22 Agosto 2018

“Non c’è niente di peggio di diventare subito ‘merce’”: le lettere di Pier Paolo Pasolini al giovane paraplegico

Una generosità che lo apparenta al vampiro. Nel 2014 capii in cosa consistesse l’estrema vitalità di Pier Paolo Pasolini, incrociando alcune sue lettere. Il 16 maggio del 1953 Pasolini aveva compiuto da poco 31 anni, aveva già subito il processo per atti osceni in luogo pubblico, e la sospensione dall’insegnamento e la cacciata dal PCI. Era a Roma, tentava con il cinema, dopo le “Poesie a Casarsa” stava lavorando a “La meglio gioventù”, il primo romanzo, “Ragazzi di vita”, sarebbe uscito per Garzanti nel 1955. Piuttosto, aveva appena concluso il lavoro, fondamentale, per Guanda, sulla “poesia dialettale del Novecento”. Fu allora che con una lettera che sarà fatale per il destinatario, Pasolini si avventa su un quindicenne di talento, Cesare Padovani, un giovanissimo poeta veronese, un “diverso” come lui – alla diversità congiunta all’attività lirica, nel caso Padovani c’era la diversità fisica, perché il ragazzo era paraplegico dalla nascita. Cesare Padovani, che si laureò a Bologna con una tesi su Pasolini – “la tua tesi era molto bella: ma non mancherà occasione di parlarne, prima o poi”, recepisce, nel dicembre del 1965, Pasolini, ma non se ne parlerà mai più… – diventerà un intellettuale dal talento entusiasta ed eccentrico, forgiando la sua vita a Rimini. Tra i suoi libri importanti, ricordo “Paflasmòs” (Diabasis, 2008), “Farfalle. Aforismi” (Il Vicolo, 2011) e studi decisivi su limiti e convenzioni legati all’handicap come “La speranza handicappata” (Guaraldi, 1974) e “Handicap e sesso: omissis. Elogio della disobbedienza sessuale” (Bertani, 1978). Quest’anno Padovani, che se ne è andato nel 2014, avrebbe compiuto 80 anni, la sua attività inesausta è ancora una scoperta bibliografica (l’editore Pazzini ha appena pubblicato “Nuvole architettoniche”, dedicato a Ilario Fioravanti) e il suo “patrimonio culturale”, leggo, torna a Nogara, dove Cesare, per tutti ‘Cesarino’, è nato. Nel 2014, nell’ambito dell’antologia di racconti di Padovani pubblicata da Guaraldi come “Da uomo a uomo”, ho recuperato il carteggio con Pasolini. Padovani conservava quel fascio di lettere come una reliquia, come un segno del destino, e ribadì sempre quanto fosse stata decisiva l’irruenza di Pasolini – per quanto fugace – nella sua vita. Le prime lettere, che ripubblico insieme a un brandello introduttivo, testimoniano la fame, la ferocia, la radicalità anticonformista di Pasolini. (d.b.)

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Padovani
Cesare Padovani, intellettuale anticonformista, quest’anno compirebbe 80 anni. Tra il 1955 e il 1965 ha avuto un fitto rapporto epistolare con Pier Paolo Pasolini

Un ragazzino. Un ragazzino diverso. Minato dall’alterità, con il muso, la lingua, la parola deposti tragicamente – perciò, in fioritura di gioia – nell’altrove, nell’andirivieni di ciò che è ambiguo e intoccabile. Nella vita di questo ragazzino di Nogara, nel veronese, irrompe, “sconosciuto e irrichiesto”, il genio e il mostro, il maestro e il violentatore, “il mio profeta”, lo chiamerà, molti anni dopo, il ragazzino, pigliando spunto da un’altra lettera, di composta bellezza, “sono veramente felice e orgoglioso di avere sentito in te la ‘buona qualità’ culturale in un momento della tua vita in cui bisognava essere un po’ profeti per farlo…”. Cesare Padovani aveva quindici anni il 16 maggio del 1953, quando riceve la prima lettera di un uomo di diciassette anni più grande di lui, un trentenne ferocissimo, lo si vede dalla lettera, che penetra le esistenze, le stupra, le svagina, le esaurisce. Ha la generosità spassionata della levatrice, Pier Paolo Pasolini, ma in fondo chiede sudditi, anela obbedienti, come fosse il fondatore di una illecita regola monastica. L’occasione sono alcune poesie nel dialetto di Verona: Pasolini le intercetta su Oggi e subito avvinghia il ragazzino. Lo fa con ansia competente, l’anno prima aveva pubblicato per l’editore Guanda l’antologia decisiva sulla Poesia dialettale del Novecento, che “non posso mandarti […] perché non ne ho più che una copia per me”. Al ragazzino spedisce, allora, una placca di versi in friulano, Tal cour diun frut. Con una dedica che è pretesa di fratellanza: “a Cesarino Padovani come a un antico me stesso miracolosamente nuovo, coi più affettuosi auguri dal suo Pier Paolo Pasolini”. Demiurgo e dio mondano, Pasolini dona il nome alla sua creatura: da allora Cesare Padovani sarà per sempre, per gli amici e i familiari, Cesarino. La prossimità tra Pasolini e Padovani è netta e simbolica: PPP, che stava lavorando a Ragazzi di vita (il 22 luglio del 1955, nell’unica lettera autografa, in grafia febbrile, “Ragazzi di vita non dovrebbe – secondo la morale corrente – essere un libro per ragazzi: soprattutto per un ragazzo come te (e com’ero io, alla tua età) […]. Non vorrei che il mio libro – che parla di ragazzi tanto diversi da te – ti avesse scosso troppo violentemente”), rivede in Cesarino la medesima tensione al dialetto (“devi sapere che anche io a diciotto anni ho cominciato a scrivere dei versi in dialetto”), va da sé, ma soprattutto l’abisso nella malattia (“la mia malattia non era fisica né nervosa, ma psicologica”), l’esilio in profetica diversità. […]

