
La lezione animale. I bestiari di Gianna Manzini e Piero Polito
Letterature
Blu Temperini
È spenta quest’epoca, in etimo “scolorita”, “non più dipinta”: perché alla realtà, pur presente, non è ridata la sua gloria. Gianfranco Lauretano si espone, nel suo più recente lavoro poetico (Questo spentoevo, Graphe.it Edizioni 2024, collana Le mancuspie, diretta da Antonio Bux), in termini artistici ma anche spirituali, proponendo una nitida visione del mondo.
L’opera di Lauretano nasce nella dichiarata affezione per il “miracolo” della poesia di Giorgio Caproni; di cui al poeta, in una nota in coda al volume, piace ricordare alcuni carismi e destrezze che, va detto, parimenti lo riguardano: leggiadria cadenzata e tintinnante nel dettato essenziale, cenni e richiami ritmici e cromatici di elegante esilità; la propensione a una “continua e feconda disseminazione metrica e fonetica”, che induce prolungati flussi di senso: toni e timbri distendono nei versi dei due poeti graduali riverberi di percezione, che oltrepassano il baricentro tematico, per portarsi oltre: quasi un fenomeno fisico di capillarità vegetale, in cui la parola è vivente e autonoma, foriera di risonanze inesauribili.
Ma, nella poesia di Lauretano, oltre alle prelibatezze stilistiche c’è di più. Se Caproni conduceva la sua ormai proverbiale, incessante “guerra d’unghie” al cospetto del “muro della terra”, e l’Onnipotente veniva pregato “d’insistere – almeno – d’esistere”; se poi, il Male era già – come sempre lo è – monotono, “senza fantasia” e il “dono” peculiare a ogni vivente aveva origini nebulose, e non era recuperabile se non nella “spina della nostalgia”, ebbene in Lauretano il punto di vista sembra cambiare sensibilmente verso una presa di coscienza e un’assunzione di responsabilità che nulla hanno a che vedere con la passività interiore: lavoro compatto, di gran tempra, atletico per bellezza e portamento morale, Questo spentoevo diserta i toni della recriminazione e dello sconforto, per spostarsi nell’intento creativo, nell’azione sorgiva e tutta interna di fare del proprio cuore ancora lo specchio della luce di Dio.
Il poeta prende parola invocando una figura tutelare, materna, che sia sorgente pneumatica e lucente, impalpabile Eleusa di soccorso nella grazia:
“Vieni
in virtù di queste braccia
tese, come una brezza
fanne ali stese, madre
mia ti supplico col residuo
di energia disperdi la paralisi
che mi strazia e tienimi in quel
grembo pieno di grazia”.
Evidente come la condizione di partenza della voce poetante sia quella di una creatura annichilita di fronte a un molteplice ossessivo e inautentico, al lutto di ogni bellezza, al trionfo dell’opacità: la materia, nel suo frammentato mutismo, è terreno accidentato che ci separa dall’origine.
Tuttavia, in Lauretano, sembra esserci una percezione intima e costante di quella luce increata che, se pur inaccessibile per essenza, è presente per grazia, secondo il ritmo inesauribile di distanza e adesione che San Gregorio di Nissa chiamava epectasi: polarità energetica e vivificante tra instasi, infinita prossimità partecipabile, ed estasi, o tensione d’amore all’inaccessibile.
E proprio d’amore scrive il poeta, non d’altro, e lo fa come fosse preghiera: perché l’amore si scrive e si legge da solo, è vivo, acceso come un’orazione che, detta, si posa nelle tenere cripte del cuore, dandosi in pura luce; “fino a che non più l’uomo prega ma in lui si prega, così come in lui si pulsa e si respira” (Campo). Accade così che, nelle concavità dell’ascolto e della resa, dopo il corpo, la ragione con i suoi sofismi, il “fiume nero” delle pulsioni, riaffiori un’integrità tenue e palpitante: che risponde, esaudisce, unifica nel vero:
“Ma dopo l’abisso, la pelle
e la morte, l’io e l’agone
che impegna notte e giorno
qualcuno ancora pulsa
un me lontano soffia
qualche indizio raro
da una vita. Vivo e vegeto
sgorga di continuo
e ricompone corpo e anima
si danno una ad una
le risposte, dove io
non è più solo”.
Persino il male è infermo in quest’epoca attutita, senza misericordia e senza coraggio, in un weiliano illimitato, che, nella sua orizzontalità, si traveste da infinito, negandolo. Era della quantità, del simulato bene, che è solo tiepida demagogia, mancanza di qualunque sincero ardore, idolatria di un progresso lineare che, nel suo acefalo incedere, si riduce a uno scientismo meccanico: precipite, sacrilego verso la vita.
