
Dino Buzzati, “addomesticatore di apocalissi”, scorge il mistero ovunque
Letterature
Massimo Triolo e Giusy Capone
Amico,
Se io fossi qualcuno, ti direi che le mie parole sono una poetica demistificazione delle leggende letterarie. Solo così trovo un senso a sputare qualche verbo sul foglio, fino a quando ne avrò voglia. Mi aggiro come un lupo preistorico intorno alla corruzione dell’estetismo letterario, al complesso erudito della ricostruzione storica, alla degradazione letteraria, alle false promesse dell’arte, intorno ai venditori di illustri illusioni, all’abuso delle immagini in poesia, del tono poetico, alla grande superstizione dei metafisici, il linguaggio, questa pretesa sgargiante sul nulla. E, salvo rare eccezioni, che tristezza. Lo sappiamo tutti che “esiste un’élite di ansiosi, il resto è l’umanità”. E nessuna preoccupazione per la moda o per il pubblico, nelle mie volubili divagazioni, ma solo una ironia lirica, spietata. Scrivo solo per me stesso, per fastidio. Non c’è altruismo nelle mie parole. Non mi occupo degli altri. Non destino il mio tempo alle loro vite. Non ho il terrore dell’ortodossia, esprimo le mie esagerazioni e difendo una sola causa, la mia, che so essere perduta fin dall’inizio, dal giorno in cui si nasce. Una sola cosa mi interessa, respirare e perdere a modo mio. Non ho la superstizione dell’altro, né ritengo la vita umana sacra. Per lo più sono sensibile al lato negativo delle cose, alla loro natura irreale, al punto da riconoscermi, più spesso di quanto non vorrei, in questo sprezzante cristallo… “sembra che abbia più amanti e pochi amici, poiché la sensualità è riservata alle donne, la sua insolenza agli uomini e l’ironia a tutti, anche a se stesso”. Ahimè l’idea scenografica di Luca, quando in realtà capitolo spesso all’indole opposta, non lesino amicizia, cura, pudore e umanità nei rapporti, con uno zelo perfino imbarazzante. Come chiunque conduca più vite allo stesso tempo, e dubiti terribilmente di sé, perché la vita, lo sai, reclama la vita. Se fosse un film, ti direi che faccio a pugni per strada, prendo a calci la vita come se gridassi al mondo intero l’infinita vanità del tutto, eppure cammino in silenzio, con me stesso. In certi giorni anche una bambina di sei anni potrebbe avere la meglio su di me, e non per eccesso di delicatezza, ma di sensibilità, voglio dire, uso i miei sensi in modo assoluto e un buco nero lampeggia nei miei occhi verdi, quando sono troppo lucido per avere carattere.
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E solo tu hai il potere di esasperarmi con le tue tesi, certi tuoi pregiudizi (ma sono davvero i tuoi?), voglio dire, in un modo che non riesco a irrigidirmi. E già pecco di stupidità, se è inevitabile che ognuno di noi si nutra di pregiudizi e, come sai, di te mi importa solo come difendi ciò che più ti tocca.
Tu, che contrapponi l’inferiore precipizio del vedere immediato alla verticale facoltà fantastica, la tua preoccupazione, quella di giungere dall’eccitazione dei sensi al soprasensibile. Tu, che parli di eros, sostenendo che è tutto. A me, a cui eros non interessa, se il suo unico merito è quello di partire dalla carne per giungere alla conoscenza, e il suo unico obiettivo è quello di elevare il piacere alla conoscenza. Se tutto, in eros, si riduce a una sessualità più “intima” e “riflessiva”, per ascendere ad altro. Quando l’erotismo è già la smania mentale, il rito dell’anima, qualcosa che si vuole elevare al di sopra dell’animale… e lo sai, da sempre si afferma che eros perda la sua sostanza, e scada quando diventa “animalesco”. Ma perché?
E sai che l’eros di Carmelo Bene era tutto per la pornografia, che sbeffeggiava Bataille, definendolo un “cattocomunista”, quando scriveva: “Dopo una notte di erotismo nascono i bambini, la specie si ingrossa, le famiglie si espandono, i condomini si rafforzano, lo Stato si gonfia. Si ricade nel sociale. La pornografia è il solo antidoto a tutto questo perché il soggetto, qui, è l’oggetto squalificato, è la mancanza di rappresentazione, ossia l’irrappresentabile… l’erotismo è quanto di romanticamente più stupido ci possa essere, appartiene all’io… il plagio reciproco nella irreciprocità assoluta”. Ma in fondo che ne capisco io, un povero demente?
