02 Luglio 2024

“Sarai sempre futuro per i poeti”. Murilo Mendes tradotto da Ungaretti

Un tempo, Murilo Mendes era figura nota ai cultori del verso. Nato nel maggio del 1901 in Brasile, di quell’infinito Stato è uno dei poeti più importanti. Lirico di straziante precocità, studi a Rio de Janeiro, disse – e dal dato s’intuisce una poetica – che le muse della sua poesia sono state due: la cometa di Halley, avvistata da bimbo nel 1910, e Vaslav Nijinskij, il formidabile ballerino russo, di cui aveva ammirato un’esibizione nel 1917. Dunque: armonia e fragore, leggiadria e brillante barbarie, cultura e moti del cosmo si coalizzano in un dire – dicono i critici – che somma, parlando per didascalie, il surrealismo francese e il barocco di Spagna. In sintesi, secondo Ruggero Jacobbi – che ha tradotto le opere apicali di Mendes in Italia, tra cui La metamorfosi, Lerici, 1964 – egli “è una delle figure più singolari e più note della fase di alta maturità del ‘modernismo’ brasiliano”.

La notorietà, diciamo così, di Mendes, è andata scemando: il parterre editoriale italiano fa a meno di lui da anni. Eppure, i legami tra Murilo Mendes e l’Italia sono non soltanto sentimentali ma sostanziali: dagli anni Cinquanta, infatti, il poeta si trasferisce in Europa, dal ’57 è insegnante di letteratura brasiliana alla “Sapienza” di Roma, poi a Pisa. Nel 1972 gli fu assegnato l’Etna-Taormina, premio andato, prima di lui, ad Anna Achmatova, Mario Luzi e Lawrence Ferlinghetti e dopo di lui a Ghiannis Ritsos e a Rafael Alberti, tra gli altri.

L’ultimo spicchio di vita il poeta lo passa in Portogallo: morirà a Lisbona, nel 1975. A sintetizzare il suo legame con l’Italia, la raccolta Ipotesi, scritta in italiano, elaborata per anni, stampata da Guanda nel 1977.

“Poeta di svolgimento impetuosamente rettilineo, pur nella varietà di toni del suo torrenziale canzoniere, Murilo si è visto appiccicato addosso, dai critici, molte etichette: cattolico, surrealista, barocco, metafisico. Ma basta analizzare il senso che in Murilo assumono, uno per uno, tali aggettivi, per scoprire la parte che non cede, l’imponderabile e direi la violenza della sua vocazione”.

Ruggero Jacobbi, Un poeta brasiliano e la “seconda Europa”, in: “L’Europa Letteraria”, 4, ottobre 1960

Il punto ulteriormente cruciale della vicenda poetica di Murilo Mendes è il legame con Giuseppe Ungaretti. Il poeta nostro traduce un poemetto di astrale potenza, Finestra del Caos – riprodotto in calce – edito da Scheiwiller nel 1961 con il marchio All’insegna del pesce d’oro. Elegantissima edizione in azzurro – colore non casuale: si legga il testo – con bandella esplicativa: “un grande poeta brasiliano tradotto da Giuseppe Ungaretti”.

Siamo all’altezza del Taccuino del vecchio, e non ci vuol molto – spigando in rete altre traduzioni di Mendes o, meglio, gli originali – a capire il genio del traduttore. Ungaretti s’inabissa nei boschi del suo linguaggio, in compagnia di Murilo Mendes a fargli da lampa; dove il brasiliano è assertivo egli lo rende ieratico, ‘classico’; dove l’uno è ‘moderno’ l’altro trova slanci d’assoluto. Così, un poemetto ‘esistenziale’ ha i toni dell’inno mistico, un’arsura da ultimo giorno. I toni, in sostanza – alcuni esempi: “Enigma, barbara innocenza/ Uccelli che galoppano gli elementi”; “Vediamo il cielo solo dal rovescio”; “Senza pennacchi l’anima/ Resiste al Distruttore?” – ricordano l’antico, miliare poema di Ungaretti, La pietà. La sintonia d’intenti non scatena vampiri: Ungaretti rispetta la propria lingua e quella in cui si accuccia; ne viene un viaggio ultramondano, un’avventura di venti – si vedano anche le sue traduzioni da William Blake e da Saint-John Perse.

Nominato innumeri volte al Nobel per la letteratura – nel 1955 perfino da T.S. Eliot, ma quell’anno il premio andò all’islandese Halldór Laxness – Ungaretti, come si sa, insegnò in Brasile, a San Paolo, dal 1937 al 1942. Da lì, il rapporto speciale del poeta con i lirici di quel paese, tradotti a lungo (da Mário de Andrade e Oswald de Andrade ai ‘classici’ come Gonçalves Dias); amava, tra l’altro, l’opera e la silhouette di Clarice Lispector. Qualche anno dopo di lui, la poetessa americana Elizabeth Bishop si trasferirà in Brasile: lei e ‘Ungà’ condividono lo stesso giorno natale, l’8 febbraio. Bisognerebbe ‘misurare’ la possanza di luoghi come il Brasile nell’opera di certi poeti: il miraggio-giungla, l’umanità senza confini, il verde a fucilate; ma si sa, ci sono geografie minori, a questo mondo, recinte nel pregiudizio, e spesso restiamo proni alle letterature ‘dominanti’, senza appello al sé.

