09 Novembre 2023

“Il sangue versato, la freschezza della luna”. Georg Trakl, poeta del crepuscolo

Le epoche della guerra, delle bombe, del sangue, dei corpi sventrati, ritornano e riecheggiano sempre sulle bocche sporche e impure dei poeti. Oggi i poeti non immergono più le mani nel fango delle trincee, restano a debita distanza dall’ustione dell’artiglieria e dallo scorticamento del filo spinato. Ci fu un tempo in cui il soldato era poeta e qualche volta il poeta era soldato. Ungaretti profetava su cartacce di fortuna – le liriche possenti erano gli scarti dei proiettili, i brandelli dei fratelli massacrati. Drieu La Rochelle pontificava, folgorato dall’utopia, gridando il sapore del sangue.  

Georg Trakl è uno di quei poeti che incarnano nei propri versi lo spaesamento del proprio tempo, l’orrore della guerra, l’inadeguatezza, l’imbarazzo dello stare al mondo. Uno di quelli che oscillano tra l’alba e il crepuscolo – e che, inevitabilmente, scelgono il crepuscolo, precipitando nel crepaccio, nell’abisso. È la sensibilità dell’uomo fragile, del vaso di coccio tra i vasi di acciaio, di chi nasce già crepato e destinato a infrangersi troppo presto.

La poesia di Trakl è una poesia di colori, sfumature, tinte. Di ombre tenebrose e luci brillanti. Una ricerca ossessiva di senso, di verità, che si conclude – sempre – in vicoli ciechi, cunicoli senza luce né risposta. Trakl è spettatore del secolo dello sgretolamento, della marcescenza che la sua stessa Austria stava vivendo, tra crisi dinastiche, valoriali, sociali, culturali. Era nato nella Salzburg di Mozart. Un destino comune tra genialità, follia e morte precoce. Un emarginato, la solita ingombrante etichetta del maudit che spesso sfoca i poeti e li costringe alla catalogazione, all’incasellamento forzoso. Trakl è Trakl. Solo, frastornato dal chiasso di un secolo nato morto – «Mostruoso è chi è nato dalle viscere di una donna morta», scriveva Pasolini –, Trakl lascia esterrefatti: è lui il Novecento. Il secolo del dio morto, della lacerazione, della strage fratricida, della solitudine, del vagabondaggio: è straniero in patria non perché appartenga a tutto il mondo, ma perché non appartiene a nessun luogo. Lo squarcio è insito nel suo essere, si cela sotto l’epidermide – il padre è ungherese e protestante, la madre slava e cattolica: nasce senza terra e senza dio. Ama la sorella, che lo ama a sua volta. Sembra Egon Schiele, con le sue perversioni, il suo mondo sbranato e ingiusto, la morte giovane, la poesia che procede per colori, pennellate.

Legge i malati, i folli, i profeti – Hölderlin, Nietzsche, Dostoevskij, Rimbaud, Strindberg, Baudelaire – costruisce un Olimpo di idee, tormenti, vertigini, spasmi esistenzialistici e profezie («Io anticipo le catastrofi mondiali», scrive in una lettera a Johannes Klein). Si risolve tutto nella cenere. La sua poesia alterna la pace dei laghi alle vette austere e solenni dei monti, i ritmi assorti delle preghiere e dei salmi a quelli tumultuosi della guerra. Non c’è una foto, un ritratto, che lo veda felice – uno squarcio sbilenco sul viso mimava una bocca muta, serrata, il volto di un gipeto o una poiana, la gobba di un condor. Eppure, alcuni suoi versi sono energia pura, trionfo della bellezza del mondo.

Colombe azzurre
di notte bevono il sudore gelido
che scorre dalla fronte cristallina di Elis.

