Il Poeta è un essere che non si è mai pienamente acclimatato ai compromessi del mondo, alle trappole del contingente. I poeti sono testimoni dell’invisibile che ci parlano di una realtà ‘altra’ ed emanano la loro luce al pari di astri spenti che anche esaurito il loro ciclo vitale irradiano ancora qualcosa del loro fulgore. Il poeta ‘laureato’ cessa in automatico di essere poeta perché si istituzionalizza: il poeta è sempre in qualche modo un essere spaesato, a disagio nei confronti del mondo, con cui non riesce mai a giungere veramente a patti.
A costo di riproporre un trito stereotipo, la follia è spesso compagna e ancella del poeta, da Torquato Tasso ad Alda Merini, e anche il poeta che forse meglio simboleggia la modernità, Arthur Rimbaud, che cosa fu nella sua parabola biografica se non un folle, un angelo caduto, un passeggero in Terra che in pochi anni ha dischiuso un nucleo immenso e inarrivabile di potenza lirica per poi disperdersi come mercante di armi e di schiavi nella più romanzesca e improbabile delle vite?
A tale schiera di angeli caduti e di esseri disagiati e incompatibili col mondo appartenne di certo anche la più grande poetessa persiana moderna, Forugh Farrokhzad, di cui la Lindau pubblica ora meritoriamente l’opera in versi, seguita dalle interviste e dalle lettere d’amore di Forugh come Tutto il mio essere è un canto (a cura di Faezeh Mardani, con una prefazione di Maria Grazia Calandrone). Morta in un incidente d’auto a soli 32 anni nel 1967 in una via di Teheran, nella sua brevissima parabola (segnata anche dalla parentesi dell’esaurimento nervoso e delle cure estreme cui fu sottoposta) Forugh attraversò il mondo smarrita e sospesa in una bolla di purissima concentrazione lirica, di un’intensità che fa impallidire perfino il corrispettivo occidentale cui è stata accostata, quello di Sylvia Plath.
Figura straordinariamente complessa ed eclettica, involontaria creatrice della Nouvelle Vague cinematografica iraniana, fu regista di un unico brevissimo film, La casa è nera, ambientato nel mondo straziante dei lebbrosari iraniani, che lei definì in un eccesso autocritico “un film stupido e molto acerbo” e che in realtà è un piccolo capolavoro, autentica estensione filmica della sua lirica dolente.
Forugh desiderava sottrarsi alla categoria di poetessa: considerava l’aspetto femminile naturale ma, quanto ai meriti dell’arte, sosteneva che il genere non avesse assolutamente alcun ruolo. Considerava ovvio che una donna desse attenzione a certi aspetti e a certe pieghe dell’animo grazie alle sue naturali inclinazioni fisiche, emotive e spirituali, aspetti che magari gli uomini non colgono, ma ribadiva nettamente che se chi sceglie di esprimere il proprio Sé nell’arte lo fa avendo in mente il proprio genere non compirà mai progressi in arte.
Quel che conta, per Forugh, è che l’opera sia prodotta da un essere umano, con tutto il suo bagaglio di sentimenti e con l’unicità della sua persona, che non va etichettata come uomo o come donna. Per prima sgombrava il campo da ogni possibile equivoco e fugava la facile retorica del femminismo artistico.
“È naturale che la mia poesia abbia aspetti femminili, sono una donna. Per fortuna sono una donna! Quando si tratta di criteri adottati per una valutazione artistica non ha alcun senso parlare del genere. È naturale che una donna, per le proprie condizioni fisiche, sentimentali e psichiche, sia interessata a questioni che sono meno rilevanti per un uomo; la visione femminile, in molti casi, si differenzia da quella maschile. Chi si esprime attraverso l’arte deve superare i limiti della propria appartenenza al genere, sia maschile che femminile, altrimenti resterà ingabbiato in questo cerchio. Non lo trovo giusto. Se pensassi di dover sempre parlare della mia femminilità mi sentirei finita e incapace di crescere, sia come poetessa sia come donna”.
“Ciò che conta è l’individuo, poco importa che sia uomo o donna. Quando una poesia raggiunge questa maturità non importa chi l’abbia scritta; appartiene al mondo della poesia, ha il proprio valoro ed effetto che va oltre il poeta”.
Le sue poesie furono bandite in Iran (che definì “una terra in rovina, colma di morte, di umiliazione e di vacuità”) dopo la rivoluzione islamica e proprio tale bando ne alimentò involontariamente il culto, che perdura ancora oggi, con stuoli di giovani poeti e ammiratori che si ritrovano ogni anno, nell’anniversario della sua morte, leggendo i suoi versi sulla sua tomba nel cimitero di Zahiroddoleh a Teheran.
Il culto tributato a Forugh ha alimentato tuttavia anche alcuni equivoci, portando ad insistere proprio su quel ‘femminismo’ che lei rigettava, insistendo su ragioni contingenti ed estrinseche (la ribellione dei giovani contro l’Iran degli ayatollah) piuttosto che su intrinseci motivi legati all’essenza della sua arte, alimentando così il cliché della poesia di protesta, cui Forugh è irriducibile.
