Vera e Nathan sono soli al mondo, spogli, divisi, in un 1950 livido di tragedia. Lei è rifugiata a Tel Aviv, lui vaga per il Medio Oriente, limpidamente ossessionato, in omaggio al tradimento, vendendo carte stellari di pregio. Colpito da un morbo contratto in Armenia, mentre cercava di raggiungerla, Nathan è ora in Kirghizistan, in un bosco, dove sta costruendo una casa per la sua amata. Mentre Vera lo attende, ha tenda per lui, Nathan è coinvolto in eventi efferati della Storia, quasi fosse un sonnambulo. “Senza gestire l’ignoto” è un progetto letterario di Davide Brullo e di Veronica Tomassini. Sul blog della Tomassini potete leggere la lettera di Vera. Continueremo a fecondare l’ambiguo e l’astrale. L’ultima puntata del ciclo è qui.
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Dalle foreste del Küngöy Ala, nel primo degli anni nuovi, in un mese appena dissotterrato
Ho sempre fatto così – non ti ho detto – con l’unghia te ne decorai il corpo sfiatato dal sonno – a Praga – quella notte che fu incisa nell’osso di una eternità fa continuamente immediata – da ora le mie lettere non potranno arrivarti – le rileggo te le ripeto perché l’intenzione è più forte del verbo – qualcuno, conosco i kirghisi, labbra che s’insinuano tra malia e mestizia, avrà sotterrato le lettere sperando che da parole occidentali nascano uomini, radicati al canto e all’impresa. Ho sempre fatto così, non te l’ho detto, abito nel sedicesimo salmo e nel suo scoppio di luce – sulla tua schiena, con dita di iena e d’arcangelo, ho scritto, scavando nella torba del sonno, il tuo, “Non scacci la mia anima agli inferi/ Non pressi nella fossa chi ti ama” – l’ho segnato sul tavolo della scrivania – sulla soglia del cimitero dove è sepolta mia madre – che al massacro avvenga la gioia – ora lo scrivo sulla nostra casa, questa specie di calice di legno, l’ultimo versetto del Salmo 16 mi svena, mi sfigura, “Sveli la via della vita/ Nel tuo volto è gioia sopraffina/ Impugni la quiete” – quando il cacciatore che mi ha aiutato, saturo di fatica, nell’arguzia del fato, mi lascia, e la casa in cui non abiterò – è tua, è la tua reggia – è terminata, azzannato dal fiotto di resina, di caldo, di miele, prendo il coltello, “Sveli la via della vita”, mi scrivo sul braccio sinistro, perché forse questo basta a raggiungerti, raggiante, e il sangue è una pulizia, merletto che decora l’incanto – e dico, allora esiste l’immortalità – allora prendi tutto della vita, mordi, accogli, corrodi, purifica, deturpa, erompi, perché non è questa la vita, ma la prossima, che sto bonificando di preghiere per te. Ho una milizia nelle giunture e sul rapace degli alberi ho scritto “vita”, “anima”, “gioia”, “volto”, “quiete” – m’inginocchio fino a ridurre il bosco alla dimensione di una mosca, potrei mangiarlo, a retrodatare l’Asia a quando era il pensiero di un dio fossilizzato – ho relegato la Storia a uno sbadiglio e ogni sorta di parentela si installa nel nulla – due giorni fa ho visto una tana di vipere e soltanto un increato può non vedere in quel viluppo il vocabolario degli eventi futuri, un sibilo sibillino di colonie aliene – ripeto ossessivamente gli ultimi versetti del Salmo 16 e penso così di mantenerti in vita, un canto ti inarca la schiena, sorregge le case e le amicizie, avvera Israele, la dittatura del bosco, la durata del lago, che altera i voleri di chi si specchia.