Il genio di Ungaretti non cede al solfeggio, alla sofia dei versificatori d’ufficio: le sue traduzioni hanno le zattere e le zampe, impegnano al viaggio.

In Brasile, secondo i ricordi del critico Antônio Cândido, Ungaretti voleva divorare ogni cosa: la grandezza e la miseria, il mito e il male.

“Una volta siamo andati a visitare il Lebbrosario Pirapitingui, vicino a Sorocaba… Il direttore gli raccontò lo strano caso di una donna di Sorocaba, che viveva sola con dei barboni lebbrosi, sempre incontaminata perché immune alla malattia. Ungaretti si entusiasmò e volle per forza andare in quella città per conoscerla”.

Chissà cos’è allora la poesia: rammendare la pena degli incurabili, abitare nel lebbrosario; chissà se è la lebbra o chi della lebbra è immune.

***

Finestra del Caos

I

Tutto succede
In Egitti d’aerei ambulacri,
In gallerie senza lumi
In attesa che Qualcuno
Faccia vibrare il violoncello
– O il tuo cuore?
Azzurro di guerra.

II

Telefonano di pacchi
Telefonano lamenti
Incontri inutili
Noia e rimorsi.
Ah! che il conforto telefonerà
La rugiada pura
E la vettura di cristallo.

III

Non caricasti piani
Né caricasti pietre,

Ma nell’anima tua sussiste
– Niuno ricorda
L’udirono le antecedenti spiagge –
Il canto dei caricatori di piani
Il canto dei caricatori di pietre.

IV

Il cielo cade dalle colombe
Echi d’una banda di musica
Si sono mossi a volo da una casa di trovatelli.

Non sarai un antenato
Per non avere avuto figli:
Sarai sempre futuro per i poeti.

Di lontano il mare ridotto
Che bela innocente.

V

Armonia del terrore
Quando l’anima distrugge il perdono
E il ciclo dei fiori si chiude

Nei particolari ed in genere:
Nessun suono di flauta,
Nemmeno un tempio greco
Sopra l’azzurro colle
Muoverebbe al gesto del recupero.

Fame, litorale privo di cori,
Duro sgravarsi della morte.
La terra si apre in sangue
Abbandona il bianco Abele
Da Dio tenuto occulto.

VI

L’infanzia viene dall’eternità.
Soltanto dopo la morte magnifica
– Annientato il bavaglio:
E se a volte l’avessi già intravisto
Quando ti trastullavi con la trottola
O quando demolivi lo scarafaggio.

Tra due eternità
Si fanno equilibrio stupendo
Fame d’amore e musica:
Rude dolcezza,
Ultimo libero passaggio.

Vediamo il cielo solo dal rovescio.

VII

Dalle ombre delle piramidi cade
Questo desiderio di oscurità.

Enigma, barbara innocenza,
Uccelli che galoppano gli elementi.

Dal cielo fondo
Irrompono nuvole equestri.
Dove sono i bracci comunicanti
E i paracadutisti della giustizia?
Forme corazzate presiedono
Il sabotaggio delle arpe.

VIII

Tutti aspettano quale cosa?
Il vento dei reati notturni
L’augusto raccolto distrugge.
Acque aspre feroci
Fertilizzano i cimiteri.
Le madri espellono dal ventre
I fantasmi dell’altra guerra.

Nessun segnale d’alleanza
Sulla mensa annientata.

Onde purpuree
Allontanatevi dall’uomo.

IX

Dell’anima pennacchio
Antica tradizione del futuro:
Senza pennacchi l’anima
Resiste al Distruttore?

X

Velocità si oppone
All’essenziale nudità.
Per meritare che vengano rotti i suggelli
Occorre si operi alla corona di spine
Se non ti lasciano solo per il mondo
Coi cadaveri dei tuoi libri.

XI

Pendolo che il compasso segui
Del disinganno e della solitudine,
Fa posto ai tubi dell’organo sovrano
Che va oltre il tempo:
Pulsare dell’umanità
Che dall’origine alla fine
Cerca tra tedio e lacrime,
Con la misera carne
Tra collari di sangue
Tra incertezze ed abissi
Tra fatica e piacere
La felicità.
Oltre i mari, oltre i cieli
Dall’origine alla fine
Oltre la notte, i cullanti
Cori sereni di mischiate voci
Di speranza fonda e bianca armonia
Vanno salendo.

Murilo Mendes

Traduzione di Giuseppe Ungaretti

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