Il rapporto tra Pier Paolo Pasolini e Cesare Cesarino Padovani si sostanzia in nove lettere, tutte battute a macchina dallo scrittore friulano, tranne una, autografa, scritta a Ortisei il 22 luglio del 1955. Ogni lettera ha in calce la firma di Pasolini e alcune correzioni – insieme all’intestazione – redatte a penna. Alcune di queste sono state raccolte nel volume delle Lettere di Pasolini, curato per Einaudi da Nico Naldini, nel 1988, oggi introvabile se non in fornite biblioteche. L’ultimo biglietto di Pasolini è del dicembre del 1965, in cui l’onnivoro e onniveggente scrittore si complimenta con il “caro Cesare” per la tesi da lui discussa all’università di Bologna, sulla Poetica di Pier Paolo Pasolini, con Luciano Anceschi e Renato Barilli quali relatori. Ormai Pasolini è il geniale poeta de Le ceneri di Gramsci e de La religione del mio tempo, il provocatorio regista de Il Vangelo secondo Matteo, nel biglietto si fa riferimento a Uccellacci e uccellini, “che mi occupa (deve esser pronto per la fine di gennaio, e non potrò staccarmi un giorno da moviole e microfoni”). La disperata vitalità di Pasolini, l’energia moribonda, si avverte in questo (“Sto scrivendo poi tanto, nottetempo e nelle mattine domenicali”) come in altri biglietti dove è quasi un mantra l’assenza di tempo, gli impegni, il precipizio di chi prevede che la sua esistenza – come quella degli dèi – sarà breve e tempestosa. Non muoiono mai maturi, gli dèi, solo all’uomo è data l’immaturità del ricordo, l’immortalità. […]

L’incontro con il titanico PPP è per Cesarino l’evento capitale, ciò che dà respiro a una vita – proprio così, come gli dèi micidiali e feroci che insufflano l’anima alla creta cui han dato foggia d’ometto. Quanto a Pasolini… In dodici anni di rapporto epistolare con Cesarino, non trova un attimo per incontrarlo (“Il giorno che dovevamo vederci – mi pare il 2 – ero in Friuli e a Trieste”; “Nel venire quassù, in automobile da Ferrara, sono passato per Nogara, ma a tutta velocità, purtroppo…”; “Così questa occasione per vederci è andata in fumo”), il desiderio di “vedere Giotto” a Padova, “sarebbe assai bello andarci insieme”, non diventa mai atto, gesto, carezza. Sempre, grandinano richieste di perdono (“Ti chiedo scusa […] per la burrascosa mancanza di tempo umano della mia professione di uomo di cinema”), che forse assurgono al simbolo di una richiesta di grazia più ampia, esistenziale. C’è l’istinto alla maestria perenne, a una pedagogia digestiva, organica, avvolgente, a cui essere grati (perché un giovane scrittore rampante, già riconosciuto, perde tempo dietro alle scorribande liriche di un quindicenne disabile? Esiste una linea netta di maestri sinuosi e sinistri, da Pasolini a Testori e Tondelli, che ha insistito nell’innestare radici di sapienza: adesso quale scrittore ha una simile, possente energia?). Quanto alle molte lettere che Padovani ha inviato a Pasolini – smarrite. Perse per sempre. Stracciate? Ingurgitate e digerite dal dio mefistofelico. (Davide Brullo)

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PadovaniRoma, 16 maggio 1953