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Poi
Tra concesso e ceduto c’è una differenza essenziale – in un caso è qualcosa che cade, senza medicina, dall’altro è qualcuno che ti aiuta a rialzarti, in cambio di una cessione di volontà. A te sono ceduto, con una caduta che mi spaventa perché è come se precipitassi nel futuro, nelle vite a venire – mi è concesso vivere in questo urlo verde della Storia, dove non esistono dèi – perciò non esiste l’anatema e la pena – ma uomini che nuotano nel lago e riemergono, con audace felicità. L’uomo che dice di chiamarsi Bakai non sa se la lucidità del lago e l’atto della montagna siano da ascrivere a una mancanza o a un sogno – mi ha mostrato, poco lontano dalla tua casa, che ieri ho battezzato “Via della Vita”, un nido di farfalle – centinaia, coprono una roccia per dargli natura di vento, potrebbero velare il mondo e crearne un altro, con rapimento – le farfalle sembrano lettere che si uniscono e si scindono, combinando un poema, ora, in aria – e se fossero loro, questa foga di forma, ad aver creato la terra, la galassia, l’illusione dell’infinito? Quello sfarfallio ha riordinato la mia memoria – il nostro scopo è unirci per annientare tutto il resto, ricorda – il mio patrigno, ricordo, perché?, nella foresta di Tronçais, penso che rabbrividì l’inettitudine delle querce, l’État Français, ricordi?, perché?, le forze militari di Vichy, mi aveva portato con lui perché, diceva, François Darlan avrebbe acquistato una carta celeste, una di quelle virtuosamente dipinte con figure di eroi e di animali, piene di colori, stampate nel Settecento dagli opifici dell’Aja, voleva regalarla al figlio, ricoverato ad Algeri per una poliomielite. I soldati guidati dal mio patrigno – come si chiamava?, viso a trapezio, basso, rapido di lingua, con occhi simili ad altre, duplicate, lingue – avevano fermato dei militari di Francia Libera, un contingente di trenta uomini, circa, c’erano anche dei tedeschi tra di noi, forzarono il mio patrigno a imbastire un processo e a condannare i prigionieri. La condanna doveva svolgersi, appunto, perché?, nella foresta di Tronçais, tra quegli alberi risoluti come un endecasillabo – ma fu il tedesco – i resistenti erano uno di fianco all’altro con la faccia stupefatta di chi ha dato la morte ma non sa come riceverla, giovani ispirati dal fascino della fama – tirò giù i pantaloni di uno, gli squadernò il membro, poi col coltello glielo mozza – il soldato aveva i polsi legati, s’inginocchiò, un urlo bianco, poi il tedesco disse di martirizzare anche gli altri, il mio patrigno sillabò l’ordine, e alcuni soldati tenevano fermi i nemici, altri, come se compissero un atto d’amore, slacciavano i pantaloni, poi, con fatica, con un sonoro terrore, staccavano via la minchia dei militari, “non è gente degna di procreare”, disse uno, pensai all’infezione, ai coltelli che sono una imitazione del membro, al bisogno di bucare, il mio patrigno, più tardi, a conferma del gesto, avrebbe estratto dallo zaino un libro, eravamo a cena, a Strasburgo, nella casa, neanche lussuosa, del prefetto, le Memorie Historiche dell’Introduttione dell’Heresie Nelle Valli di Lucerna, Marchesato di Saluzzo & altre di Piemonte & Sauoia, un’ottima edizione torinese del 1649, in cui si dettagliava il modo in cui era stata estirpata l’eresia dei Valdesi e dei Catari di montagna, raccomandando di usare, come mezzo per dissuadere il disordine religioso, l’evirazione – mi chiesero un commento sul libro, ghignai, probabilmente la copertina è stata realizzata con carne di pudenda, dissi – e ricordo, ora, quel mucchio di minchie, per terra, davanti ai soldati attoniti, alcuni svenivano e il dolore gli inaridiva gli occhi, faceva lividi i denti – e le minchie scodinzolavano, come piccole rane, sembravano avere vita autonoma, mentre il sangue sbavava ovunque, come se potessero fecondare gli alberi e le pietre dando origine a una nuova umanità, più consistente, innocua al pudore. Di questa “crudeltà bizantina”, come dicevano, non fu detto nulla – non vidi più il mio patrigno – i castrati furono lasciati nella prigione di Strasburgo, qualcuno morì – quanto al libro, di pregio, lo rubai per rivenderlo, anni dopo, a Praga, poco prima di averti.
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Infine
Forse non dovremo scriverci ma sentirne l’odore – quello che nei nervi precede la grammatica e sancisce un legame nell’argento – forse dovremo ripetere soltanto le parole che reggono la statura del tempo e il suo squittio – oppure dirle al contrario, come una sciarada di vampiri, per rotolare.
L’uomo, Bakai, mi racconta dell’intelligenza del giaguaro delle nevi e per indicarmi dove vive mira, tra le montagne, un luogo di vite fa – non spera nell’azzeramento dell’inferno, Bakai, a cui non bastano diversi figli per avere la certezza che questo è esistere, sa che anche la sopravvivenza è un rigurgito della meraviglia, dovremo imporci lo stare in legge, come chiodi all’apice della luce, una stimmate nel tempo, un foro, qualcosa che non ha norma – e riconoscere grandezza nell’essere preda.
Nathan