Solo chi conosce Dio può credere all’assurdità del mondo e a raccontarlo è Georges Bernanos nel suo secondo romanzo, L’Impostura (1927), pubblicato dalla casa editrice GOG. Ma cominciamo con il compito più agile: riassumere la trama. L’abate e intellettuale Cénabre si accorge, ormai maturo, di non avere mai creduto davvero in Dio e lo confida al collega Chevance non prima di aver sbattuto in faccia al suo protetto Pernichon quanto lo ritenga un mediocre. Sul docile collega e sull’arrivista protetto si abbatteranno due diverse tragedie, forse affrettate dalla confessione dell’abate. Oltre al dramma dei tre personaggi, il resto di quel che accade si riduce a non molto.
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Bene, ora comincia il difficile: perché le scene, per quanto limitate, sono dense di gesti, parole, simboli. Non solo: più di quel che accade esteriormente, sono le vicende interiori a costituire l’effettiva nervatura del racconto, fatto da uno scorrere ora tumultuoso ora lutulento dei pensieri. È la vita interiore a imprimere le svolte decisive e a far raggiungere al romanzo la massima concitazione. Ma quando pensavamo di aver raggiunto l’eterea sfera dei sentimenti e dei pensieri, eccoci piombati di nuovo sulla terra: quei pensieri che guidano lo scorrere delle vicende si conficcano nella carne e provocano nei personaggi un dolore sempre e soltanto fisico. E Bernanos, che era stato nelle trincee, sa di cosa parla. Del resto, proprio nel descrivere il dolore impresso nelle carni, la sua prosa raggiunge i toni più espressivi. Per capirci:
E percepì la propria risata. (…) Un sollievo immenso, un immenso alleggerimento furono l’immediata ricompensa, e nulla potrebbe rendere meglio l’idea di quell’inattesa liberazione che lo scoppiare di un ascesso.
Tentò inutilmente di inghiottire la saliva. La gola gli si era stretta come in una convulsione tetanica e vi sentiva martellare il cuore. Finalmente le parole trovarono una via d’uscita, e la sua collera sgorgò come un fiotto di sangue.
Si interruppe per un attimo, passò un fazzolettino sulla fronte pallida. Nel silenzio si sentì il respiro breve dei suoi polmoni rosi dalla tisi, che ricordava il crepitio di un foglio di carta velina sgualcito.
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L’Impostura è un romanzo disperato, dove anche l’innocenza un po’ tonta e benedetta dalla grazia che potrebbe sopravvivere è insidiata: sulla piccola Chantal (uno degli ultimi personaggi a comparire), il cui silenzio è scambiato per acume, si staglia nel finale l’ombra di Cénabre.
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Impietosa è anche la restituzione dell’annaspare inutile della – chiamiamola così, per comodità – ragione che, al servizio della mediocrità, produce piccole astuzie e meschinità e, al massimo della sua forza, si dispiega in ragionamenti mirabili quanto inservibili o, peggio, perniciosi. Tommaso d’Aquino pensava che la ragione fosse la strada per arrivare alla porta della fede; Cénabre ci mette di fronte agli occhi quanto possa essere disperante, o pericoloso, continuare a percorrere quella strada, se quella porta resta sempre chiusa. Anche questa volta la ragione, per un po’ vacillante e come colta alla sprovvista, si sforza di riallacciare la catena, edifica la sua ipotesi rassicurante, come un ragno tesse la tela intorno alla preda sospetta. Dall’altra parte, c’è il dibattersi della vita, altrettanto inutile, ma dotato di una forza polimorfa che gli permette di farsi dramma.
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Perché una natura potente, esclusa dalla grazia, va in cerca del proprio equilibrio molto al di là della soddisfazione di sé, sola serenità terrena. E nel furore apparentemente assurdo, che la volge contro se stessa, non si deve vedere altro che le prime avvisaglie della terribile ebbrezza, la cui perfezione è l’inferno, nel suo silenzio assoluto. I dialoghi e i pochi episodi del libro sono allora il momento in cui si getta luce su quel dramma, la sua trascrizione espressiva e fedele.
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C’è da dire che, accanto all’innegabile potenza di molti passaggi, ce ne sono altri in cui i pensieri si aggrovigliavano così tanto da rendere la complessità quasi intollerabile. Lo stesso vale anche per alcuni dialoghi, che si trasformano in surreali monologhi, implausibili: forse un tributo alla temperie culturale di allora, sia stilistica che intellettuale, ma che, letti ora, depotenziano il dramma. Detto questo, si tratta – per dirla in gergo filosofico – di una contro-apologia a una teodicea umanistica ancora fumigante a quasi cent’anni dalla pubblicazione, una parabola che racconta come l’uomo non possa salvarsi da solo. E che presuppone che sia ancora una volta Dio, pur nella completa assenza, a svelare l’assurdità del mondo.