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Io, che non scelgo tra l’irritualità oscena della pornografia e la scena rituale dell’erotismo. Né il tentennare teorico dei sadiani, le loro oscenità ragionate che sono più importanti del piacere stesso, la prosperità del vizio nella spersonalizzazione del singolo individuo. Né l’elemento erotico dell’anima, la grammatica di eros, il superamento di se stessi nella ricerca di un altrove, il coito come un efficace strumento di ricerca spirituale, per dilatare il piacere a costante stato dell’essere. Voglio dire, qualcosa di profondamente stucchevole e falso alleggia in entrambe le mentalità, se univoche, moda, teoria, manifesto, avanguardia, via maestra da seguire, catechismo. Io, che non condivido la parzialità di CB per la pornografia, né la tua per l’erotismo. E solo per capriccio, perché l’univocità ha sentore di schematismo e uccide l’ambiguità. Ed io, povero scemo, vittima dei miei umori, annego nel gorgo dei vasi comunicanti, nel tutto e il niente allo stesso tempo, consapevole che nessuno è più degno dell’altro, e non esiste gerarchia, progressione o ascesi che tenga, così, perché l’animale e la gnosi sono fusi, indivisibili, come dare colpi sul mercurio.
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Amico, sofferenza, emozione, paura, passione, piacere sono già tutte estasi aderenti alla vita, e dunque vere, perché momentanee, non promettono alcuna liberazione. Non faccio del sesso un mito, ma trovo estatica la fica, la sua forma, quel irresistibile e feroce taglio, ipnotica fessura, antro del desiderio. La fica è già metafisica, voglio dire, uno stupefacente, cocaina lirica, come possono esserlo la profondità e la luce di uno sguardo, un sorriso, una bocca, il suono di una voce, il dorso e il fondo di una schiena, la fierezza di un seno, le mani, la linea di una coscia o di una camminata, il sapore dei baci e l’odore della pelle, un orgasmo. So che quasi nessuno è altezza dei propri squilibri, che quasi tutti deludono, ma ogni volta che vedo una donna che mi cattura, per strada, e la perdo, e so che non la conoscerò mai, che non potrò avere il privilegio di averla tra le braccia, è un piccolo grande lutto, perché, come si dice, ogni essere è abitato da una vita segreta, inavvicinabile, entrarvi è sempre una feroce avventura, talvolta un dono. E ho detto cocaina, la fisiologia che eccede se stessa, il paradosso della biologia, e non “la conoscenza è il nutrimento dell’anima” di Platone. Un surreale che è intensificazione e non una fottuta ablazione della passione materiale. Voglio dire, io non mi lancio nell’invisibile per disprezzare il visibile, nella parola per deviare dalla carne, nel tempo per sdegnare lo spazio. Non vegeto nell’antitesi, mi nutro da predatore – ogni amor proprio lo è – di un incessante movimento, a seconda della posizione del corpo, della disposizione d’animo, della quantità d’alcol o caffè bevuta, o di un’insondabile commistione di moventi ed emozioni. Non teoria, posa estetica e parole alate sull’essere. Non facciamo finta di non capire. Perfino un giovane capriolo che salta di gioia convulsa, erratico, come impazzito, per gioco, eccesso di energia, all’alba della vita, è l’estasi della natura, che si rinnova, supera se stessa.
Così, di Cioran mi piace il fatto che avesse un’inclinazione gnostica ma rifiutasse tutte le soluzioni, non solo quelle gnostiche. Se il mondo, qua giù, non è una soluzione, non lo è neanche un altro, superiore a quello materiale, neanche la mistica dell’arte o della poesia. Lui, che si immerge nelle filosofie orientali, e alla fine sceglie sempre il samsara e non il nirvana, che sostiene essergli “fisiologicamente estraneo”. Lui, che si interessa allo stoicismo, e non si piega mai alle sue risposte. Mi piacciono le sue plateali contraddizioni. Quella in cui afferma, per esempio, che il sesso è sopravvalutato, che il suo prestigio gli viene dal fatto di sopravvivere alla pratica prosaica del bidè, eppure alla fine della vita capitola, con una sbandata paurosa, non solo platonica, per la giovanissima Friedgard Thoma, lei, che non gliela ha mai data. Vedi, tutta questa estatica verticalità, e poi un pelo di fica, a volte, tira più di un carro di anime. Voglio dire, quando si desidera qualcosa la si vuole mangiare di passione, e non fare all’amore con le parole.
