02 Settembre 2023

“Com’è arduo per la parola passare dal sangue alla poesia”. Sulle cornacchie & le poesie di un verso di Ghiannis Ritsos

A Bonola, periferia milanese, regnano le cornacchie. Ciascuna tiranneggia sul proprio albero: grida, plana, cala. Saltella nel parco, la cornacchia, con la certezza che nulla può toccarla, tanto meno gli umani. Il silenzio, in questi luoghi, crea tunnel del dolore e del ricatto. Di sera, il cielo sembra una placenta: intuisci appena le folgori, la battaglia tra San Giorgio e il drago. Non pioverà. Un canto degli Ojibwa, nativi dei Grandi Laghi, dice:

tra gli uccelli
io porto la pioggia
Corvo è il mio nome.

Nel piccolo appartamento dove sono alloggiato, al settimo piano di un’androgina palazzina, c’è una biblioteca abbastanza fornita. Mi interessa il libro di Bernd Heinrich, La mente del corvo, edito da Adelphi nel 2019. Certo, non sono così stupido da ignorare la fatale differenza tra la cornacchia e il corvo. Si può dire che Kafka sia il corrispettivo – fisicamente – di questa differenza. In uno dei suoi aforismi ‘di Zürau’ scrive:

“Le cornacchie affermano che una sola cornacchia potrebbe distruggere il cielo. Questo è indubbio, ma non prova nulla contro il cielo, poiché i cieli significano appunto: impossibilità di cornacchie”.

In realtà, il cielo esiste in funzione del corvo – e la cornacchia, ostile al corvo, distrugge il cielo. La cornacchia chiacchiera; il corvo è maestro di intrighi, ascolta. La cornacchia ha un tono luterano: ha il rigore dei ribelli, è antipapista.

Di fianco alla palazzina spicca la Sala del Regno dei Testimoni di Geova. Accorrono in tanti. La costruzione si distingue dal resto degli abitati per una sobrietà anni Cinquanta: sembra una fattoria americana. Gli uomini vestono, per consuetudine, in camicia-cravatta-pantaloni; le donne indossano gonne lunghe e larghe, camicie tenui. Le automobili, di solito, sono di piccola cilindrata, modeste. Vaga analogia con gli amish. Il solo regno, qui, è quello delle cornacchie, che stanno ai corvi come i Visigoti di Alarico all’Impero Romano. Sono ghiotte di occhi umani, le cornacchie.

Nella zoologia biblica, il corvo ha un ruolo eminente: nel Salmo 147 è detto che Dio “provvede al cibo… dei piccoli del corvo (oreb) che gridano”. Il nome del corvo ha legami superficiali con il Monte Sinai, chiamato, appunto, Oreb. Secondo i nativi americani, il corvo è l’Hermes del cielo, “appare con i tratti ambigui e ingannevoli del trickster, del briccone e del truffatore, ma anche del Trasformatore, di quell’essere mitologico cioè a cui si devono i cambiamenti che hanno trasformato il mondo originario in quello che è oggi” (Enrico Comba). In particolare, per gli indiani Tsimshian della Columbia Britannica, il corvo avrebbe liberato la luce dalla sua prigionia (stava in una scatola, custodita nella dimora del Re dei Cieli) e insegnato agli uomini a domare il fuoco. Intorno al corvo, Crow, Ted Hughes scrive la sua opera più clamorosa, uscita da Faber nel 1970: è il tentativo di ideare una mitologia ex novo,

“come se ne potrebbe inventare dopo l’olocausto e la demolizione di tutte le biblioteche, quando le cose essenziali spuntano di nuovo – se spuntano – solo dai loro semi naturali”.

(così a Keith Sagar, novembre 1973)

Ingenuità-originarietà, disintegrare il museale rincorrendo il sorgivo, il nuovo, candore scandito da coltelli. Ted Hughes, tra i carismatici poeti del secolo scorso, si legge poco da noi: all’epico – la sua misura – preferiamo il confessionale – proprio della moglie di Ted, Sylvia Plath. Così, Crow possiamo leggerlo soltanto nel ‘Meridiano’ Mondadori che raduna le Poesie di Hughes, uscito nel 2008. Un piccolo disastro per chi voglia percorrere una propria ascesi lirica. A puro titolo di esempio – la raccolta è labirintica, segue gli astrali dell’imprevisto, l’astrologia di una ispirazione da istrione – così attacca Corvo racconta di San Giorgio:

Vede che ogni cosa nell’Universo
è una strada di numeri che corrono a una risposta.
Con gioia delirante, con agile equilibrio
percorre quelle strade. Crea un silenzio.
Surgela un vuoto,
decrea tutto a spazio siderale,
poi disfa i numeri. Le enormi pietre si aprono.

