Il viso è coperto dal rogo, da una nube di cui non si può aver paura, è fermo nella dose di bontà, nella commozione infante e forse ricercato nella malvagità, attore che infierisce e abusa, conscio di fallire, di potersi sconfiggere. Sono felici gli amici e infelici i nemici, folla anch’essi che può diradarsi. Sono i giorni bui e le correnti, un salto e si è come ieri, sempre nello ieri. Così l’opera di Giovanni Boine, l’urto tra disinteresse e assolutezza, la festività intransigente del suo frammento, il fatto della parola senza ufficio, la critica scriteriata di un risorto, non certo ordinaria, critica affabile o pallidamente battagliera, ma vera promessa di letteratura la cui lettera processa, combatte sul suolo totale della voce. Basti stringersi attorno ad una sua lezione di scavo e reclusione, di puntiglioso schema che si rompe nei punti, nei suoi assiomatici punti.
“Dove l’opera è viva, la critica se non vuol essere oscenità di stupro, limaccioso sbavamento di chiocciola su rose, rifacimento, contraffazione da scempie bertucce, deve umiliarsi ad esser commento dilucidatorio, a fornir, secondo i casi, dati eruditi o chiavi, grimaldelli limati e netti a penetrar il misterioso congegno dell’anime. […] L’intimità dell’opera d’arte me la godo da me; che sono buon maschio e non c’è bisogno di paraninfi o di eccitanti cantaridi”.
“Plausi e Botte”, 86 recensioni uscite sulla rivista Riviera Ligure e poi raccolte postume, come quasi tutta l’opera di Boine, nel 1918
Quasi una volgarità celata di bestemmia udita di lontano e risolta in impegno, logora benedizione. Dogmatico ferirsi nelle carte altrui in pochi minuti combattuti, col sentore di venirne stritolati, ripagati o spesse volte restandosene sulla porta con un bastone, col fascino potente di chi perde l’appetito.
Gli applausi concessi sono fragorosi, fraterni e le stroncature miserere innocui, ironici cedimenti, quasi dispiaceri perché la carta non è gerarca ed ogni vicenda ha il suo orrore. Insomma una conoscenza spesa in incoscienza, gettata come dono, come ubiquità di uomo senza storia, ora qui a citare ora là a dire l’originale. Boine si accanisce spesso, saggiamente anche dove non ce n’è reale traccia, contro le “marinettiane parole in libertà” perché il futuro non sarà mai una maniglia e “tutti i secoli sono in fondo gli stessi, anche se Marinetti ci fa dentro il futurista”. Di tutto quello scandagliare il verbo per fuoriuscirne più vacui, di tutta quella violenza muscolare restano troppe pretese e poche risate; non c’è lo scomparire, solo lo scoppio, il boato.
In realtà ad irretirlo ancora di più sono le polemiche, lo sterile opporsi, dire sì o dire no mentre si è alla guida della propria paura, del proprio scoraggiamento. Pure contrariarsi dinanzi al futurismo è un freno, meglio rovistare in basso, in alto, di lato, lasciare nelle mani disperse il proprio obolo. Uno fra i non molti scogli cui naufragare per assistere al miracolo Boine è quello di Sibilla Aleramo, che fu sua amante per un breve periodo. La vita di Sibilla fu più arcana della sua letteratura, purissimo lo scandalo, vizioso forse il suo scrivere ma per nostra fortuna traboccante di un credito, un trattatello che potremmo estrarre col guanto, scansando il gioco. Queste righe di salvezza sono raccolte più che altro nel suo ultimo romanzo, dal titolo esatto come mai n’ebbe a rivelare in precedenza: Il frustino (Mondadori, 1932). Nelle trame estenuanti del solito materiale affresca la figura di Giovanni Boine. Il frustino, regalatole da Rebora, rischiara il volto di questi amori e con un colpetto di certezza parla, per amor di spregiudicatezza:
“Ti ho detto il male e il bene. C’è qualcosa fra me e te per cui non è possibile la gioia della fusione. Ci legheremmo d’abitudine e di rispetto. Soffriremmo mutilati. Di sacrifici infecondi, basta. Ci resta poca vita, viviamo allo sbaraglio. Gemevo ma non ero povero”.
