04 Luglio 2019

“Io rispondo: Cucù!”. Marino Moretti 40. In tre per ricordare il genio che nessuno ricorda: il poeta, la fata, il saltimbanco

“Erano gli occhi di un uomo tormentato e terribilmente intelligente”: il mio incontro con Marino Moretti

È stato per qualche anno il mio vicino di casa a Cesenatico sul porto canale. Quasi porta con porta. Alcune volte, specialmente in primavera, vedevo che la sorella o la donna di servizio lo accompagnavano per una breve passeggiata. Un attimo e spariva dopo avere guardato le barche e, forse, pensato a suo padre. Ogni tanto arrivava da Milano, credo dalla Mondadori, una grossa automobile con autista che lo prelevava portandolo ad incontrare scrittori e poeti che arrivavano da ogni parte del mondo. Credo che fosse una specie di ambasciatore della casa editrice. Era senza dubbio un autore importante, molto più importante di quanto si credesse nel mio insopportabile paese di nascita. Negli ultimi anni, quasi alla stessa ora, verso le 14, entrava in casa Moretti il medico di famiglia, il dott. Lelli Mami, che è stato anche il mio medico e questo, credo, è stato per anni l’unico punto in comune tra il grande Marino e l’imbecille superficiale che ero. All’improvviso è cambiato qualcosa. Con Ferruccio Benzoni e qualche altra figura marginale che non voglio nominare, ho fondato la rivista Sul Porto. Risparmio la sua storia, non ne posso più di raccontarla. Sul Porto mi ha cambiato la vita, ma adesso basta. Comunque, a Marino era giunta la voce della rivista e ci ha voluto incontrare. Un pomeriggio ci ha ricevuto a casa e ho potuto guardarlo per la prima volta negli occhi rimanendone profondamente impressionato. Erano gli occhi di un uomo tormentato e estremamente intelligente. Ti guardava e sembrava farti i raggi X, forse ti leggeva dentro e credo che, alla fine dell’incontro, sapesse di me più cose di quante ne conoscessi io a quel tempo. Io non sapevo niente. Non lo avevo nemmeno letto. Ripeto: imbecille, superficiale, e aggiungo: ignorante.

Dell’incontro ricordo con divertimento la risposta che diede alla mia domanda da guascone: “Lei Marino ha fatto la prima Guerra Mondiale?”. E lui: “No, non mi hanno preso, ero troppo vecchio”. Nel 1915 era già vecchio. Cos’era allora quel giorno in cui ci ha offerto una bibita alla menta? Era un poeta di ormai novant’anni che scriveva Le Poverazze e Diario senza le date, due libri straordinari che ancora leggo scoprendo ogni volta cose nuove che mi lasciano come basito. Non è facile che accada, sempre più di rado. Ultimamente, in maggio, credo, ho recitato due sue poesie per la trasmissione radiofonica Fahrenheit su Radio Rai 3, durante una visita alla casa di Marino guidati dalla direttrice Manuela Ricci e ne vado orgoglioso. Mentre leggevo ero emozionato e in soggezione come un ragazzino. Bella cosa anche questa… Adesso sono 40 anni che è morto e sono 40 anni anche della mia vita senza sentire la presenza del mio vicino di casa e respirare in qualche modo l’aria che respirava. Sono convinto che siano le persone che ci abitano a fare le città e i paesi spargendo nell’aria e intorno la loro grande energia. Spariti Moretti e Benzoni, Cesenatico si è come spenta e raggomitolata in se stessa. Anch’io.

Stefano Simoncelli

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Moretti vecchio è più giovane di tanti poeti giovanilisti di oggi. È sano tatuarsi sulla lingua questo distico: “Sono contento. Sono/ però sempre in agguato”.

Durò troppo – e fu memorabile. Due criteri altrimenti ad esigenza di genio – durezza, memorabilità – hanno spinto nel falò dell’oblio Marino Moretti. Chi lo legge più, oggi, Marino Moretti? Certo, la Casa Moretti di Cesenatico – terra avita di MM – fa quel che deve fare una istituzione culturale: un ciclo di incontri, una mostra di documenti, un po’ di teatro (vedete tutto qui). Gli accademici, insomma, fanno il loro gioco. Ma, brutalmente, un poeta muore quando non stampano più le poesie e devi andarlo a stanare in biblioteca, tra sguardi liquidi d’interogativi. E Moretti, troppo memorabile – “Piove. È mercoledì. Sono a Cesena” resta uno dei versi più celebri del canone italico – ha scritto troppo, fu uno dei grandi autori Mondadori, ora è relegato in un ‘Meridiano’ pieno di tarli In verso e in prosa, classe 1979, tombale, per la cura di Geno Pampaloni. Neppure lo straccetto di un ‘Oscar’, una pubblicazione qualunque, entri in libreria e oggi di Marino Moretti c’è il nulla, perché? Eppure, fino all’altro ieri, fino a sbattere il muso contro la lapide, di Moretti s’elogiava tutto, anche la narrativa, non vertiginosa – fatta salva La vedova Fioravanti, da cui Antonio Calenda estrasse uno sceneggiato per la tivù – “Moretti possiede il dono più ambito per un narratore, quello dell’inventiva. Solo Pirandello, in questi decenni, gli sta a pari per copia e originalità di spunti”, scriveva, con troppa enfasi, Francesco Casnati. Ora, per esercizio di gioia più che di giustizia, metto in fila ciò che mi sembra buono di MM.

