
Il “caso Bontempelli”: una vigliaccata all’italiana
Politica culturale
Votati. Il voto è dedica e desiderio. «Bisogna entrare in un voto, indossare un voto», scrive il 14 marzo del 1932. Indossare il voto non significa non avere paura della morte. Vuol dire adempiere la morte, redimerla. Chi è votato all’arte o a Dio – è lo stesso – non è di questo mondo.
Bastano dieci poesie per essere il più grande. Gino Bonichi, cioè Scipione, un nome che si addice ai generali romani e agli arcivescovi vaticani, è noto come pittore, il più viscerale, istintivo, potente, radicale, angelico della cosiddetta “Scuola Romana”, costruita con Mario Mafai e Renato Marino Mazzacurati. «Dall’autunno 1929 all’autunno 1930 il Bonichi dipinse e disegnò senza soste, faticando, penando, spinto dall’urgenza angosciosa di rivelarsi […]. Il Bonichi entusiasta, sensuale, consumò in quel breve periodo la propria esperienza d’arte e la sua stessa vita, creando le opere più note» (Giuseppe Marchiori). In quegli stessi anni Scipione scrive dieci poesie straordinarie, tese tra il miracolo e l’abisso. Versi incisi a fuoco, scritti con la lucidità del profeta, di chi sa l’epica che ci attende oltre la carne. «Tutto ci abbandona a nostra insaputa»; «Sento gli strilli degli angioli/ che vogliono la mia salvezza»; «Mise le mani per terra ed era simile/ ad una bestia»; «Nessuno t’aspetta/ e tu meravigli i boschi illuminandoli». Rivelazioni solari di angeli in cagnesco, di pietre nella cui orbita d’insetti si accumula Dio. Nessuno sa, nel tracollo della poesia del Novecento, la semplicità salvifica di Scipione.
Scipione sa, gravato dal male. La prima volta nel 1919, pleurite. Poi dal 1931 lo devasta la tubercolosi. Nato nel 1904, Scipione muore nel 1933. Oltre al male, su di lui pende la parola di un enigmatico frate spagnolo: gli fu detto che non avrebbe visto i suoi trent’anni. Profezie provenienti da deserti biblici. Scipione, più di tutto, amava leggere il libro dell’Apocalisse.
Nel 1938 Enrico Falqui raccoglie le poesie di Scipione in una placca edita da Scheiwiller, Le civette gridano. Nel 1943, per l’editore Vallecchi, Falqui pubblica le stesse poesie insieme ad altri frammenti, il diario, alcune lettere, scritti sull’orlo della malattia, come Carte segrete. In quello stesso anno Luciano Anceschi lo innesta tra i Lirici nuovi, tra Ungaretti, Quasimodo, Montale. Nel 1982 l’editore Einaudi riprende Carte segrete, con una introduzione appassionata di Amelia Rosselli: «la sua poesia è calma, candida, sensoria sì, quasi più dei quadri, ma in essa v’è una tranquillità non espressionistica che la rende del tutto individuale e difficilmente classificabile anche in questi moderni tempi». Scipione è il poeta improbabile, imprevisto, inclassificabile.
L’opera scritta di Scipione è abbacinante, bacia chi è disposto a perdere ogni cognizione di sé. Va soppesata come un breviario, come si legge il libro della Sapienza, o Epitteto, o Pascal. L’atto estetico ha un equivalente nel terremoto etico che provoca. Così è la poesia – come Dio: annuncia la fine dei tempi, chiede una conversione radicale, reclama tutto. Nel 2017 l’editore Raffaelli pubblica una edizione delle poesie di Scipione, Le stelle cadono accese, con alcune opere.
Scipione sembra inventarsi un Reverendo a cui consegnare la sua vita. Costui, piuttosto, pare un inquisitore, uno che sa intagliare l’anima con le unghie. «Ho schifo di me stesso», gli scrive, perché è mistica la visione del corpo che si corrode predato dal male. Come si sgretolano le mura di Gerusalemme: dietro le pietre salomoniche cova la luce. Come la serpe rinasce dall’oblio della vecchia pelle, così l’uomo deve perdere la carne per riacquistarla.
