“E le mie immagini urlarono”. Sulla poetica di Dylan Thomas
Poesia
Massimo Triolo
C’è una specie di consustanzialità tra Walt Whitman e gli Stati Uniti d’America (consustanziale sta per: della stessa sostanza e natura). Nato a West Hill, New York, nell’ultimo giorno di maggio del 1819, da una coppia di quaccheri, con folto cespuglio di fratelli, Walt pare, per partenogenesi, evocato direttamente dal suolo americano. “Di tutte le nazioni gli Stati Uniti con le vene piene di sostanza poetica maggiormente abbisognano di poeti e senza dubbio ne avranno di grandissimi e ne trarranno grandissimo vantaggio. I loro Presidenti non ne saranno i normali arbitri quanto lo saranno i poeti. Di tutta l’umanità il grande poeta è l’uomo equanime”, profetizza Walt nelle oceaniche, retoriche, sgraziate pagine – poi espunte – della prima edizione di Foglie d’erba, quella del 1855 (tradotta in Italia da Alessandro Ceni, per Feltrinelli). Trenta pagine, fittissime, come una benedizione tra Hudson e Mississippi, che introducono l’eterno I celebrate Myself – può essere cantato a Gerico come a Troia come in una galassia lontana lontana – e fanno coincidere suolo e canto, nazione e lirica, terra e verbo: “Gli Stati Uniti stessi sono essenzialmente il poema più grande”. Naturalmente, se gli States sono il grande rotolo, Walt è colui che per primo lo interpreta: in parte profeta, forse Messia, quasi dio.
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Ciò che tutti sanno è ciò che ci ricorda Roberto Mussapi nell’edizione Garzanti – una scelta, ben architettata – di Foglie d’erba. “Non è solo uno dei massimi libri di poesia di tutti i tempi, ma l’opera più direttamente rappresentativa delle forze vitali di quella civiltà: democrazia intesa come concordia universale, coro di tutte le voci e tutti i canti dell’universo, unendo il vecchio e il nuovo, il passato e il futuro, i vivi e i morti in un’inebriante sillabazione, in una solenne versificazione che scandisce l’assoluta unicità dell’istante”. Mi pare che qui ci sia Whitman passato nello sciacquone dei beat – tutta gente che aveva, diversamente da Walt, ottimi studi alle spalle. In Whitman tutto è più selvatico, sorgivo, ingenuo, privo di orpelli politici. Forse soltanto Giorgio Manganelli poteva descrivere in questo modo il genio di Whitman: “ciò che lo salvò fu la consapevolezza della centralità cherubica della sua ignoranza, la sua insanabile nescienza di sé, la sua fortezza”. Quando Whitman pensa – non essendo Thomas S. Eliot – è poeta verboso, modesto, programmatico; quando sente il brivido e la rovina del linguaggio, qualcosa che ti stacca le unghie, è inimitabile. Priva di intenzioni, la poesia di Whitman è grande quando il verbo non si distingue dall’ululato del coyote, quando il poeta salmeggia con lo stesso fischio del “falco maculato”, con la stessa energia di una sequoia. Cherubica ignoranza, ecco il crisma: il lavoro del poeta, di solito, è strapparsi di dosso tutto ciò che ‘sa’, sarchiarsi, definire la propria nudità; Whitman, invece, può solo avanzare, in volo, a quattro zampe, a salti violenti come zanne.