*Le parole di Carlo Bo, che definiscono il carattere ‘alieno’ di MM: “il ribelle e anarchicheggiante Moretti… finiva per suggerire una linea alternativa alla poesia più famosa e celebrata dei grandi del Novecento”.

*Il fatto che Moretti chiude con la poesia un secolo fa. Nel 1919 raccoglie per Treves le sue Poesie. Torna alla poesia, con rinnovata furia, cinquant’anni dopo: nel 1969 con L’ultima estate, poi, soprattutto, con Le poverazze e Diario senza le date, tutti pubblicati da Mondadori. I libri più belli, in cui non c’è niente da perdere, il detto del sopravvissuto. “La sua invenzione poetica è tutta proiettata a battere con lo scalpello, a respingere la parte morta della vita, il convenzionale, l’insincero, l’inessenziale. Dice di no ai letterati e ai potenti, a chi gli offre la laurea e a chi lo invita alla firma di un manifesto… si vanta dei propri insuccessi; quando fanno l’appello, si fa dare assente” (Pampaloni).

*Questo stare di spalle, nella cella, cercando la parola che fa rumore, senza presa retorica, nell’isolamento dei beati. “Moretti ebbe un’esistenza solitaria, integralmente vissuta come proiezione letteraria, fra esaltazione e vittimismo, e assunse lo pseudonimo Aliosha, tratto dai Fratelli Karamazov di Dostoevskij” (Marino Biondi). Altri avrebbero scelto Ivan, il campione nichilista, oppure ‘Mitja’, l’uomo moderno crudo al patire e all’amare. Il candore chiede coraggio moltiplicato.

*Ha risolto il passato in un refolo di carta, l’ironia gli ha fatto scoprire che il viso del futuro, in verità, è ustionato, quasi un vuoto, un buco nell’osso.

*Nella vecchiaia, la continua, estenuata analisi di sé e dei propri specchi e delle proprie proteiformi e vipere immagini. Con una lingua che cerca, senza sotterfugi sperimentali, l’aguzzo bianco della parola, che non si sa se è bramito o musica, se è poesia o natura, verbo o fruscio d’albero. “Io sono come un goloso/ che s’imponga un digiuno/ per essere qualcuno”; “Quello che sono ignoro e dovrai pure/ ignorarlo anche tu”; “Io non son come gli altri e mi dispiace”; “Dell’erotismo io non so quasi niente/… ma il sesso, dico, fiore della carne,/ è innocente,/ è innocente”; “Vecchio libidinoso, non c’è nulla/ di più moderno della tua vecchiezza”; “Eccomi illeso e senza disinganni./ Così ho finito: ora dimenticatemi”. Le rivelazioni accadono come filastrocche, cose durissime vengono dette come zucchero filato. Moretti riduce il labirinto lirico in un sentiero – pur pieno di mostri, di sfingi.

*Devo dire. Mi piace questa definizione di Giorgio Bárberi Squarotti, che parla del lavoro di Moretti come di “obbedienza assoluta” a “ciò che è piccolo”, come di “scandalo del troppo basso”. Lo scandalo non è nello scandalistico o nello scandaglio nel fango – che è già opzione retorica. È questa povertà, la dizione spoglia, il mendicare una nudità ulteriore. “L’opera in versi di Marino Moretti… è l’esempio più intrepido e strenuo della riduzione del discorso poetico al grado zero della semplicità più scoperta, più determinatamente ricercata, più calcolata nel respingere ai margini ogni tentazione espressiva, ogni allegoria, ogni dottrina, ogni richiamo anche remoto e indiretto alla tradizione o a modelli alti. Moretti proprio nulla deve a d’Annunzio e neppure al conterraneo Pascoli… È davvero l’esempio di un’obbedienza assoluta, perfino eroica, al canone della rappresentazione di ciò che è piccolo, modesto, provinciale, depresso… La poesia abdica totalmente a se stessa in Moretti… è lo scandalo del troppo basso, davvero agli antipodi rispetto al sublime pascoliano e dannunziano, e anche all’ironia di Gozzano”. Questa abdicazione senza agnizione mi affascina.

