I luoghi, forse troppo a lungo cercati, recano con sé le pretese e le richieste di un’intera esistenza; o, forse, è esattamente il contrario: sono le esistenze a portarsi dietro i luoghi – incastrati nell’anima – che di quelle richieste e aspettative sono la plastica visione. Nell’ipotesi che un’interazione (passata) risuoni in tutte le sostanze che in essa sono state coinvolte, è possibile che entrambi – esseri viventi e cose – non siano più uguali dopo essersi vicendevolmente attraversati e che in loro rimanga impressa, su una superficie traslucida, la vaporosa immagine di quel congiunto afflato vitale, come dell’affanno di due amanti avvinghiati in un lascivo abbraccio.
Dell’immanenza si possono cercare segni negli alberi, in un anfratto o in una strada, come nei muri e negli arredi di una casa; della trascendenza, del sortilegio del cuore, invece, non resta traccia, se quegli spazi e quelle cose si sono consumati solo negli occhi del loro abitatore, affidati all’effimera memoria del tempo. Ma qualcosa sopravvive per sempre, se quell’abitatore era un poeta.
Muzot fu per Rilke un tempio terreno, le mura tra le quali svolgere la mistica ricerca del verbo assoluto e celebrarne, in ultimo, il trionfo nella prodigiosa stesura del suo massimo lavoro: le Elegie Duinesi. Il giardinetto del castello e la natura delle prealpi che incorniciano Sierre furono invece, per quel mausoleo, come sterminati Campi Elisi, distese ove risuona, ancora, l’eco di una muta contemplazione. Quando di quell’angolo di mondo ne accennò per la prima volta alla sua musa, Lou Andreas Salomè, Rilke già si espresse con attonito entusiasmo, quello di chi allude – incredulo – ad una spontanea integrazione del suo spirito con quel luogo. Nella vita del poeta, Muzot divenne presto un punto fisso in una vallata scandita da armoniche geometrie naturali, sede ideale per un distacco dal mondo lungamente cercato.
All’amico Paul Valéry apparve come il posto in cui si consumò “il monologo infinito di una coscienza radicalmente isolata che nulla distrae da se stessa e dal sentimento della propria unicità”. La calma surreale in cui immaginava immersi gli infiniti giorni della gestazione artistica rilkiana lo spaventò, dapprima, perché di quelle scure pendici di monti visualizzò, da subito
“gli interminabili inverni trascorsi in un tale abuso d’intimità con il silenzio, tutta la libertà concessa ai Suoi pensieri in forma di sogno, agli spiriti essenziali e troppo concentrati che si trovano nei libri, ai volubili genii della scrittura, alle potenze del ricordo”.
Muzot, tuttavia, possiede due spiriti: l’uno, quello arcano e antico che le conferisce la natura incontaminata, cui le pietre del castello, riverenti, si inchinano in architettonico misticismo; l’altro, quello che si generò dall’incontro di quelle cose con l’oblio: la dimenticanza dal mondo in cui Rilke si seppellì per unirsi ad esse. Di questo si accorse Valéry stesso, che dovette presto ricredersi dalla sua prima, negativa impressione. Rivolgendosi all’amico e pensandolo imprigionato “nel tempo puro”, disse:
“Io temevo per Lei la trasparenza di una vita troppo uguale a se stessa che, nel trascorrere di giorni sempre identici, lascia intravedere nitidamente la morte. Quanto ero ingenuo a compiangerLa, mentre invece da quel vuoto il Suo pensiero creava prodigi, e rendeva materna la durata. Invidiabile più di ogni altra è la Sua dimora, la torre bassa, la torre incantata di Muzot. Quella tremenda pace, quell’immensità di quiete mi appaiono, oggi, ciò che furono per Lei: condizioni incantevoli”.
Di fronte alla magica integrazione tra l’uomo e i luoghi della sua maturazione artistica si trova Baladine Klossowska nel 1923, quando giunge a Muzot. La donna si incontra con Rilke il 12 luglio, con l’aspettativa di passare del tempo insieme, ma la salute del poeta vacilla ed è imminente un suo ricovero al sanatorio Schöneck, vicino a Beckenried.
I due trascorrono tre giorni a Thun, dal 18 al 21 agosto. Rilke si reca quindi a Schöneck, mentre Merline – come la chiamava affettuosamente lui – torna a Muzot, dove rimane sola fino al suo ritorno, il 27 di ottobre. Si aprono così due mesi di viaggio interiore negli abissi dell’universo rilkiano che si compongono – letteralmente – di scoperte quotidiane, dettagli e ritrovamenti, allontanamenti e avvicinamenti, sensazioni di familiarità e alienità.
L’atmosfera che regna tra le pareti del castello, “vegliata da Orfeo” ed avvertita attraverso gli occhi e le sensazioni della donna, è davvero singolare. Un segreto mistico, che neppure i sogni riescono a decifrare, pare fluttuare tra mura e arredi. Il più insignificante dettaglio contiene in sé “mondo”: e così il letto del poeta, giaciglio di molte notti, si apre a lei in una destrutturazione esistenziale, facendosi “ospitale, come un essere vivente”.