Non puoi sparare all’inaccessibile preda, i suoi denti come di inganno ti traversano e innumerevoli sono le sorti da carnefice, innocui i tradimenti della vittima. Gemevo ma non ero povero: non si fatica ad impaginare questa confessione con le altre tra quelle di Boine, nel sussidiario della sua povertà ricca, magnanima; povertà o siccità di un delicato che lacera, riscuote sapore di gengive rotte, sangue, colluttazione. Il sorpreso abominio di una possente unione: il desiderio, la voglia – battitura concessa ai nostri istinti – e poi un taglio alla gola del racconto, la fine sbracciata di chi si prende cura e osa ingannare. Della medesima offesa si macchia, ingigantendo il marchio, la parola di Boine.
La sua poesia è però poesia senza spazi, fatta di mugolii, vibrazioni, languori, totalmente riluttante alla decifrazione e compiuta nello spoglio di una sola opera: Frantumi, 1918. Una poesia di chi commenta e si augura ad ogni passaggio di ricomparire esatto, più esatto che non il verso precedente, quello posteriore; un essere pieni dell’attimo e di se stessi. Forse sapeva, nel suo accrescere, che dove non arriva il nostro occhio e l’orecchio la parola attraversa i territori turriti e non è più una pietra menzionata la sua ma l’accoglienza di un olocausto, l’avvenire che già inizia a incenerirsi.
Il colore di Giovanni Boine è il giallo, il giallo melassa, “ambiguo giallore”, “l’ardentissimo giallore” del tenore tisico, del bruciante piumaggio, allucinazione in più tocchi e più ritiri; giallo dilagato e umido, macchia non di sole ma di unto. La decrepitudine è snodo per chi disfa, dismette, emargina i metodi vivi per ospitarne di morti, nuovi morti. La palude è il luogo di questo giudizio capovolto, “finché l’anfratto verde, nero si fa”. Le cellule sono nel limite e crepitano scrosci, pozze, alghe, vi si tuffano non le mani ma le prese, i morsi, le ferite; la morte lascia il suo segno ma non si intrattiene e la vita si spreca, balena.
I suoi quaderni sono correzioni e ripetizioni, attività mista di risposte allo scrivere più che naturale scrivere. Scrivere un bisogno o torturarlo? Esigerlo. Cancellature, linee, chiose, sfregi, sono la zona bianca del foglio ma quella nera è più segretamente sollevata, un arbitro dell’interrompersi: a destra l’irreparabile della frase, a sinistra lo sgomento o meglio la volontà.
Fatalmente uno dei testi più abissali dei Frantumi è tra quelli ritrovati tra le carte dopo la sua morte dall’amico e editore Mario Novaro che si è occupato di consegnarne due versioni, entrambe battute col legno duro ma brucianti di schegge poste all’ombra una dell’altra, similari solo dal desiderio di opporsi, di parere estranee. Entrambe perfette, rissose nell’espressione dei contrasti, nel sogno di agonia; ora orali ora scritturali, ora apocrife ora scritte di pugno per quel che sapevamo, quel che era da sapere.
“Ed ora, dentro dentro, il denso è impenetrabile! Nessuno più saprà (nessuno!) che mostro vi si celi né in che antro. Il fiato di caverna, respiro muto, esala: farà d’intorno un abbandono secolare. Il volo cauto degli uccelli passerà lontano ratto, come dall’albero tropicale dei veleni: – lo starnazzo triangolare delle spettrali giù, le frecce nere-stridule delle fughe dei rondoni, come il sonnifero ronzio delle mille api quando a cerca fanno l’estate elementare”.
I cespugli è bizzarro, Frantumi, versione A
“Ed ora dentro dentro, ora dentro, – il denso è impenetrabile! Nessuno più saprà (nessuno!) che mostro vi si celi né in che antro. Questo fiato di caverna, respiro di terrore che ne esala, farà d’intorno un abbandono secolare. Il volo cauto degli uccelli passerà lontano ratto, come dall’albero tropicale dei veleni: il sonnifero ronzio delle mille api quando fanno a cerca l’estate elementare sarà agli orizzonti di paura lo starnazzo in fuga delle spettrali grù”.