*Un distico che vale per ogni poeta, come l’apice di una disciplina. “Sono contento. Sono/ però sempre in agguato”. Moretti, plurivecchio, quarant’anni dopo, mi suona molto più giovane di troppi poeti che la reiterata gioventù ha reso stantii, conformi, esangui.

Davide Brullo

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Sole, sfortunate, sfibrate, in convento, né giovani né belle: repertorio delle donne di Moretti (con amarcord dal liceo di Fidenza). Attenti, però: i poeti sono gazze ladre, non offrono la verità, la rubano!

Quando studiavo alle superiori la poesia crepuscolare immaginavo giovani poeti, un po’ disadattati, tristi ed emaciati, ammalati di vita e di innocenza. Oggi dai media sarebbero definiti nerds, probabilmente più simili ai miei compagni del liceo classico Gabriele D’Annunzio, che ai contemporanei Fabrizio Corona o Fedez. Il liceo classico Gabriele d’Annunzio aveva solo due sezioni e queste erano frequentate soprattutto da ragazze. Quei pochi maschi presenti, si distinguevano per un perenne accenno di baffo, per il fisico o troppo gracile o troppo pronunciato. Insomma nessuno di loro poteva vantare all’epoca un fascino da sciupafemmine come i loro coetanei degli istituti tecnici. Ancora più dello scientifico il Gabriele D’Annunzio era la scuola frequentata dai figli dell’upper class di Fidenza, una cittadina famosa per essere stata bombardata quasi completamente durante la Seconda guerra mondiale. Da quella tragica esperienza, però era rimasto immune il Duomo del XII secolo e, solo durante gli anni Novanta, quando noi liceali dovevamo scegliere tra una laurea in Giurisprudenza a Parma o a Lettere a Bologna, l’amministrazione scopriva che quella chiesa sorgeva lungo la via Francigena, itinerario noto nel medioevo e ora fortuna per il turismo locale.

Se cresci in una città come Fidenza, dove gli abitanti si sentono comunità, dove tutto resta uguale e i giovani hanno il pub come alternativa alla noia, è naturale che molti di noi siano po’ crepuscolari, sospesi tra i non detti, il vorrei ma non posso. Indecisi tra l’arrendersi ad una condizione bigotta e conservatrice, ma comoda e il salto nel vuoto di una grande città. Così, i miei amici, ancorati alle tradizioni e alla famiglia, hanno deciso per le lunghe estati presso la piscina Guatelli, le umide feste paesane con tanto di retorica terzomondista e le scuole private cattoliche per i figli (perché l’equosolidale va bene solo se preso a piccole dosi come il caffè del Nicaragua). Insomma, hanno abbracciato quelle buone cose di pessimo gusto, incapaci di scelte rivoluzionarie e coraggiose, preferendo a Che Guevara il circolo privato di tennis. Noi, invece, figli di un dio minore, devoti a Guccini e Ligabue, siamo rimasti schiacciati tra sogni di gloria e una realtà politica che diventava sempre più deludente e autoreferenziale. Eppure “Noi credevamo”: credevamo nei Progressisti, nell’Ulivo e nell’impegno delle manifestazioni; abbiamo cercato di cambiare il mondo senza immaginare che il mondo invece avrebbe cambiato noi. Sarà per questo senso di impotenza che mi è restato incollato addosso, che amo particolarmente i poeti crepuscolari. Ho conosciuto tanti Guido Gozzano, Sergio Corazzini e Marino Moretti, gente dalla testa piena di sogni. Ovvero i Totò Merumeni della porta accanto con cui si discuteva di politica seduti sulle panchine della piazza Garibaldi. Nel 1910 sulle pagine del quotidiano La Stampa, il critico Giuseppe Antonio Borgese, presenta Guido Gozzano, Fausto Maria Martini, Carlo Chiaves e Marino Moretti, come poeti crepuscolari. Artisti che non hanno nulla da dire e nulla da fare, ma se siamo ancora qui a insegnarli nelle nostre classi forse qualcosa di buono hanno detto. In particolare trovo intrigante Marino Moretti per la sua discreta ambiguità.  Ha uno strano destino, cosa non di poco conto per chi come me legge i segni e interroga gli astri: nasce il 18 luglio 1885 e muore il 6 luglio 1979 a Cesenatico. La coincidenza di nascere e morire nel pieno dell’estate mi è sempre sembrato un affronto, una presa in giro da parte del destino. Inoltre nelle antologie per le scuole superiori viene spesso solo nominato come esponente della corrente crepuscolare, nonostante si caratterizzi per una sua profonda originalità. Malinconico, ma anche ironico e irriverente verso un mondo in bilico tra nostalgia e desiderio, in alcuni versi mostra una gran voglia di trasgressione. Un forte desiderio di vita. Altro che “animula” o “disperato pellegrino”.  In particolare mi riferisco all’assoluta modernità di Moretti in Ti ribelli (dalla raccolta Poesie scritte col lapis) i cui versi raccontano di abbracci sensuali e ricerca di emozioni d’alcova, più vagheggiate che realizzate.