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Ma del sogno americano, che egli, secondo gli annali agiografici, avrebbe contribuito a creare, Whitman è l’atto oscuro, il logos spermatico, lo sparagmòs, la caduta. Il poeta non guadagna con le sue poesie, ed è paradossale che il Paese muscolare, d’acciaio, di magnati e orsi, di spregiudicati pistoleri e assatanati finanzieri, sia rappresentato da quel libro, fragile fin dal titolo, di foglie e di erba – basta una sfera di vento e scompare. Il poeta, cioè, viene acclamato per devozione contraria: perché è una bestia rara, un mostro, una creatura da circo… un poeta! Uno che perde tempo dando la vita per l’effimero della lingua, applausi! D’altronde, il poeta degli Stati Uniti d’America, non riesce ad avere un ruolo stabile nelle maglie statali, non ha un lavoro fisso, è povero in canna – si leggano i reportage, qui sotto. Punta tutto sulla connaturata energia, sul dominio della carne – quanto è americano questo! –, ma anche la carne lo lascia: nel 1873 è colpito da paralisi, vive in solitudine, devoto all’unico libro, continuamente trattato e stampato, alla mercé di vaghi mecenati e svariati ammiratori (che lo ammirano per il carattere eccentrico più che eroico). L’abisso dura fino alla morte, nel 1892. Dieci anni prima, durante il tour americano, gli aveva fatto visita Oscar Wilde. Ammirava la gentile brutalità di quel poeta. Il resto del viaggio, per Wilde, a parte quell’intermezzo, fu un mezzo disastro: la scaltra innocenza degli americani mal si accomodava al divo dell’arte per l’arte, della vita come opera d’arte. L’americano vuole il sangue, insegue lo schianto – Whitman fu anche quello, il capro espiatorio, un modo per espatriare dal massacro in dollari. A chi si dissipa è concesso fondare una mitologia: interrare gli occhi, perché nasca l’aquila. (d.b.)
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Un rinomato giornalista ha rivolto il saluto a Oscar Wilde ad Arlington, ieri, ed è stato piacevolmente ricambiato dal distinto esteta. Il suo aspetto e il vestito sono stati descritti in modo così minuzioso che questi punti possono essere oltrepassati. In risposta a un’inchiesta del giornalista, Wilde ha dichiarato di aver trovato in questo paese molto più interesse per questioni estetiche di quanto si aspettasse: “C’è”, ha affermato, “molta più vera arte qui di quanto immaginassi; e la vera arte, ora, è l’estetismo. Ho ricevuto molti quesiti da parte di persone che vogliono apprendere l’arte e ne ho conosciute altrettante che hanno le nostre stesse idee. Sto facendo tutto il possibile per incoraggiare la diffusione del vero gusto. Quello che vorrei trovare nelle persone è uno livello di gusto intramontabile, sia nelle loro vite che in tutto quello che fanno”.
“Il livello sarebbe lo stesso per tutti i paesi?”
“Assolutamente no. Penso che non si possa fare errore più grande nell’imitare un altro paese. C’è un’individualità artistica per ogni popolo. Gli americani non dovrebbero copiare gli ornamenti dell’Inghilterra. I loro fiori, l’atmosfera e tutte le forme esterne dell’arte sono differenti. Gli ornamenti americani dovrebbero essere completamente differenti da quelli dell’Inghilterra e rispetto a qualsiasi altro paese. Ci sono numerose bellezze naturali in questo paese per scopi artistici senza avere ulteriori prestiti. E dove c’è un prestito, c’è una mancanza di individualità che rende il tutto insoddisfacente”.
“Qual è il suo preciso obiettivo nel visitare l’America?”
“Voglio visitare il paese; poi capire fino a che punto le persone del posto possono amare l’arte e quanto possono andare oltre nel prediligerla. Vorrei diffondere la verità dell’arte e aiutare l’umanità ad avere la corretta idea delle vere relazioni dell’arte con la vita e della vita con l’arte”.
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Sul tavolo c’era una fotografia di Walt Whitman. Il giornalista ha chiesto a Wilde cosa pensasse riguardo al rude poeta americano. “Il giorno più incantevole che abbia mai trascorso: eravamo nella sua stanzetta a Camden. Penso che Whitman sia uno degli uomini più gloriosi che siano mai vissuti. Allo stesso tempo è l’uomo più semplice e più forte che abbia mai incontrato in tutta la vita. Eccentrico? No. Non si possono giudicare i grandi uomini secondo banali regole. In Inghilterra, gli sarebbe importato dell’opinione delle altre persone, affinché leggessero le sue opere e si meravigliassero di lui”.