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Ma perché questa ossessione univoca per un erotismo estatico, per l’elevazione, l’ascendenza, la riflessione, questa “scalata verso la luce che si affronta dal nulla”? Perché scrivere che un’arsura deve essere celestiale, e cantare che accedere a qualcosa implica un’ascensione, lo scaturire del bello dal mostro, della forma perfetta dal gorgo del male? Perché questo riscatto? Questa ossessione per i verbi verticali, l’abuso della luce, la pretesa che l’educazione al bello debba equivalere all’amare, e l’elevazione alla Bellezza? Come se il bello e il profondo dovessero assumere una forma alta per esistere davvero, come se il mondo fosse troppo osceno per non essere sublimato. Lo sai che la grazia della penna sfiora sempre la sua disgrazia, come il giorno e la notte, l’estasi e la depressione. Non c’è elevazione. E non avere paura di sporcarti, di unire la biologia alla tua gnosi, di gettare nel fango la tua immaginazione, di unire il libro della natura a quello dell’uomo, invece di trasfigurare la crudeltà nella purezza, il male nell’arte, la perdizione nella dedizione di una estetica che sia un’etica. Ancora questa fottuta mistica dell’arte. Ma perché? L’orrore e la vita hanno forse bisogno della nostra bellezza per esistere – ma che! – per non essere insignificanti, per essere grandi e sottrarsi al loro nulla? Ho già sentito qualcosa di altrettanto deludente, a sancire l’inferiorità dell’animale e il creato e fissare per sempre il privilegio estatico, verticale, la nobile esclusiva degli umani, “l’animale vive, semplicemente, solo l’uomo esiste”. E quale inutile presunzione di superiorità. Se proprio vuoi parlare di mistica, rammenta quella sensuale che unisce mondo animale e mondo spirituale, quella che disprezza la pretesa di voler separare, in assoluto, la creazione umana dall’esperienza sensibile e dalla sua induzione quotidiana.
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Scrivi che la parola viene prima, e solo dopo, eventualmente, la carne? Ma no! Lo ripeterò fino allo sfinimento. Se non vuoi disprezzare la sapienza dei sensi, delle immagini, non c’è gerarchia verticale tra inferiore e superiore, ma solo una continua osmosi impura. Imporre la Letteratura, poi, come sola sapienza e salvezza, dire che il futuro dell’Umanità dipenda dai lettori autentici di tutto il mondo (quelli di Dante e di Shakespeare), pretendere che il linguaggio dell’abiezione si elevi all’eleganza del cigno, a sublime figurazione; sentire la necessità di trasfigurare la realtà con la Bellezza; mutare l’umiliazione in qualcosa di divino; passare per la carne per deviarsene; vedere la grazia nel cadavere; fare della sventura un trionfo e diventare padroni – sono illusioni creative affascinanti ma sconcertanti, che spezzano il cuore. La contrazione della vita mediante l’impegno della parola, il fuoco della passione rivolto a un fine che la contraria, l’ablazione del desiderio, spacciati così, come un fottuto trionfo, una suprema forza, la quintessenza della vita: “siamo così abituati a vedere nella saggezza un residuo delle passioni spente, che fatichiamo a riconoscere in lei la forma più dura, più condensata dell’Ardore, la particella aurea nata dal fuoco, e non la cenere”. Io, che non tollero in Harold Bloom, questo aristocratico dell’intelletto disincarnato, la sua definizione dei poeti, “degli angeli”, e la loro pretesa missione, “la riconquista del cielo”, il divorzio incolmabile che si insinua tra la bellezza naturale e la sua rarefazione artistica. Amico, lo sai anche tu che la metafisica, come la mistica, è la grande arte di eludere la pericolosa esperienza terrena, “e la possibilità di passare per un eroe a un uomo che non sa nemmeno cosa sia la guerra”. Lo scriveva il tuo amato Šestov, un metafisico, perché la fede nel fantastico si oppone al feroce nulla sensuale della materia, così, perché lo sconforto di dover morire e sparire genera una lotta che, nella volontà di lasciare una traccia, la compensazione di una ferita, l’invocazione di chissà che cosa, nel farlo, umilia la terra.
