocampo, nel 1949; lei fa di tutto per divulgare la sua opera in Argentina, il loro rapporto è testimoniato dalla Correspondencia (1946-1959) edita da Sudamericana lo scorso anno.

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D’altronde, il mix fascino-soldi-superbia intellettuale aveva già vinto un mucchio di scrittori. Nel 1929 comincia il rapporto con Pierre Drieu La Rochelle, che “più tardi paragonerà il ruolo avuto da lei nella sua vita a quello che ebbe Madame de Staël nell’esistenza di Benjamin Constant” (Massimo Cescon), riassunto nell’epistolario edito da Archinto come Amarti non è stato un errore. Lettere 1929-1944 (2011). Qualche anno prima, è il 1924, alcune fotografie la ritraggono, in posa estatica, di fianco a Tagore, poeta, mistico, Nobel per la letteratura nel 1913. Visse un paio di mesi nella casa di lei a San Isidro: lei aveva 34 anni, lui 65. Le dedicò un florilegio di poesie, si videro un’ultima volta nel 1930, lei, molti anni dopo, diede fiato narrativo ai ricordi in Tagore en la Barrancas en San Isidro (1961).

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Donna di spericolata energia, la Ocampo è a Roma nel 1935, intervista Benito Mussolini, nonostante ne disapprovi l’azione politica; fu arrestata nel 1953 perché ostile al Presidente Péron – la difese, pubblicamente, Aldous Huxley; andò in estro per Lawrence d’Arabia, di cui tradusse parte di The Mint e a cui dedicò due libri, 338171 T.E. (1942) e Lawrence de Arabia y otros ensayos (1951): non potendolo conoscere di persona – era già trasvolato all’altro mondo – si presentò dal fratello e dalla madre di lui. Con inesorabile energia, tra gli anni Cinquanta e Sessanta tradusse William Faulkner e Graham Greene, Lanza del Vasto e Colette, Dylan Thomas e Ghandi. Naturalmente, pubblicò tutto con la sua casa editrice.

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Il capolavoro sommo di Victoria Ocampo, piuttosto, è la rivista Sur, “non semplicemente una rivista o una istituzione, piuttosto, una tradizione dello spirito”, scrisse Octavio Paz. La rivista nasce nell’estate del 1931, è inaugurata da una “Lettera a Waldo Frank” (scrittore americano dai vezzi marxisti nel club di Victoria), e porta in copertina, a caratteri cubitali, la scritta: “Trimestrale pubblicato sotto la direzione di Victoria Ocampo”. Nelle fotografie che ne festeggiano i primi trent’anni, Victoria troneggia, tiranneggia, elegantissima, occhiali scuri, di moda, in mezzo a un’ammucchiata di maschi, una fiera dell’intelletto. “Di sera, era ottobre, il 1929, camminavo per il quartiere Palermo. L’aria tremava pesante per della prossima tormenta e l’odore delle rose e della terra era compatto, come nebbia. Eppure, passeggiavo senza assaporare questa dolcezza. Mi rimproveravo con violenza la mia inattività, e per la prima volta il nome di questa rivista – che non aveva nome – fu pronunciato. Esiste l’angoscia di chi spera, in piena attività, che una tregua, una interruzione forzata lo costringa al riposo. Ed esiste l’angoscia di chi, in piena inattività, spera che qualche compito gli sia imposto dalle circostanze”. Queste sono le prime parole che inaugurano il primo numero di Sur. In cui compaiono testi di Drieu – Cartas a unos desconocidos – e di Jules Supervielle, di Walter Gropius, di Benjamin Fondane – El cinema en el atolladero.

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Naturalmente, in quel primo numero di Sur appare anche Jorge Luis Borges, con El Coronel Ascasubi. “A Buenos Aires ero un ragazzo, uno sconosciuto. La Ocampo fondò Sur, mi chiamò, per me fu una grande sorpresa. Fu lei a vedermi, quando per gli altri ero invisibile. Se fui nominato direttore della Biblioteca Nacional lo devo a lei”, ricorda lui. “Se mi chiedono un ricordo di Victoria Ocampo, è curioso, ricordo che ci siamo sempre voluti bene. Eppure, non eravamo d’accordo su nulla”. In effetti: i grandi racconti di Borges sono pubblicati da Sur, e per le edizioni Sur della Ocampo JLB pubblica Ficciones. Per lui la Ocampo inaugura il genere ‘agiografia borgesiana’, con Diálogo con Borges (Sur, 1969; tradotto nel 2016 da Archinto). Borges fu incaricato di onorare la sua morte con un discorso onesto, cosa che fece – “Era la figura più eminente di questo paese, pensava al mondo come a una festa della cultura”. Victoria, sofisticata femminista, non distingueva l’intelligenza dall’aristocrazia, desiderava un governo di pochi savi: la sorella, Silvina, poetessa di talento, si accasò con Adolfo Bioy Casares, che con Borges scrisse una manciata di libri (tra gli altri: Cronache di Bustos Domecq e Sei problemi per don Isidro Parodi).