La vera scienza è guidata da ingegni accesi, da un dinamismo buono che pone in custodia il mistero, contemplando l’essere nella sua complessità, senza desiderio di dominio o annientamento. Il ricercatore che percepisce lo Spirito è vigile, nella nepsi costante: tiene sempre aperto il canale tra coscienza e santuario del cuore; sente la creazione vibrare di gloria, tendersi tutta verso l’origine, dove un amore immobile emana verità: accarezza l’universo col suo intelletto, e lo offre incessantemente a Dio, “come su un altare” (Mystagogie, 23, PG 91, 697 D., rip. in Clément, Serr).
Quest’epoca è spenta perché nega il sublime con ironia e cinismo, nelle tortuosità di una ragione che manca di luce interna; anche Giacomo Leopardi, chiamato in causa nell’opera in veste d’interlocutore sulla beltà, aveva notato, nel suo Zibaldone di pensieri, che una ragione che prescinde dalla devozione approda al meschino, tenendo in uggia il sublime:
“…com’è nemica della grandezza così è nemica della profonda e vera bellezza, e con lei, come tutto è piccolo così tutto è brutto e arido in questo mondo”.
Laddove invece, inscritti nelle gravitazioni della fede, “i moti dell’intelligenza purificata sono voci mute che cantano, in segreto, una salmodia all’invisibile” (Isacco di Ninive, Discorsi ascetici, I. L’ebbrezza della fede, Città nuova, 1984).
Quando corpo e cuore sono resi trasparenti nella kenosi, quando il respiro dell’uomo si fa dimora dello Spirito e gioia della ripetizione incessante del sacro Nome, nel dardo al cielo (Campo) che rende vivo l’istante e avvolge in rinnovato riparo, ecco che la ragione evita le parole vane, e il volto è nello splendore, nudo su infiniti campi di pace: l’intelligenza purificata di umiltà non tradisce, perché è inondata di limpida essenza, annuncia inesausta il bagliore della propria sorgente.
Certa virtù inferiore è una immagine degradata del bene: il bene come contrario del male – Simone Weil lo intuì con esiziale profondità – è propaggine del male stesso; fintanto che lo sguardo sul mondo non si elevi al luogo altissimo dove il tranello dell’io tace, e viene data realtà ad altri esseri e creature; accordando al prossimo esistenza più ripida e urgente della propria.
Questa chiave di volta apre la via durissima, eppure dritta come una freccia, che tutto raccoglie nel vertice della sintesi. Rende ragione di una bellezza caduca, micidiale di splendore e abbandono, che rimane il più grande umano quesito: nella sete di assoluto amore, il fulgido sfarzo del creato, se non percepito come riflesso del Volto, è un perenne graffio di mancanza: avvenenza che senza posa muore, macabro incanto, nel commiato di ogni istante:
“Cara Beltà, falla finita
di incarnarti in queste
occhiate e se non sei tu,
davvero tu, non essere
promessa della vita
in quello che ha virtù
di morte. Non sono
creatura di un attimo
fuggente e non sono
forte e ciò che m’ama
deve farlo definitiva-
mente e ogni frase
indirizzata a me
come se fossi il solo
mi ossessiona il petto
eternamente”.
Ma in Lauretano “l’eterno viene in una brezza”, e l’uomo che lo avverte va oltre i barbagli di luce che feriscono il cuore. “Tutto pregava, tutto cantava la gloria di Dio” dice il Pellegrino russo, riportato dalla preghiera di Gesù alla percezione riunificata e benedetta dell’esistente: via da ogni chimera, l’orante diviene un piccolo, gioioso sacerdote del creato.
Se Dio si è frammentato in una materialità dolente, sul cui travaglio fa discendere lo Spirito, forse è perché qualcosa di cosciente risalga le vie della luce, quelle verticali, che non conoscono i criteri di numero e quantità, ma operano in un ordine di rapporti completamente diverso, dove il metro non è la forza, ma la fiducia nei superiori equilibri, nelle bilance invisibili (Campo) dell’amore. Benedetto allora il senso di perpetuo allarme che scandisce questo spentoevo: “Per fortuna / il cielo di piombo non promette / niente di buono, per fortuna / succede qualcosa che non so”.