Caro Cesarino, scusa se intervengo così, sconosciuto e irrichiesto, nella tua vita, diciamo nella tua vita letteraria. Ho finito in questo momento di leggere (per caso, perché non leggo mai questa roba) un articolo che ti riguarda su “Oggi”: alquanto patetico, a dire il vero, e un po’ umiliante per te. Tu cerca di essere inattaccabile dal male di questa gente che per aumentare la tiratura di un giornale sarebbe capace di qualsiasi cosa, anche di fare (come nel tuo caso) degli indelicatissimi excursus in una vita interiore, approfittando del fatto ch’è la vita interiore di un ragazzo… Bada che la tua posizione è pericolosissima: non c’è niente di peggio di divenire subito della “merce”. Se tu dipingi e scrivi poesie sul serio, per una ragione profonda e non solo per consolarti delle tue disavventure fisiche (o magari, come dicono, per ragioni terapeutiche…), sii geloso di quello che fai, abbine un assoluto pudore: anche perché non sei che un ragazzo, e i tuoi disegni, le tue poesie non possono essere che il prodotto di un ragazzo. Eccettuati, ch’io sappia, Rimbaud e Mozart, tutti i ragazzi prodigio hanno avuto una mediocre riuscita, e io penso, appunto, che l’unico modo per preservartene è chiuderti in te stesso, e lavorare, ma lavorare sul serio. Non era per dirti queste cose, però, che ti scritto: ho voluto mettermi in contatto con te solo perché ho visto nel famigerato articolo che scrivi delle poesie in dialetto. Ciò m’incuriosisce tremendamente. Devi sapere che anche io a diciotto anni ho cominciato a scrivere dei versi in dialetto (friulano) (ma anch’io avevo cominciato a scrivere versi prestissimo, a sette anni: la mia malattia non era fisica né nervosa, ma psicologica); ho poi continuato a lavorare cercando, oltre che esprimermi, di capirmi. Sono passati una dozzina d’anni e ora, laureato in lettere e insegnante (insegno a dei ragazzi come te) sono nel pieno del mio lavoro letterario. Te ne mando alcuni documenti: non posso mandarti una grossa “antologia della poesia dialettale del ’900”, uscita presso l’editore Guanda di Parma quest’anno, perché non ne ho più che una copia per me.

Tutte queste cose te le scrivo perché tu sappia regolarti sul mio conto, e mi risponda sinceramente: perché scrivi in dialetto? o se proprio il perché non lo sai (è un difficile atto critico il saperlo) perché ami il dialetto? Ti sarei molto grato se tu mi rispondessi e mi mandassi magari qualche saggio delle tue poesie dialettali, su cui io potrei darti un giudizio assolutamente privo delle sdolcinature giornalistiche che ti dicevo, e darti magari qualche consiglio di tecnica o di lettura. Una stretta di mano dal tuo

Pier Paolo Pasolini

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Roma, 31 luglio 1953

Caro Cesare, grazie per la tua intelligente lettera, e perdona il ritardo con cui ti rispondo: sono affogato nel lavoro, e invidio le tue vacanze (tanto più che anch’io, alla tua età, venivo a trascorrere le vacanze estive da quelle parti, a Riccione: stiamo percorrendo la stessa strada…). Tu però non badare ai miei ritardi, e, sempre se ne hai voglia, rispondimi come questi ritardi non ci fossero: tu hai tempo, beato te! Le due rispostine al “perché” che ti avevo inopinatamente posto, benché – è naturale – agnostiche, sono assai fini e intelligenti nella loro semplicità. Chiedere a un ragazzo come te perché scrive versi è come chiedere alla pioggia perché piova o a un fiore perché odori. Si tratta di un fatto irrazionale, e prima di poter definirlo razionalmente… La prosa della tua lettera mi piace assai di più dei tuoi versi dialettali, che, a parte una certa goffaggine e ingenuità infantile (che potrebbe di per sé andare benissimo) rivelano la presenza di influenze, chiamiamole letterarie, non buone. C’è implicitamente, dietro le tue parole, l’opinione errata che il dialetto debba servire a trasporti affettivi convenzionali e senza mordente, conditi da un’obbligatoria intonazione comica. Cosa che avrà entusiasmato i nuovi veronesi di “Musa triveneta”. Essi sono dei dilettanti e dei superficiali: magari simpatici come persone, ma molto impreparati e faciloni come letterati. Tu hai probabilmente le doti per metterli per una strada più seria. E, a questo proposito, ti consiglio senz’altro il Ginnasio e il Liceo: le difficoltà le supererai, non temere. Son molto pochi i ragazzi che scrivono come scrivi tu, lo so per amara e scoraggiante esperienza. Ricorda comunque che non c’è niente di meglio che lottare con le “difficoltà”, e che la facilità, in generale, è la peggior nemica della poesia e anche della buona letteratura (se queste son cose che ti stanno veramente a cuore). Affettuosi saluti* dal tuo

Pier Paolo Pasolini

*anche per la tua mamma. P.S. andrò molto volentieri a visitare la tua mostra questo settembre. È incredibile, anch’io ho cominciato a dipingere alla tua età, e se non lo faccio più è perché non ho tempo… Dimenticavo di dirti che lì a Cervia ci sarà probabilmente in questi giorni l’on. Aldo Spallicci che è un buon poeta dialettale romagnolo; potresti cercar di vederlo e parlare con lui, presentandoti magari a mio nome.

 

 

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