07 Maggio 2018

“Ho avuto dei maestri, certo. Ma li ho uccisi tutti. Adesso devo confrontarmi con l’Angelo”: le confessioni di Gabriele Galloni

Gabriele Galloni dà quasi l’impressione di comunicare con un impenetrabile altrove – forse quello dei morti da lui cantati nel libro In che luce cadranno (RPlibri, 2018), forse i flash di una infanzia i cui frammenti cerca quotidianamente di ritrovare, di mettere assieme. Ventiduenne. Nato a Roma. Un autore anomalo, Galloni. La sua poesia è quanto di più distante ci sia dalle facili introiezioni dei poeti a lui contemporanei. Niente ermetismi involuti. Il verso si distende limpido, chiaro, e probabilmente – come hanno scritto recensendo il suo ultimo libro – è vero che “forse i suoi parenti più prossimi sono i lirici greci da bambini, forse certi mistici medievali le cui opere non sono mai giunte a noi”.

Ci vuole coraggio, a essere chiari. Ci vuole coraggio per credere.

Galloni libro1Galloni ha coraggio da vendere. Lo capisci da come ti fissa negli occhi quando parla. Dal candore con cui ammette le sue mancanze e le sue perdite. E i suoi ritrovamenti, i suoi tesori.

Se dovessi dare una data alla tua attività di scrittore e poeta – una sorta di “terminus post quem” – quale sarebbe? Una data di nascita letteraria, ecco.

Uno scrittore nasce con la pubblicazione. Basta con la retorica scema (“scrivo da quando sono bambino!”) o con le stronzate sulla gavetta, sul duro lavoro, sul lungo apprendistato. Io ho pubblicato il mio primo libro, Slittamenti, nel luglio 2017. A chi interessa quello che ho fatto prima? Tutte le nostre storie sono uguali. Tutti noi abbiamo avuto una personale folgorazione sulla via di Damasco – e che poi sia Damasco, Seul o Ponte Galeria poco cambia. Sono i libri a parlare. Ciò che li precede ha valore emotivo, certo non documentaristico.

Ma una “prima cosa” l’avrai pure scritta.

I referti di morte dei miei giocattoli. Li conservo ancora e ogni tanto li rileggo. Un piccolo archivio. Ci sono tutti i personaggi di Dragon Ball lì dentro. I wrestler che amavo. Un giorno questi testi saranno pubblicati in appendice al mio Meridiano. Per il resto, ho iniziato a prendere sul serio la scrittura a quindici anni. Il mio primo racconto parlava di uno stupratore che finiva per innamorarsi della sua vittima. Lo stile era insolitamente minimale, anni luce lontano dalle pretese letterarie degli adolescenti.

Come finiva?

C’era un happy end, credo. Ma non me lo ricordo. Avevo e ho tutt’ora una concezione strana di happy end.

Sul piano formale, la tua poesia è strettamente legata alla tradizione. Concettualmente, invece, mi sembra un oggetto alieno. Soprattutto il tuo secondo libro, “In che luce cadranno”, dedicato a una immaginaria civiltà di morti. Quali sono i tuoi punti di riferimento tra gli attuali?

Tra gli attuali nessuno, direi. Poi, certo, dipende cosa intendi per attuali.

I tuoi contemporanei.

Ok, no, nessuno. Ci sono autori che stimo, ma non mi hanno influenzato in alcun modo. Possiamo parlare di uno zeitgeist comune, uno spirito dei tempi, niente di più.

Il poeta (di qualsiasi tempo) a cui ti senti più vicino in assoluto?

Nessuno.

Non hai maestri?

Li ho avuti. Ma è giusto dimenticarsene. Adesso voglio confrontarmi con l’Angelo, strappare le ali alla mia scrittura, lacerarla, calpestarla, rigettarla e riassorbirla. Ci saranno poi nuovi maestri. E ucciderò anche loro.

Sei estremo.