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Il ménage della Ocampo, è logica, non andava a Witold Gombrowicz, che nel suo Diario dedica alla “anziana aristocratica piena di milioni la cui entusiastica ostinazione l’aveva portata a diventare amica di Paul Valéry, a ricevere Tagore e Keyersling, a prendere il tè con Bernard Shaw e a entrare in confidenza con Strawinskij”, un ritratto spietato. “Quell’insistente sentore di milioni, quell’intenso profumi di soldi aleggiante intorno alla signora Ocampo mi toglievano la voglia di fare la sua conoscenza. Si diceva che un famoso scrittore francese le si fosse buttato in ginocchio davanti giurando di non alzarsi finché non avesse ottenuto i venti o trentamila pesos che gli servivano per fondare una rivista letteraria. E li aveva ottenuti giacché, come poi aveva detto la Ocampo, ‘Che altro potevo fare con quello lì in ginocchio, che non voleva saperne di alzarsi?’”. Gombrowicz è tagliente: in questo caso, però, cede al livore. Elevare un inno al sottosuolo – “Io ero affascinato dagli strati inferiori del paese, mentre quelle erano le altre sfere” – equivale a idolatrare il lusso, non elevarsi oltre il bozzettismo grottesco vuol dire, in fondo, desiderare quella potenza che gli è preclusa. Il problema, in effetti, non sta nella Ocampo, sagace maîtresse, ma nel damerino che le baciava le ginocchia per ottenere portafogli e favori. Tra l’altro, su Sur hanno pubblicato Alejandra Pizarnik e Gabriela Mistral, Ernesto Sabato e José Ortega y Gasset; nelle sue edizioni la Ocampo ha pubblicato Camus e Henry Miller, Faulkner e Nabokov, Jean Genet, André Malraux, Yukio Mishima, Walter Benjamin, Henri Michaux… Rischiava di essere l’attico della cultura ‘che conta’ – non lo fu: l’ondivago, parziale, eccentrico fiuto della Ocampo permise a molti l’esordio e quel tot di fama. Pubblicare per Sur, insomma, era come dire, fino a dieci anni fa, pubblico per Adelphi.

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Più che altro, il regalo di compleanno ce lo fa la Biblioteca Nacional, digitalizzando i numeri di Sur, una manna, un mattatoio di grandezze. Estraggo a caso – cioè facendo tomistica sul caos, secondo la rapacità di Borges – segnalando ciò che per nitidezza mi abbaglia. Luglio 1935: Jung scrive dei “tipi psicologici” e Borges recensisce Chesterton. Febbraio 1936: numero dedicato ad Aldous Huxley e a Virginia Woolf. Settembre 1936: apre Stefan Zweig (Resurreccion de Jorge Federico Händel), Supervielle e Michaux speculano sulla poesia, Borges scrive intorno a Shaw. Il numero del marzo 1948 è un “Homenaje a Gandhi” con testi di François Mauriac, Lanza del Vasto, Romain Rolland, la traduzione del carteggio tra Gandhi e Tolstoj. Nel febbraio del 1959 appaiono pezzi di Gustav Herlin (La victoria de Pasternak), di Hector Murena, di Thomas Merton, di Juan Rodolfo Wilcock. Nel numero di aprile del 1960, Borges omaggia Alfonso Reyes e la Ocampo scrive di Camus; si onora Vladimir Nabokov (il “Sebastian Knight”), ma si recensisce anche Il gattopardo di Tomasi di Lampedusa. La faccio corta: è davvero una festa. La grafica è ineluttabile: una lunga freccia preme, dall’alto verso il basso, lungo la copertina, colpendo la U di Sur. Una specie di indicazione che rovescia il globo – la cultura si fa da questa parte. E di scettro. E di allarme. La Ocampo fu regale e fu regina, virgo virile, specie di Elisabetta del proprio tempo. Regnò a lungo. Non doveva essere male lucidarle le ginocchia, visti i risultati. (d.b.)

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