I cespugli è bizzarro, Frantumi, versione B
Il ritmo e il corpo scoordinato nel microgrammo del frantumo sono per Boine elemento e vita vissuta, fame accatastata e risospinta al di dentro, alla medesima foce. Nella repetitio le valvole possono sembrare quelle di una macchina ma è l’animale atletico, l’animale nel fosso o nella partita, le carni che si riallacciano alla babele dei gesti.
Un fatto però urge, non sa risolversi, ed è il Boine mistico o meglio il Boine privo di patti chiari con la mistica. Quello seduto sulla sedia senza sapere quando alzarsi a gridare, quello che si bacchetta da solo con senso d’orgoglio e di colpa, che si pente senza schizzar via da quella sua opacità. Parla e non pare esserne fortificato, è scontento del discorso, di ogni dibattito, ma si perde volentieri, sa dove sono la fine e l’inizio, gira e rigira umile nel tanto, troppo ragionamento. Cresce però l’insofferenza quando salta l’accordo col tempo. Che basti scrivere “mistico” sopra un oggetto, “sacro” sopra un concetto per compiere il rinnovamento? Ma quale rinnovamento e da quale stazione? Decide così di non muoversi dalla sua angoscia e scrivere di cose disperate che lo fulminano. Non bastano San Giovanni Della Croce, Calvino, Pascal, non basta quel considerare tutto un romanzo, un idillio, uno sfarzo, e il politico arenarsi nella parola insopportabile di chi operò nel silenzio. Che si preferisca insomma il rimasuglio e le asprezze al religio da strombazzata che diventa da borsetta. La tradizione è meglio non rinnovarla che è tutto un conato di novità, resta sempre rozzo il dogma, non si può affinare. Questa forse fu la sua più intima morale – quella che in fondo non rigetterà mai nel tutto rigettare –, morale di antidiluviano con le doglie, pratica solo per uomini di sogno, netti, semplici, con tra le mani veri strumenti e oggetti; una morale di ordine tutto polposo, fatta più che di rinunce di colpi al mondo e a se stesso.
Se l’azione è peccato e resta l’esperienza, l’opposta scorribanda al fare, la città è il luogo dei dadi lanciati, un fato concreto che è fatto per sciogliersi. La città dove si leggono nuove correnti, si stampa la carta e gli amici non sono mai ignoranti. Ma sull’ultimo libro stampato, un certo impedimento tutta questa ronda lo lascia e l’origine, il ripiego del cuore, restano gli ulivi, la casa antica dei padri ormai svenduta, Porto Maurizio, quella Liguria montana che intuisce il mare, lo sconfina dall’alto e che comincia proprio con lui, per immalinconirsi ancora più nell’ostile Montale.
Perché sì, Boine è forse l’erede sacrificale di tutto il Novecento, volto mappato maldestramente nell’albero genealogico, trasferito da un padre vociano ad una madre espressionista; con voce esile nominato ma sempre riproposto, palpato segretamente. Sono molti, troppi i suoi discepoli per essere richiamati, essi stessi inconsapevoli d’averlo ereditato. Quasi che gli eventi, più che i poeti, peregrinarono per lui, gli eventi rotti della parola poetica, nel suo lento pentirsi durante il secolo. Sono trenta gli anni da contare, esattamente conclusi nel maggio 1917, e un’infinità di bocche ancora da sfamare, orecchie ora qui incollate ad ascoltare Giovanni Boine.
“Ce l’ho coi libri ora che ingrasso. Che senza libri non si sia uomini? E se io ingrasso non sarò più un uomo? Basta libri, basta libri dico (e questa la è una cosa banale, da scolaro in vacanza), dico lo stesso che non voglio più leggerne, che rinunzio a farne, ch’io mi ribello a questa coltura di libri, a questa serra calda di libri a cui s’è ridotta l’intelligenza nostra. […] Facciamo dunque l’uomo una buona volta. L’uomo intelligente, non l’intelligente tecnico il tecnico dell’intelligenza”.
Ragionamento al sole, 1912