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E poi, lo sai, che ho già scritto altrove di non aver mai creduto alla strana e illuministica fiducia nella formazione su larga scala di un’opinione pubblica colta, capace di servirsi del proprio intelletto. Non ho mai avuto fiducia nel lettore. Nella sua facoltà critica, meno che mai creativa. In un vuoto formalismo che nasconde per lo più un ammasso di feroci pregiudizi ambulanti travestito da statuaria apoditticità. Ho sempre mal tollerato i dotti che giocano alla commedia della conoscenza, e la maggior parte dei fruitori di libri, gli illusi che immaginano l’intelligenza coincidere con il sapere, con il tanto più leggere, tanta più intelligenza o presenza. Quest’ultima, poi, è come il carisma e il fascino, impossibile che aleggi e imperversi, se non innata. E solo tu sai quanto possano essere ignoranti le persone colte, che la vera immaginazione ha sempre disertato le scuole. Quanto alla forza del genio di Shakespeare, per sapere quanto sia insignificante l’istruzione umana, basta leggere i suoi commentatori. E sai che perfino l’Opera, al pari della vanità, ha bisogno di volta in volta di un turiferario, un adulatore, un incensatore che contribuisca a diffondere il suo Verbo, il narcisismo dissimulato sotto le false spoglie di un Don Chisciotte che cerca stuoli di Sancho Panza, o il proprio san Paolo, “il più grande agente elettorale della Storia”, a cui affidare la propria futura gloria. E il letale difetto di chiunque scriva, voglio dire, di quelli che hanno fatto della scrittura il loro mondo, si rivela quando ogni esperienza vissuta è in funzione della trascrizione nelle parole, peggio ancora, un pretesto per future pubblicazioni. Non è un bel vizio, e un lusso che meritano pochi eletti.
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E dico che, qualora io fossi un poeta o uno scrittore, non sentirei mai la necessità di sfoggiare una fonte, una nobile filiazione, dei numi tutelari. A che pro evocare una nomenclatura, l’ansia di mettersi sotto la cappella di un altro? Una catena illustre che domina, pregiudica ed intimidisce i più, nelle smisurate doti che attribuiamo loro, che sminuiscono il senso delle nostre – “la maggior parte delle volte non nutrono, ma annientano, e nulla di davvero autentico può sorgere sotto un altro sole”. Lo scrisse un certo Edward Young, nel Settecento. Lo sai anche tu, che l’eccessiva abitudine a sorgenti non nostre, il languire sulle fondamenta di un altro, quasi sempre indeboliscono ogni forza di pensiero personale, che il tono di seconda mano rappresenta un’umiliazione. E che il genio di uno vero scrittore o poeta sta nel far scomparire tra le righe, se non dimenticare, le sue eventuali fonti ispiratrici, le influenze, e perfino nell’occultarle, perché “le imprese che si basano su una tenacia interiore devono essere mute e oscure”. Vagheggio una natura vegetale, la crescita innata di una mente, quei creatori che riescono a infondere un tono sorgivo, minerale, asemantico alle loro parole, e forse sono solo creature ideali, mitiche. Una chimera.
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Sì, è vero, ogni vero scrittore può essere anche un distruttore che accresce l’esistenza, che l’arricchisce scalzandola, ma sempre nel paradosso, con un’esperienza scavata nel corpo che si fa pensiero. E quando si spinge oltre e afferma che in assoluto l’arte è superiore alla vita, che essa rende interiore, e dunque accettabile, la smisurata estraneità del mondo, come accade nella mistica letteraria di Proust, quando scrive che la vera arte: “è il momento in cui lo spirito prende corpo, in cui il corpo insignificante viene riconosciuto come persona spirituale, pensiero indipendente da qualunque corpo, morto o no, e quasi immortale”, allora ascolto “indipendenza spirituale”, “immortale” e “insignificanza del corpo”, e già provo un conato, mi si chiude la vena, come quando afferma: “In fondo, anche in quelli tra noi che per i quali la nobiltà spirituale consiste nel non ammettere i moventi volgari, nel condannarli, nello sforzo di purificarli, essi possono esistere, trasfigurati… vi è, dunque, tutta una parte che viene esclusa”. Così, come se nulla fosse, una condanna, una purificazione, la trasfigurazione, l’esclusione di tutto un universo che si sa immenso e con cui non si vuole avere a che fare. Ma che bella sequela di umilianti verbi. Lui, per cui “la vera vita, la vita finalmente riscoperta e illuminata, la sola vita, dunque, pienamente vissuta, è la letteratura”. Il fottuto verbo. L’ultima, suprema fede, per degradare l’intensità dell’immanente a favore dell’esaltazione di un mondo proiettato oltre il regno della materia, oltre la natura del