(da Sebastian im Traum, ‘Sebastian in sogno’)

La droga diventa presto una parte importante della sua vita – è il tempo in cui la lucidità è bandita dalle strade. La droga lo salva e lo uccide. Comincia con il cloroformio, durante il suo apprendistato nella farmacia ‘All’angelo bianco’ (Zum weißen Engel) di Salisburgo – nomen omen. Poi sarà sempre peggio. Sviluppa una dipendenza dalla cocaina, che lo condurrà a una morte precoce, atroce, senza risoluzione: non cerca la bella morte, ma la Morte, il buio. Tre anni dopo lo seguirà l’amata sorella, con un colpo di pistola alla testa.

Nel 1914 presta servizio sul fronte occidentale. E inizia ad assistere all’orrore, a squadrare i torrenti cremisi dei campi di battaglia. Scrive anche le sue ultime tre potenti poesie: Sul fronte orientale, Lamento II e Grodek.

*

Sul fronte orientale (Im Osten)

Agli organi selvaggi della tempesta invernale
somiglia la rabbia sinistra della gente,
l’onda purpurea della battaglia,
le stelle defogliate.

Con sopracciglia spezzate, braccia argentee,
la notte saluta i soldati morenti.
Sotto l’ombra del frassino autunnale,
sospirano i fantasmi degli uccisi.

Una selva spinosa cinge la città.
Da gradini sanguinanti la luna insegue
le donne spaventate.
Lupi selvaggi irruppero dal cancello.

*

Tra il sogno e l’occhio intriso di sangue e terrore, Trakl racconta il massacro in tutte le sue forme. La guerra, come una macchia rossa, investe e devasta ogni cosa, ogni uomo, ogni donna, ogni fantasma. Trakl non regge più il ripresentarsi osceno delle immagini dei massacri davanti ai suoi occhi. A Grodek assiste a uno delle più spiazzanti carneficine verificatesi sul fronte orientale nella Grande Guerra, con i reparti austro-ungarici schiacciati dalla fanteria russa nella devastante battaglia di Galizia.

*

Lamento II (Klage II)

Sonno e Morte, le aquile lugubri
mi accerchiano il capo, di notte:
l’immagine dorata dell’uomo
è inghiottita dall’onda gelida
dell’eternità. Su scogli inquietanti
il corpo purpureo si frantuma
e l’oscura voce si lamenta
sul mare.
Sorella della tempestosa malinconia,
vedi affondare una barca spaventosa
davanti alle stelle,
al volto silenzioso della notte.

*

Davanti all’orrore inumano di Grodek, Trakl è chiamato a curare le migliaia di feriti austriaci. Impotente, sempre più solo, sempre più frastornato dai rumori della guerra e della morte, Trakl cerca di liberarsi dal fardello carnale ed emotivo, tentando la strada del suicidio. Salvato dai suoi commilitoni, viene portato all’ospedale militare psichiatrico di Cracovia – come avvenne a Pound, la veggenza diventa, agli occhi degli altri, malattia. Tenta la seconda fuga, estrema. Sniffa più cocaina che mai. Va in overdose, come le rockstar, come i pazzi. È il 3 novembre 1914. Muore, cantando la morte.

*

Grodek

La sera i boschi autunnali risuonano
di armi mortali, le pianure dorate
e i laghi azzurri, sopra i quali il sole
cupo discende. La notte abbraccia
guerrieri morenti, il lamento selvaggio
delle bocche spezzate.
Ma nella terra dei salici si raccolgono silenziose
nuvole rosse, dimora di un dio iracondo,
il sangue versato, la freschezza della luna.
Tutte le strade confluiscono nel nero marciume.
Sotto i rami dorati della notte e delle stelle
l’ombra della sorella ondeggia nel boschetto silenzioso,
saluta i fantasmi degli eroi, le teste sanguinanti.
E nel canneto risuonano dolcemente gli oscuri flauti dell’autunno.
O fiero lutto! Voi, altari di bronzo,
la fiamma rovente dello spirito alimenta oggi un grande dolore,
i nipoti non nati.

Giulio Solzi Gaboardi

Gruppo MAGOG