La fama non arriva mai “postuma” – come nel caso di Scipione – è lo scrittore a essere sempre postumo, al di là di tutti, anteriore a ogni scrittura “pubblica”, smarcato, scartato. O si scrive fronteggiando la morte – perciò affrontando la vita – altrimenti si scrive per le medaglie offerte dai salottieri. Qualcuno è pronto ad avvicinare la scrittura di Scipione, così rara, misera e radiosa, alla sua pittura, reattiva – Scipione è di una consapevolezza di diamante: «Tosi è ottocento fracico»; «Casorati è merda»; «Soffici per me non esiste»; «Carrà gira rigira con la metafisica è ritornato a Palizzi e fa le vacche con i cagnoletti», d’altronde, «tutti, tutti girano intorno – ad un modulo ottocentesco». Il termine di confronto – della scrittura più che della pittura – è El Greco, «un visionario. Con la sua pittura sconvolge le menti, le chiese si popolano di incubi religiosi […]. La bellezza intangibile dei personaggi divini si sforma, si corrompe, ad ammonire le genti: per dire loro che col malcostume stanno uccidendo la bellezza divina». Eppure, non c’è marchingegno morale nelle poesie di Scipione – in esse egli è al di là della colpa, come un uomo che con l’ultimo sguardo ammiri la novità del mondo.
Bisognerebbe leggerlo con i coltelli trafitti nel palmo – da stigmatizzati. Basterebbe inchiodare con la cera una candela, sulla spalla.
Eppure il dolore non è sufficiente, suppura rabbia, suppone odio – nel dolore bisogna intuire la gioia, vendemmiare un alfabeto.
«Tutto è stato mantenuto, ma io non posso godere dell’adempimento», scrive Scipione. La scrittura distanzia dal Dio che non vuole essere nominato, lastrica secoli di abbandono. Ed è giusto così: perché Lui vuole che sia difficile trovarci.
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Arco, 5 marzo 1932
Tutto sta saldo, attaccato forte. Tutte queste piante vivono, diventano grandi.
I rami crescono a caso nel tronco eppure obbediscono a voleri precisi, perché si allargheranno così e non di più, tanto per dare a quell’albero la fisionomia che lo farà conoscere. Ognuno ha un suo ritmo come tutte le creature del mondo. Bisogna essere quel ritmo, quella creatura e non diventare un’altra cosa.
C’è una parte dell’albero che non prenderà mai il sole e in quel posto crescono i licheni e certe piantine di velluto che ne ammorbidiscono la consistenza. Lo sguardo del sole indurisce.
Credo che i tronchi degli alberi sono rotondi perché l’aria li tocca da tutte le parti.
Quando si taglia un albero grande avviene questo: che il nutrimento che veniva dalla terra non verrà più e l’albero morirà, ma quello che era già in cammino arriverà fino alle più lontane foglie, come un trenino che ormai sia partito.
L’ultimo convoglio salirà lungo il tronco impiccolendosi fino a perdersi in un soffio.
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14 marzo 1932
Bisogna cristallizzarsi, costringersi nel ritmo giusto. Dio vuole la mia salvezza, perché io so quale è la mia salvezza. Bisogna entrare in un voto, indossare un voto. Perché un conto sono i pensieri e un’altra cosa se i pensieri diventano azione. Con il voto non dipendo più da me ma da una cosa estranea e terribile a cui non posso venir meno perché vera padrona del mio corpo dove l’avrò fatto entrare. Accettare un voto è fare entrare Dio nel nostro corpo. Chi oserà scendere in battaglia con lui?
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15-16-17-18 marzo
Vivo nel voto, più leggero, sicuro, quasi sereno.
Tutto si è svolto senza solennità ed è questa una cosa strana perché forse avrei pensato che avveniva con una specie di pompa, sia pure interna.
Invece, forse è un sintomo sicuro: dove c’è solennità, forse c’è solo solennità.
Quando una cosa è vera, è tanto semplice che quasi non ci si accorge; eppure un voto è una cosa grande. Ma io avevo bisogno di quello, come di mangiare. E che forse mangiare quando ho fame è cosa solenne? In genere una cosa è solenne quando è esterna. Forse un po’ per questo la solennità dei riti soffoca le religioni. Io mi sono messo ad aspettare. Fare un voto in essenza è aspettare. Aspettare accanto a Dio.
Quando si scioglierà il voto si scioglierà la mia commozione.
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15 aprile
Tutto è stato mantenuto, ma io non posso godere dell’adempimento: ho fatto del tutto perché questo non avvenisse. Mi sono adoperato per precipitare.
Dunque, se combatterò la vita diverrà grande.
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Aspetto la mia salvezza, aspetto la mia salvezza. Il mio core è stato preso nei mali lacci. I sensi sono padroni del mio corpo. La forza se ne va. La volontà non c’è più La bocca diventa molle. Che cosa posso fare per sfuggire a questa rovina? Iddio aiutami, non mi abbandonare, e fa’ che possa averti vicino.
Castigami, che io senta le mie colpe, in vita; ma voglio la salvezza. Voglio dormire puro come il pane. Voglio gettarmi sulla terra senza contaminarla. Fa’ che io possa avvicinarmi a te. Dammi la forza per vincere.
Scipione
*In copertina: Scipione, Ritratto di Giuseppe Ungaretti, 1931