mondo vegetale e animale, per giungere all’immortalità dell’opera e di una vita. Con ardore puritano, là dove la parola assume il potere di creare un’illusione, tanto quanto la vita reale, empirica, ne ha di distruggere questa stessa illusione. Così, perché il mondo è sentito come carcere dell’anima, e ogni storia esteriore non sarebbe altro che il riflesso del destino di un pneuma oltre mondano più autentico; e più forte è la perdita della realtà, più intensa diventa la coscienza negativa del mondo esteriore, la ricerca di un io concentrato nella propria insulare verticalità. Lo sai anche tu che il primato del Tempo smaterializza il corpo in vista dell’eternità dell’anima. Perfino l’inconscio è scremato dall’impura immanenza, così, perché accordiamo il primato alle impressioni soggettive, interiori, rispetto al reale, e riteniamo le impressioni tratte, sì, dalle sensazioni indotte dal reale, da un correlato empirico e materiale, ma che questi sia solo, ahimè, un inevitabile punto di partenza da superare, un male necessario. Ogni cosa è già il pensiero di una cosa, “l’istante in cui le cose vivono sono fissate dal pensiero che le riflette”, scrive l’autore della Recherche.
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E tu sostieni che bisogna leggere i grandi per vivere con più presenza al mondo. Chissà, forse aiuta. Ma ricordo Sergio Solmi, quando scrive con piglio forse troppo idillico: “Poeti che invece di comporre versi, avrebbero dovuto, camminando senza posa, addentrarsi nel bosco e riposare nei pressi di un ruscello, sotto il sole o la luna, sottomettersi all’influsso di forme e suoni elementi fugaci”. E vado oltre. Guardo altrove. Non faccio un mito della natura ma, non dico l’ovvio, un leopardo, una tigre, un leone, ma ogni animale, anche quelli domestici, anche quelli in apparenza più disgustosi, una tarantola e un’anaconda, hanno una presenza e una carisma che inquieta e rapisce allo stesso tempo, che noi neanche ci sogniamo. Eppure non hanno scritto o letto una sola riga. Voglio dire, trovo più bellezza e potenza nella presenza, il respiro affannato, cupo e potente di un orso, che si alza in piedi e ti guarda dritto negli occhi, al battito vivo della natura, il suo inconfondibile fetore, che nel migliore dei nobili versi di Yeats. L’ho vissuto nelle foreste dell’Up State New York. Hai mai provato? Che emozione e perfino più estasi, al cospetto di quel ruggito che colpiva le mie ossa, le cui onde penetravano la mia cassa toracica. E spesso trovi più poesia, vita e bellezza in chi attraversa il deserto o l’antartico a piedi, in solitaria. In chi ha scalato tutte le ventiquattro vette più alte del mondo, solo. E forse ci sono state più estasi e libertà per Patrick de Gayardon, con la sua tuta alare, il maestoso volo orizzontale, la sua fine. Forse c’è più bellezza estatica in quella affascinante donna che, dopo una litigata furiosa piange e, chissà perché, per contraccolpo, dà fuoco a un desiderio animalesco, un mutuo furore di baci e carezze, una scopata memorabile, con quella luce inaspettata negli occhi, quella forza feroce e ostinata, e linfa impertinente nei lineamenti, solo apparentemente senza difese, quella energia che non ha filtri, e il capitolare difronte alla verità di questa presa diretta, un baratro sensuale, muto, mentre tu le lecchi le lacrime. E forse c’è più estasi in quella impresa leggendaria, verticale, da mozzare il fiato, prima e unica al mondo, la scalata senza corde, free solo, a mani nude del mitico El Capitan da parte del giovane Alex Honnold, uno che ha ‘anima’, cuore e palle, quando lotta fisicamente con la morte a ogni centimetro. Amico, prova a trovarti a tre metri da un leone che ruggisce, a un leopardo che ti fissa dritto negli occhi, senza recinti di protezione, e annegherai nella fascinazione ipnotica, il puro terrore, e forse anche nel pianto, quando scorgi quella verità profonda, inaudita, inaccessibile alle parole, là dove non c’è bisogno di evocare o inventare Dio. Voglio dire, non guardate solo la televisione. Ricordo l’onça, il poderoso giaguaro amazzonico, che attraversò il campo dove si trovava la mia tenda, nel Mato Grosso, la zona di Diamantino, lui, che si fermò e mi fissò dritto negli occhi per alcuni secondi, un’eternità, per decidere se attaccare o fuggire, e invece si dileguò con tutta l’abbagliante presenza di un passato remoto, a passo felpato, lento, nel gorgo della fitta foresta. Impossibile non rimanere infinitamente turbati da tanta maestosa e incredibile bellezza, quando nessun verso ti restituisce una simile emozione, quella potenza muta che le parole hanno sempre tentato, quasi sempre invano, di captare. Prova per credere, e non guardare solo i documentari.