Merline si sposta tra cose che le danzano accanto, mosse dalle sue stesse, indecifrabili intuizioni, ritrovandosi traslata in uno stato di risonanza con l’inanimato. Nonostante i frequenti messaggi silenziosi che l’attraversano, sullo sfondo di quella condizione quasi onirica, è costretta a riaversi spesso, richiamata alla difficile vicenda umana che le preme alle spalle e la lega al poeta.
La prima lettera che, alla fine dell’agosto 1923, parte da Muzot alla volta di Schöneck reca un’apertura quasi infantile, ricca di immagini piccole e intense. Vezzeggiativi, superlativi ed esagerativi condiscono un quadro di semplici attività quotidiane. Sono figure e gesti domestici che, nella loro autenticità, sono scoccati a guisa di una freccia volta al cuore di Rainer.
22/25 agosto 1923
Caro,
ho appena spedito un piccolo pacco espresso a Schöneck, con 4 bellissime rose che ho tagliato per voi sotto la pioggia per mandarvele con quanto vi era di posta. Ero come una bambina che lascia il suo papà, o come un cagnolino che ulula al suo padrone. Vi ho pensato a tutte le ore, soprattutto la sera. Quando sono tornata a casa faceva caldo e ho dovuto fare un bagno con i miei capelli, tanto avevo voglia di rimettermi a nuovo. Ho visto il vostro treno arrivare a Spiez e quando quel vagone cattivo ci ha separati, mettendosi in moto, vi ho visto al finestrino. Vi salutavo con la mia pelliccia, come se avessi dimenticato di avere una voce (questo mi è venuto in mente solo di notte, nel letto). Il giardino era un po’ stanco, anche se qui era piovuto domenica. Ho subito iniziato a tagliare i falsi germogli dei roseti e la sera li ho annaffiati con Henri. La vostra stanza era l’unico posto luminoso, così mi è sembrato.
Volevo sfidare la mia nostalgia cercando di cenare come se voi foste qui. Ma credo che se avessi tenuto il bicchiere sotto gli occhi, invece del fazzoletto, l’avrei completamente riempito di lacrime; e ho dovuto alzarmi per sedermi al vostro posto – talmente mi doleva il cuore. Questo è anche amore – vedete – forse molto stupido. La sera sono andata, con 4 candele e una bella luna, nella vostra stanza dove ho scritto una lettera. Ho avuto paura? Forse un po’. Quando volti la schiena alla porta, hai sempre paura che qualcuno ti metta una mano sulla spalla. Ma mi sono ripresa nel vostro appartamento, quello che davvero abitate. La sala da pranzo mi lascia indifferente e non ho ancora aperto il salotto. È una strana casa. Ho dormito nel vostro letto, che era ospitale, come un essere vivente, e posso dire che non ho mai dormito così bene a Muzot come quella notte. Ma voi, caro, come avete trascorso la vostra prima notte? Non è poi così male questo sanatorio, non è così? E oggi avete già visto il dottore; non nascondetemi, oh mio caro, quello che vi ha detto. Ieri sera ero molto preoccupata. All’improvviso ho immaginato che non vi sentiste bene laggiù. Non ho ancora impacchettato la vostra giacca, prima di tutto perché avevo paura di rompere le rose e poi perché nel pacco non doveva esserci nulla di utile. Non credo che il tempo sia molto buono dalle vostre parti. Qui piove e si rannuvola, se così si può dire, ma va bene così, caro, questo mi consente di rientrare un po’ in me stessa.
Merline utilizza molti registri diversi per rivolgersi al suo amato Rainer e, così facendo, apre un varco nel suo cuore che oggi è, per chi legge, uno sguardo diretto al peso della contingenza.
Il verbo disegna il perimetro di un cerchio impenetrabile – e privato – dove pulsa il cuore di un’intimità irraggiungibile; così le rose diventano “bellissime”, il volto di Merline che le spedisce si atteggia, pensando a lui, come quello di “una bambina che lascia il suo papà o come un cagnolino che ulula al suo padrone”. Il treno che porta via Rainer è fatto di vagoni “cattivi” che li separano “mettendosi in moto” e l’irresistibile leggerezza del commiato diviene trascinante, qualcosa che in esso svanisce, fino a farle sventolare la pelliccia per salutarlo, “come se avesse dimenticato di avere una voce”.