Ti ribelli? Ti ribelli?
Ma come? Non sai che sei
La mia schiava e ch’io potrei afferarti pei capeli?
Io son colui che ha la bava
Qui qui tra labbra e gengiva
e tu sei ben remissiva
e tu sei ben la mia schiava.

Come suonano strani questi versi, soprattutto se penso ad un poeta che rifiuta l’orizzonte carnale dannunziano! Quanto contrastano con la domestica pigrizia pascoliana, in cui mamma e sorella sono le uniche donne degne di amore. La poesia, però, ha il brutto vizio di celare più che di rivelare. E chi afferma che sia specchio del cuore, forse non sa che, chi scrive versi, è come una gazza ladra: non offre, bensì ruba la verità. Chissà quale verità celava Moretti quando in Più vecchia di me, raccontava del suo amore adolescenziale per una signorina di dieci anni più anziana. Questa donnina, ormai rassegnata ad un’esistenza grigia, dopo la morte del fidanzato per pleurite e privata delle gioie del talamo, diventa una tentazione per questo timido poeta “giuro che sei la prima… la prima donna che…”. Ovviamente l’ellissi del verso finale non lascia dubbi sull’intenzione…

Quando racconta l’universo femminile, Moretti spesso si riferisce a figure di donne incontrate nella sua infanzia. Ha ben presente la figura materna, le suorine del collegio, la maestra di piano e la signora Lalla. Quadretti di donne di provincia, un po’ dimesse e perdute nei loro ricordi. Un posto privilegiato nel suo cuore è riservato alla sorella, presso la quale si reca in visita a Cesena.  Nella poesia A Cesena, è ormai una donna sposata e solo apparentemente felice. A Moretti, infatti, sono sufficienti pochi gesti di lei, il tono più alto di voce, le parole che le escono dalla bocca veloci come il vento, per capire che in fondo quella non è altro che una serenità ostentata.

In realtà sembra che nelle poesie di Marino Moretti non ci sia posto per la felicità delle donne: sono sole, alcune in ristrettezze economiche, altre rintanate in convento oppure come nella Figlia unica la figliola viene descritta impietosamente arcigna, beghina, poco avvenente, costretta suo malgrado a sottostare al controllo di mammà (nonostante dentro di lei arda il desiderio per un uomo). Per Moretti l’amore, quello sensuale, resta out. Resta un miraggio lontano, un desiderio inespresso come in Diva. Un capriccio di lei smorzato nel rifiuto di lui. Un malizioso tentativo di seduzione da parte di una ragazzina fin troppo sveglia verso il giovane poeta, giocato con l’offerta di una sigaretta al posto della mela, che ovviamente Moretti non può e non vuole cogliere.

Mi chiedo, infatti, se la risposta del perché Marino Moretti abbia raccontato in modo così impietoso il suo universo femminile fatto di figlie al capezzale della madre, di donne né giovani né belle, prive di grazia, di signorine quarantenni in perenne attesa di un cavaliere, non sia da cercare nei versi dedicati all’amico Poggiolini. L’amico dal mite sguardo di fanciulla.

Ilaria Cerioli

***

Io sono come un albero
sempre verde, mai nudo.
Io mai fui nudo e crudo,
mai mi màculo o àltero.
Per quanto ho gusto e fiato
dono, sprono, perdono.
Sono contento. Sono
Però sempre in agguato.

*

Dall’A alla Zeta

Chi ti contende il nome di poeta?
Chi ti vuol tutto ormai risolto in prosa?
Che cosa sei, che cosa,
se nell’arte minore che ti agghiaccia
quello che sai lo sai dall’A alla Zeta,
e di ciò il cruccio ti si vede in faccia
insieme ai segni delle tue rancure?

Io rispondo: Cucù!
Quello ch’io sono ignoro e dovrai pure
ignorarlo anche tu.

*

L’altro me stesso

L’altro me stesso guarda il suo giardino,
guarda le cose intorno,
sorride a queste cose, al verde, al giorno,
a tutto come quando era bambino.
E qui sente che il tempo s’è fermato,
che s’è come staccato
da tutto il resto e la morte è lontana,
e che ogni attesa è vana,
se non esiste più ora e stagione,
ma soltanto quel bosso e quel giardino.

Perch’io son quel bambino
con la sua sfida nella mia prigione.

*

Io non mi dolgo di non inventare
la mia modernità,
ché il moderno e l’eterno non mi prendono
alla gola, e il mio dramma non è questo.
E che sia più modesto
non lo sorprende anche perché lo sa.
C’è un altro in me ch’altre più cose sa.

Marino Moretti

Gruppo MAGOG