Mi sto lasciando trascinare. Vengo al punto, anzi, allo sketch. Due uomini attraversano un sentiero che da via Francesco Cilea, Milano, porta a Trenno. È quasi sera – il cielo ha artigli sulle vertebre. I campi sono nudi, estesi, cruenti. Le cornacchie calano a mucchi, hanno imparato a volare assieme, disoneste al loro individualismo. I due, chi scrive e Nicola Crocetti, trovano rifugio e scarno cibo in un bar. Il ritorno, al buio, con il cellulare come torcia – qualche cornacchia puntella di sé la notte.

Alla fine della fiera e del fiero lavoro, Crocetti mi regala un libro. È un testo pressoché introvabile di Ghiannis Ritsos, s’intitola Monocordi, cioè “336 poesie inedite di un verso tradotte da Nicola Crocetti”; stampa Scheiwiller con il marchio All’insegna del pesce d’oro, in cinquecento copie numerate, era il giugno del 1980. Il libro reca a fronte la versione greca, vergata da Ritsos: scrittura bizantina, di impeccabile leggerezza. Ritsos, tra i grandi poeti del secolo scorso, tra i grandi poeti greci di ogni tempo, ha sigillato un sodalizio inscindibile con Crocetti: a lui, scrive l’editore, “tanto devo, se non la mia passione per la poesia, molto di ciò che della poesia ho imparato”. Crocetti ha tradotto pressoché tutto Ritsos – sessanta raccolte?, centinaia, forse – e ha elaborato – così la intendo io – un’idea della traduzione-come-amicizia (o come ritorno in patria). Traducendo non ci si presenta, ci si fa parenti, i più prossimi; si bussa alla porta. In un libro fuori commercio, Il capolavoro mostruoso, ovviamente di Ghiannis Ritsos, stampato per festeggiare, nel 2011, i primi trent’anni della Crocetti Editore, l’editore scrive di aver tradotto, “al pari di molte sue opere”, insieme al poeta, “commentando i versi, commuovendoci o ridendo nel rievocare eventi tragici, ma anche lieti e giocosi, della sua tribolata esistenza, e di quella del suo (nostro) Paese; e, naturalmente, sciogliendo dubbi, prendendo appunti, ponendoci interrogativi”.

Monocorde non significa monotono. Vuol dire, stare su una corda: gioco di equilibrismo. Il monoscopio della poesia: tesa a dimostrarne il candore. Sulla corda, il poeta alterna periscopio e microscopio. Le poesie di un verso, tra l’altro, non vanno confuse con l’aforisma. L’aforisma richiede wit, intelligenza, dominio nell’analogia, semmai; l’aforisma vuole riassumere il mondo in una frase, una filosofia in una battuta. La poesia di un verso è frutto di illuminazione, domina sulle allusioni, non stuzzica l’intelletto ma lo stupore; non intende sintetizzare il mondo, è il passepartout abile a scatenarlo: vengano, allora, leoni, pentimenti, varia umanità. Dal singolo verso, risalire all’esistenza del poema: la lastra di roccia che affiora sulle acque è il ciglio di un continente. La poesia di un verso aiuta a orientare il giorno, sfinge sulle spalle del Minotauro.

Ecco alcuni Monocordi di Ritsos:

12 Per anni spada, per anni elemosina.

26 Una roccia la gloria, pur con tutte le sue ali.

30 Io e la mia sedia, – ce la contiamo bene.

46 Guarda nello specchio per copiare con precisione la sua morte.

54 Fino in fondo al baratro il ringraziamento.

56 Al crepuscolo ricordati delle statue.

60 Sangue nelle fondamenta d’ogni ponte.

74 Com’è arduo per la parola passare dal sangue alla poesia.

75 La poesia, dici, ha un senso. Un corpo ce l’ha?

122 Una stella bassa sul colle. E la donna annegata.

132 I segreti della luna devo dirli ai feriti?

167 Il monte, il mare e una ragazza nuda dietro i girasoli.

168 Per imparare a conoscere l’uomo devi scolpirne la statua.

227 La luna d’agosto piena d’alghe.

253 Come una mano robusta tiene un fiore.

264 La prima parola non fu sempre della poesia. L’ultima sempre.

273 Ma allora, l’inesistenza esiste.

276 Mettemmo una maschera d’oro alla vanità.

288 Dopo, ordinai per conto di Edipo occhi di vetro azzurri.

329 Tranquilli animali della notte, annusano le rose, camminano rasenti i muri.

336 Sappi, questi monocordi sono le mie chiavi. Prendile.

A volte, il fuoco di un’immagine istantanea, arretra nella finestra narrativa. Come i veri poeti, Ritsos ausculta il mondo, ne registra il respiro, perché non muoia.

E la cornacchia, cosa c’entra? Il primo dei Monocordi recita così: “Con un uccello per cuscino, per notti e notti veglio”. Quell’uccello a me pare un corvo, il sommo messaggero – o la sua contraffazione in cornacchia. Bisogna riferire i segni. In una piccola libreria di libri usati, per tre volte il Catechismo della Chiesa Cattolica cade ai piedi una donna. Segno che deve cambiare vita, che deve introdursi in monastero o che ha trovato finalmente il vero amore?

Gruppo MAGOG