Ancora Cristina: “Quando vedrai cielo e terra oscurarsi, tuffa le mani nell’acqua”. Tuffare le mani in ciò che è vivo, e trasparente. Tentare piccole bellezze che lascino passare lo Spirito. Considerare che l’arte, pur non conoscendo la verità, “può darne notizia in simulacri che siano all’altezza dell’uomo” (Morasso); e quanto alla veglia, alla vastissima pazienza che richiede, e ortogonale fiducia; quanto all’attesa fattiva, che raduna e vivifica, presentissima nelle opere e nei giorni di Lauretano, esse non cedano – sembra dire il poeta – alle epoche spente che disertano il sacro e il simbolo. Ancora Massimo Morasso, facendo ecfrasi a William Congdon, così riflette:
“Secondo me, la perdita del senso del sacro e del suo simbolismo non decompone né l’arte né l’umano nell’uomo. Sta nel cuore stesso dell’evento antropologico che l’uomo, frazionato tra le antinomie della coscienza, non riesca ad aprirsi che in rari momenti di intuizione profonda alla luce delle idee che stanno oltre il bordo vertiginoso delle cose mediante la finestra del simbolo. Si è sempre in deficit, il compimento del progetto di umanizzazione cui siamo chiamati è sempre, da sempre, di là da venire. Perfino l’assenza di Dio, oggi come ieri, è uno dei modi della presenza divina che più corrisponde alla nostra libertà”.
Per chi tenta di dare voce all’invisibile, la bellezza è ontologica: pienezza d’essere, splendore del vero; la compiutezza formale ha in questo il suo valore intrinseco, non ornamentale ma rituale, liturgico.
Allora è necessario dirlo: che in Lauretano, come nel suo invocato maestro novecentesco, i versi sono “ariosi”, vele nel celeste, eppure gravi a tratti, e molto seri, così pieni di precisione e coraggio. Quel “mirabile equilibrio di grave e lieve”, quell’articolare il linguaggio secondo fedeltà a suono e senso, che reca valore, e fa “nitida resa di canto”: tutta mozartiana, come Stefano Verdino rilevava per Caproni.
La poesia qui è delizia di sfumature, amabile armonia:
“Settembre giallo, luminoso
pieno di decoro, mese bello
estivo defraudato da un credito
autunnale, immotivato
(per qualche foglia con la profezia
del vento prossimo, del ballo!)
settembre arancione, senza male
mese dell’inizio vero, del lavoro
il tuo splendore, il tuo mistero
sia ridato, l’onore del tuo sole”.
Ma è il messaggio di Lauretano che commuove: un sottovoce di preghiera ininterrotta che, come in Clément, dell’universo sente la liturgia, della storia il travaglio, e nei volti vede le icone dell’umano tutto:
“Dio è là da quelli
che sanno l’unità
li raduna e se li fa
rassomigliare, tutte
quelle piccole trinità”.
L’artista, il poeta, ha ridato al reale la sua gloria: accordando il proprio respiro al Nome, risvegliando quel sole interiore che accende e ridipinge: e già vede oltre questo spentoevo, vede lo “scalpore” di un verde che rinasce, a seminare, nell’irriducibilità del bene della vita: nel valzer dei millenni, la storia umana, ancora e ancora, nello scandalo della speranza.
Isabella Bignozzi
*
Ho detto per errore «Signore»
senza neppure pensare di dirlo.
Il nome di Dio, come un grande uccello,
è volato via dalla mia gabbia… (Osip Mandel’štam)
Gesù non devo dirti niente
volevo solo far cantare
il nome
e che il suono
evocasse lo splendore
del volto
e vibrasse
la potenza del cuore
e la musica
delle sante sillabe
scardinasse la pagina
scrivendo l’universo
tu vero autore.
**
Testi consultati:
Gianfranco Lauretano, Questo spentoevo, Graphe.it Edizioni 2024, collana Le mancuspie, diretta da Antonio Bux
Giorgio Caproni, Tutte le poesie, Introduzione di Stefano Verdino, Garzanti 2018
Massimo Morasso, Essere trasfigurato, Una lettura teologica dell’opera di William Congdon, Edizioni Qiqajon, comunità di Bose 2012
Olivier Clément, Jacques Serr, La preghiera del cuore, ÀNCORA EDITRICE 2015
Isacco di Ninive, Discorsi ascetici, I. L’ebbrezza della fede, Città nuova, 1984.
Giacomo Leopardi, Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, Le Monnier, Firenze 1921
Simone Weil, L’ombra e la grazia, introduzione di Georges Hourdin, traduzione di Franco Fortini, Bompiani 2017
Cristina Campo, Il mio pensiero non vi lascia, Lettere a Gianfranco Draghi e ad altri amici del periodo fiorentino. A cura di Margherita Pieracci Harwell, Adelphi 2012
Cristina Campo, Sotto falso nome, a cura di Monica Farnetti, Adelphi 1998
Racconti di un pellegrino russo, introduzione di Cristina Campo, traduzione di Milli Martinelli, Bompiani 2014
*In copertina: Odilon Redon, Cristo, 1887