*L’articolo, “Mr. Oscar Wilde”, anonimo, è uscita sull’“Evening Star” il 21 gennaio 1882
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Quando raggiungo questa città, nella quale incrocio sempre il battello per Camden, non potrei dire di aver visitato Filadelfia senza incontrare Walt Whitman, perché non sarebbe una vera visita. In qualche modo sono sempre stato colpito dal fatto che lì, sulle rive del Delaware, si trova uno degli spettacoli più grandiosi del XIX secolo: l’oracolo dell’epoca che attende con calma il suo momento, nonostante le imperfezioni, e che introduce quei rivoluzionari geroglifici che adorneranno l’alto e immortale obelisco. Incontrai per la prima volta Whitman nel giugno del 1885. Allora era, senza dubbio, al livello più basso di povertà, sopravvivendo con i proventi di Foglie d’erba, ammontati a 56 dollari nel 1884, e con un po’ di denaro prestato da un amico.
Durante le numerose visite nella sua piccola casa, Whitman mi ha impartito molte delle sue esperienze, lotte e impressioni riguardo gli uomini. Successivamente ha esaminato gli appunti che avevo annotato per la revisione e la correzione. Quindi ora sono in grado di contemplarlo in modo accurato.
Il “buon poeta grigio” aveva compiuto settant’anni il 31 maggio. Uscì dalla guerra povero, dopo aver quasi esaurito la sua vitalità nell’assistere i soldati feriti negli ospedali. Gli fu assegnato un posto nell’ufficio del procuratore generale degli Stati Uniti, ma nel 1873, a causa di un colpo di paralisi, fu dimesso in modo rude e privato dell’unico reddito. Foglie d’erba era stato pubblicato nel 1855. È venuto al mondo inosservato: un investimento finanziario, senza pagare dividendi per anni. La seconda edizione è avvenuta nel 1857. La terza, pubblicata nel 1861, è stata pagata per una piccola somma. Poi la guerra, durante la quale Whitman lavorò eroicamente per i feriti negli ospedali militari e sui campi di battaglia. Anche la quarta e la quinta edizione durante il periodo di guerra furono dei fallimenti. Quindi era senza reddito quando fu congedato dal procuratore generale.
I critici sogghignarono per il suo volume di poesie, alcuni agenti letterari ne confusero i proventi e Whitman si ritirò a Camden per morire. Morirono sua madre e sua sorella, la povertà andò di pari passo con lui, i giornali lo ridicolizzarono, eppure Whitman era sempre pieno di risorse positive.
Tra le altre cose, Whitman non morì a Camden dopo aver lasciato Washington, come invece aveva programmato. Al contrario, nel 1876 pubblicò l’edizione centenaria di Foglie d’erba e Two Rivulets in due volumi, corredati di autografi e ritratti. Lui stesso ha venduto questi volumi dalla sua stanza per 10 dollari ciascuno. Non c’era molta vendita a quel prezzo, o favore pubblico, naturalmente, ma come osserva Whitman “è abbastanza per crederci ciecamente”. Tennyson era a capo di un elenco di acquirenti, Swinburne era un altro, il professor Dowden un altro ancora e Lord Houghton era un quarto. Da allora Swinburne ha recentemente pubblicato un furioso attacco alle poesie di Whitman, ma nessuno, tranne forse lui stesso, può capire le motivazioni.
L’edizione di Foglie d’erba pubblicata nel 1881 da Osgood & Co. ebbe successo fino a quando non fu censurata a causa del sentimento puritano del Massachusetts. L’unico effetto di questa censura su Whitman fu che pubblicò immediatamente un’opera in prosa intitolata Giorni rappresentativi. Quando le sue poesie furono vietate, Osgood & Co. doveva a Whitman 500 dollari. Come ricompensa il poeta prese anche i fogli di Foglie d’erba e nel 1882 ne pubblicò due edizioni ricevendo 1.300 dollari; dall’edizione del 1883, 300; mentre per quella del 1884, 200.
Cito dai miei appunti le opinioni di Whitman, riviste inseguito da lui stesso, quanto segue:
“La mia opera poetica non mancherà di mantenere in modo veemente gli stessi principi a causa dei quali sono stato attaccato. È stato grazie al mio sforzo che non sono diventato chiacchierone durante l’invecchiamento e che adesso ho più fede e più gioia nel cuore”.