Forugh è in un certo senso l’anti Emily Dickinson, avversando profondamente la reclusione in una stanza per guardarsi dentro, il viaggio attorno alla propria camera di poeti che hanno escluso preventivamente il mondo. Forugh sostiene invece la necessità di riscoprire il mondo interiore proprio al di fuori di noi, immergendosi nel magma della gente e della vita in quanto la poesia nasce dalla vita (il senso che intendeva anche Goethe quando scrisse che ogni poesia è poesia d’occasione).
“Tutto il mio essere è un canto”: i suoi versi sono una deflagrazione di liricità pura, un distillato di sensibilità umbratile e squisita che la pone tra i grandi poeti del secolo, così come le sue meravigliose lettere d’amore si collocano tra i vertici di tale genere nella letteratura di ogni tempo e nazione. Viene da fantasticare su un esercizio di storia controfattuale, immaginando che cosa avrebbe prodotto Forugh se non fosse morta prematuramente e il fiore della sua poesia fosse seguitato a sbocciare anche nell’Iran degli ayatollah. Avrebbe compromesso il nucleo della sua lirica proprio indulgendo alla poesia di protesta o avrebbe proseguito la sua traiettoria intatta, esente dalle maculazioni del mondo?
Impossibile rispondere. Quel che sappiamo in concreto leggendo i suoi versi è che Forugh si riannoda all’anelito amoroso della poesia persiana antica ma ricongiungendosi al contempo all’esperienza della modernità. Al dire di Forugh la poesia moderna persiana si distacca da quella antica in quanto in essa è impossibile valutare un verso separato dal resto. Nella lirica antica certe schegge poetiche sono distaccabili ed estrapolabili portandole al carattere epigrammatico e condensatissimo di un haiku mentre nella lirica moderna di cui Forugh è la massima esponente tale operazione risulta impossibile.
La sua vena lirica è sensuale ma costantemente protesa verso un afflato panico, tra lo smarrimento amoroso e l’insistito tarlo della morte. A un certo punto si definisce come “poetessa del peccato” e “prigioniera dei sensi”: le esperienze carnali, il tripudio delle sensazioni sono il basso continuo della sua lirica ma si trasfigurano in perpetuo nella verticalità di un’aspirazione superiore, che la eleva oltre la gabbia della carne e dei sensi e, appunto, oltre l’orizzonte troppo facile della pura protesta e della pura rivolta.
La poesia costituisce per lei il solo approdo, l’unico punto fermo nell’universale naufragio. “La poesia è l’uomo che scorre dentro la poesia”, nasce dal pulsare febbrile della vita, dal brulicare di una realtà di cui vanno sperimentati anche gli attimi più dolorosi e grotteschi. Il desiderio di fusione con la totalità la porta a smemorarsi nell’evocazione dell’amplesso carnale come nella pulsione verso la morte (parlerà di “passione della morte”).
“Avrei voluto nascere in una foresta e accoppiarmi con la natura”.
Il non-essere dell’essere amato, dice Forugh in una delle sue meravigliose lettere, è eterno mentre il suo essere è provvisorio, impalpabile, inconquistabile.
“Il tuo essere è un evento che accade solo nella mia immaginazione e nella mia mente. Quando si potranno colmare di sogni queste mani fatte di carne e di ossa?”.
Nei brevi appunti del suo viaggio in Italia a un certo punto Forugh si reca a visitare i Musei Vaticani e in quel luogo è visitata da un’Epifania in cui le si dischiude la fede profonda dell’eternità dell’arte. L’arte nasce nel tempo degli uomini, in un preciso humus spazio-temporale e in una precisa cultura ma il mistero dell’arte e del suo sorgere aurorale non può essere disciolto pienamente da alcuna ricognizione con pretese troppo scientifiche. Nella stessa cultura germinano Forugh, che raggiunge vertici assoluti della poesia moderna, e verseggiatori mediocri, puri mestieranti, e così è per ogni epoca e per ogni folgorazione poetica, che è sempre rigorosamente individuale, mai davvero appartenente a una scuola o a una corrente.
Nata nel contingente, l’arte si innalza sopra il contingente e quando raggiunge certe altezze siderali si sottrae definitivamente alla temporalità, diventa atemporale perché ha raggiunto un Assoluto, e allora si misura unicamente con il Tempo di Dio. Per quello l’idea di una progressione in arte è una mera illusione, una caligine che offusca lo sguardo di chi gode dell’opera, un velo di Maya che impedisce di scorgere i poeti nella loro assolutezza e nella loro irriducibile individualità.
In Forugh l’essenza più pura e sorgiva della cultura e della poesia persiana moderna si riannoda al lascito immenso dell’Iran preislamico, suggerendo che tra i poeti antichi e quelli moderni vi è una continuità sottile di temi e di forme, qualcosa che si è inabissato per secoli ma che ha continuato a scorrere carsicamente senza mai perire, approdando, appunto, all’inaudito, calcinante splendore di queste liriche.
Alessio Magaddino