Assolutamente.

galloni-in-che-luce-cadranno-copertinaQuanto ritorna la tua infanzia – il tuo spirito bambino che si meraviglia di ciò che esiste nel mondo – nelle tue poesie? Questa eventuale semplicità, come si concilia con la perfezione formale, stilistica e musicale dei tuoi versi?

Allora. Ho avuto una strana infanzia. A momenti estremamente luminosi si alternano immagini enigmatiche, scene che ancora oggi non sono riuscito a decifrare. Per esempio, al primo anno delle elementari c’era una delle maestre che con sé portava sempre uno scheletro di plastica. Ce lo mostrava e diceva: occhio, perché se non fate i bravi stanotte lui dorme accanto a voi. Ma ti giuro, questa tizia se lo portava ovunque. Anche quando andava in bagno. Una volta l’ho incontrata che rientrava in classe e lei ha cominciato ad avvicinarmi lo scheletro alla faccia, a inseguirmi facendo versi strani. Sto divagando?

No, anzi, continua.

Roba del genere, insomma. E questo è un aspetto della mia infanzia. Poi va beh, tante altre cose che non sto a dirti. L’altro aspetto è quello che ti ho accennato prima, estremamente luminoso, solare. Io e la mia famiglia che mangiamo un cocomero sul balcone della nostra casa al mare, i pomeriggi in spiaggia, la luce quasi sovraesposta, le prime nuotate. Il primo sapore dell’acqua salata. Da questo il mio culto assoluto per l’estate e l’abbandono, il nucleo centrale del mio personale atlante emotivo. La morte, il sesso, le spiagge, i giardini delle case popolari, la dissoluzione.

Atlante emotivo. Parlamene.

Chiunque ne ha uno, no? Sono i luoghi a cui torniamo, i ricordi. O le persone, nostro malgrado. Tutta ’sta paccottiglia nostalgica formato nevrosi – che io venero, sia chiaro.

Qual è la musica di “Slittamenti”? E quella di “In che luce cadranno”?

La mia, la loro. Nessun’altra. Per te che musica è?

Slittamenti è una musica d’aurora, musica di tarda adolescenza. Tanti riverberi, melodie dolci. “In che luce cadranno” è una sonata barocca eseguita da Terry Riley.

Uhm, pure da Philip Glass.

Pure, sì. Un rewind: com’è finita con la maestra e lo scheletro?

Boh. Dopo il primo anno non l’ho più vista.

In apparenza sembra che nelle tue liriche sia assente l’amore. Eppure c’è una luce, un vento, che possono suggerire altro. No? Che tipo di amore è quello da te descritto, fosse anche senza esplicitarlo?

Più che amore, si tratta di rievocazione – di reinvenzione. Non penso di aver scritto una sola sillaba che possa essere definita, almeno canonicamente, d’amore. Non verso qualcuno di specifico, almeno.

Molta sessualità, invece. Penso ai brevi componimenti erotici presenti in “Slittamenti” o ad alcune immagini di “In che luce cadranno”. Scelta programmatica o la musa ti porta a questi lidi casualmente?

Nessuna delle due. La sessualità è un mezzo come un altro per raccontare qualcosa. O una semplice fascinazione estetica.

Lo è a priori o per te?

Per me, naturalmente. A priori la sessualità è molto meno importante di quanto si creda, oggi.

Nelle recensioni scritte finora sui tuoi libri si sono sprecati i paragoni. Chi tira fuori la linea lombarda, da Sereni a Giudici, chi riesuma i lirici greci – chi addirittura la cosmogonia di Blake o le visioni di Rimbaud, in particolare per In che luce cadranno. Cosa ne pensi?

Che i paragoni, tutt’al più, aiutano il recensore a sbrigare meglio il suo compito. Liberano dall’incombenza (e dalla noia) dell’analisi: proprio per questo sono necessari. Ognuno legge e trova nell’altro ciò che vuole.

Elencami i tuoi cinque libri di poesia preferiti.

Impossibile. Ne ho scritti solo due.

È una citazione?

Forse.

Gruppo MAGOG