“Credo che l’America stia procedendo nel migliore dei modi. Il metodo ottimale è quello di mettere le basi di una grande civiltà materiale, come prodotti, macchinari, intercomunicazione e tutti i miglioramenti pratici e moderni che si possono raggiungere, distribuiti in modo equo nel nostro vasto dominio. Penso che le cose realizzate durante la nostra esistenza come popolo del secolo scorso siano le migliori che si possano fare. Su queste basi in futuro, e in tempo utile, verrà uno sviluppo intellettuale, letterario e artistico adatto a noi. Sono soddisfatto fino ad ora dell’assorbimento di ideali e contributi letterari stranieri come nutrimento, eppure non vedo l’ora che la poesia e altri importanti risultati immaginativi vengano prodotti dagli Stati Uniti”.
“Sono in qualche modo concorde con l’opinione che Boston, New York e l’East Coast non saranno che lo stimolo o la scuola materna delle grandi opere che potrebbero trovare la loro origine locale nel West. Le praterie offrono i suggerimenti delle più grandi opere fantasiose. Ho trascorso parte della mia vita nelle praterie occidentali e tra le Montagne Rocciose. Molte delle poesie che ho scritto lì, sono come perdere un occhio. A volte penso che le mie esperienze avute nel West giochino un ruolo fondamentale nel il mio lavoro”.
“Il campo di battaglia mi ha inoltre fornito molta ispirazione. Gran parte di Foglie d’erba è costituita da poesie di guerra su una varietà di tematiche, tutte annotate: eventi sul campo di notte o nei boschi, una pausa, il ritiro, il torpore di una calda giornata in un affollato ospedale e una squadra di cavalleria che attraversa un guado. Le scene che ho incontrato nella guerra mi hanno fatto creare poesie dalle descrizioni perfettamente realistiche che oggigiorno fanno parte di Drum-taps. Trovo curioso quanto queste pagine vengano lette e accettate allo stesso modo da soldati della Confederazione e da quelli dell’Unione. Credo che il mio lavoro sia stato diviso equamente tra le due forze opposte e che il mio pensiero poetico sia stato di conseguenza ispirato da entrambe le parti”.
“Diventerà arduo per noi assorbire e masticare per sempre la poesia del Vecchio Mondo, di cui Shakespeare è il modello più illustre. Dobbiamo avere una grande espressione poetica che spazia sul nostro terreno, conforme alla nostra vita pubblica e privata. Le materie prime per la poesia rimangono sempre le stesse. Come un tipo di carattere, per esempio, la poesia deve essere ricomposta in coerenza con le istituzioni americane, moderne e democratiche”.
“Un libro deve avere una vertebra vivente per tenerlo unito”.
“Mi rifiuto di essere definito solo ed esclusivamente un materialista. Penso che, nei miei libri e nelle mie teorie, la parte materialistica sia unita inseparabilmente a quella spirituale. Credo nel darwinismo dalla A alla Z. Per soddisfarmi ci deve essere una combinazione di scienza moderna con una più alta e profonda teologia di qualsiasi cosa sia mai stata fornita in passato. La mia convinzione è che le cose del nostro tempo – politica, ricerca religiosa, sociologia – stiano andando come dovrebbero. Questa attività, se continuerà, raggiungerà tutti i risultati desiderati dai riformatori. I risultati saranno un indurimento e una salubrità dei muscoli, una libertà di tutte queste cose”.
“Non penso che l’America o il periodo realizzino le proprie ineguagliate virtù. Sono quasi perfette come possono esserlo nel vasto insieme di persone”.
“Voglio imprimere una maggiore speranza e fede – un ottimismo – all’invecchiamento”.
“Sono un vecchio scapolo che non ha mai avuto una relazione amorosa. La natura ha colmato il posto di una sposa, con sofferenza da accudire e panorami da vestire in modo poetico”.
*L’articolo, “Walt Whitman’s Words”, è pubblico sul “New York Herald” il 23 settembre 1888
**La traduzione italiana di entrambi gli articoli è di Caterina Rosa