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Ricordo quando io, Mark Harmon e un beduino, vestiti da Tuareg, a volto coperto, soli, vagavamo nel deserto, ognuno sul suo cammello, giorni e giorni, fuori dal set, per imparare a governare questa creatura, i comandi gutturali da emettere, i suoni, le parole chiave. Dovevamo girarvi delle scene. Imparammo a cavalcarli, veloci come il vento, tra il silenzio delle dune, il sibilo afoso dell’aria, i loro versi, a cui noi stessi rispondevamo con vocalizzi ancestrali. E avevo undici anni. Voglio dire, frequentiamo i versi, e molti di noi vorrebbero incontrare quelli rari, le parole che racchiudono questo senso di avventurosa vastità, l’emozione che non abbandona la terra. Lo sai, che temere qualcosa non è un buon motivo per mancarle di rispetto, che sono stufo di questi pur bravissimi scrittori che, quando li vedi in foto, sono quello che sono, troppo pallidi, perché gli estremi tuttalpiù loro li studiano, non li vivono, si leggono l’ira di dio.
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E poi mi chiedono perché, oggi, io non mi emozioni quasi più per una buona parte degli esseri umani, e invece rimanga profondamente turbato per la storia recente di quel cane da caccia, una femmina, presa e abbandonata in un canile per ben quattro volte, dai cacciatori, perché non faceva quello che ci si sarebbe aspettato, cacciare, lei, che al quarto abbandono si è lasciata morire di tristezza. Amico, la foto di quella creatura senza vita su tutti i giornali, buttata sul selciato, esanime, sfinita dalla vita prima del tempo, lei, che non ha avuto l’occasione di avere non dico un padrone, ma un’amicizia per la vita.
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Se solo tu fossi stato mio fratello, ti avrei portato e provare tutto, almeno una volta nella vita. A buttarti da una aereo, a percorrere il deserto o l’antartico a piedi, a cavalcare un cammello o un cavallo, a correre il rischio di incontrare un animale selvaggio da vicino o toccarlo, a vagare nella foresta amazzonica, a provare l’ebrezza estatica della velocità con una macchina sportiva o una moto, a scalare una montagna o navigare in mare aperto in solitaria, prima di scrivere un solo verso, prima di dire che “è vita uscire dalla vita, per verificarne le sue periferie” con la tua pretesa verticale, senza prima conoscere queste ebbrezze.
E lo sai, che la vera poesia più spesso si trova fuori dalla poesia, dai poeti di professione, perché, come si dice, lei è impossibile, esiste solo quando viene immaginata, e una volta che finisce sulla pagina, scompare. Amico, ricordo alcuni papuani, gli Yali che abitano le regioni remote del Wanyak, mai usciti dai loro confini, dalle loro montagne o visto altre culture, portati a visitare per la prima volta l’Europa, un giorno d’inverno si trovano sulla costa francese, una spiaggia con il mare in tempesta, stupiti e rapiti, e uno di loro esclama all’altro, serio: “guarda, il mare vuole mangiarmi, le onde mi leccano i piedi”, loro, che parlano la lingua dei primitivi, e sono poeti senza essere dei poeti.
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Non so se ho un’anima, ma ho almeno un cuore, che è ancora un organo, un corpo, un tatto, un’emozione, io, che non credo in nulla, e sono un demistificatore solo perché amo le leggende che contano davvero, a cui comunque non credo. Ma lo sai, che i veri creatori talvolta sospendono l’incredulità, si offre loro la giugulare, a tratti, forse, per solidarietà con l’impossibile.
Luca Orlandini
*In copertina: Luca Orlandini; lo scambio tra Luca Orlandini e Davide Brullo che prelude a questo pensiero è qui.