Nella semplicità delle parole vive una purezza inviolabile, che fa sentire importuno chiunque si intrometta per dirne. Ci si volge allora ai morti – onnipresenti figure rilkiane – quasi a cercarne un simbolo, una forma di consenso. Ma il muto segno, che forse giunge inghiottito dal silenzio di quelle camere, non è dato avvertire. Dopo un ingresso in cosa che non appartiene si rimane congelati, come ladri colti nel furto, e, tormentati da quell’involontaria invasione, si sente necessario un deferente allontanamento. Perso il contatto fisico e divenuta netta la separazione, quasi a formalizzare una sorta di inversione di spiriti, una metempsicosi del poeta nelle sue cose, tutto – intorno a Merline – si anima di vita propria: ogni entità è smossa dalla sua stasi e si nutre di pensieri meditati che ora stanno lì, ove lei li può vegliare, in attesa di un ritorno. Nella pienezza di quel vuoto che si adempie, anche il giardino diviene “un po’ stanco” e si mostra alla donna come fosse un attimo di vita già vissuta che riprende subitaneo vigore, al suo essere osservato. Muzot diviene così “Minot” nella Correspondance tra Rainer e Baladine: intimo nomignolo che esprime la crasi esistenziale dell’uomo Rilke con il suo castello.
Merline dipinge una vivida immagine quando si descrive pensosa, con lo sguardo perso nel vuoto, nella silenziosa penosità di una cena solitaria in cui se avesse “tenuto il bicchiere sotto gli occhi, invece del fazzoletto”, l’avrebbe “completamente riempito di lacrime”. La reazione di alzarsi e sedersi al posto di Rainer per smorzare il dolore, è vera e propria fisica dei sentimenti. “Questo è anche amore – vedete – forse molto stupido”, dice la donna, mettendo a nudo quella fragile superficie che compone l’essere umano, meglio definita, per consistenza, nei vuoti da riempire con difficili risposte interiori piuttosto che nelle tempeste degli eventi.
L’esplorazione degli ambienti del castello avviene per gradi, non senza la “paura che qualcuno ti metta una mano sulla spalla”. Come una presenza spettrale, la lunga, persistente assenza del poeta insidia spesso Merline, sfidandone la tempra. I suoi pensieri vanno di continuo al sanatorio. “Non nascondetemi, oh mio caro, quello che vi ha detto (il dottore)” suona come una delle tipiche previsioni che l’amore fa di se stesso, anticipandosi e preconizzandosi nel suo agire. In quel luogo indicibile vivono gli amanti minacciati dagli eventi avversi: nella paura che le manifestazioni dei moti interiori tendano loro fuorvianti tranelli. Un’inquietudine profonda la coglie quando “all’improvviso” immagina che Rainer non si “sentisse bene laggiù”… Le premonizioni incedono e il confine esistenziale tra lei e Rilke si fa labile, quasi trasparente. Una danza di parole che sfiorano il limite tra l’incanto delle intuizioni e la nevrosi della lontananza: lì si consuma il misterioso paradosso di un dialogo ininterrotto che prende vita dal soliloquio di Merline:
Muzot è tanto cambiato per me. Chi si piega? Lui o io? Ho dormito sul piccolo divano, vegliata da Orfeo; ho fatto un sogno che non riesco a ricostruire, con una frase misteriosa che volevo subito annotare ma non ho avuto la forza di alzarmi. Il cielo è a tratti lacerato. Riuscite a vedere il sole che entra dalla vostra finestra a destra? È pallido ed esitante, come voi lo siete con me. Assaporo questa calma intorno a me, un silenzio che non ho mai provato prima, e la vostra stanza, vi assicuro, è già la mia. Ho tre rose davanti a me: bianca, rosa-rosa, rosa-rosso nel piccolo bicchiere F.A.C.D.: Fanny, Alma, Cécile, Dorothée. E se non vi stessi scrivendo, mi chiederei: Merline? O chi? In ogni caso, una donna sola e un po’ assonnata. Quanto durerà questo miracolo di sentirsi “sconosciuti”? […] Quello che voi chiamate “disumano” in me sembra fiorire in questo momento. Sono distaccata da tutto e posso dimenticare tutto il passato. Questo vi va bene? I tre giorni felici sono stati come una domenica in un libro illustrato. Che tante cose così semplici e belle diventino stravaganze, sono il segno della nostra inquietudine, della nostra vita mal impiegata. Spero con tutto il cuore che voi possiate sentirvi meglio, che avrete fiducia in questo medico e in questa cura. […] Stamattina, quando mi sono svegliata, vedendo questo cielo carico di (lacrime! no!) di nuvole, sentendo il vento, continui cambiamenti di luce, il fresco, il freddo:
“Addio estate,
Spesso è stata
Un mare di lacrime”
La lontananza, la malattia, le preoccupazioni, il lato oscuro del vivere trovano la suprema sintesi nella straziante immagine di un amore che fluttua in un “mare di lacrime”: una confessione che risuona, a distanza di un secolo esatto, con la stessa veemenza che ebbe in quell’istante. Affratella a lei chiunque sia afflitto, quel moto d’animo. Esprime la difficoltà di un amore che tenta faticosamente di distaccarsi dal passato e dalle esitazioni, azzarda la difficile via “disumana” di trattenere tutto in sé come “senza sentimenti”, ma si concede (ancora) il miracolo di sentirsi “sconosciuti”: due solitudini che si proteggono e si inchinano l’una innanzi all’altra.
Riccardo Peratoner e Marilena Garis
*In copertina: Baladine ‘Merline’ Klossowska, “Rilke che dorme sul piccolo divano di Muzot”, 1921, Salzburg Museum