16 Aprile 2024

“Il selvaggio lamento delle loro bocche straziate”. Poeti in guerra

Nel 1929, a dieci anni dalla fine della Prima guerra, Vallecchi pubblicò un libro dal titolo straziante: Antologia degli scrittori morti in guerra. Salvo alcuni – Scipio Slataper, Renato Serra, Umberto Boccioni – è una lapidaria sfilza di ormai ignoti: De Pava; Fauro; Borsi; Picardi; Costanzi; Castellini; Petraccone; Cambini… Pare un triste rintocco di campane. Nino Oxilia, torinese, regista, crepuscolare, dalla bellezza diafana e sprezzante, cantava “è la vita una battaglia/ è il cammino irto d’inganni”: morì falciato da una granata, sul Monte Tomba, in Veneto, il 18 novembre del ’17.

Quanto a memoria storica e a lignaggio lirico, siamo inermi rispetto ai sudditi d’Albione: i “Poets of the First World War” sono ricordati in un memoriale infisso a Westminster, con nomi trafitti nel marmo. Alcuni di questi – Robert Graves, Ivor Gurney, Wilfred Owen, Rupert Brooke – sono tra i poeti in lingua inglese più potenti del secolo. All’epoca Primo lord dell’ammiragliato, fu Winston Churchill a creare il ‘mito’ di Rupert Brooke: del poeta, altrimenti cauto e inquieto, degno figlio di Keats, morto di setticemia nel 1915, mentre navigava verso i Dardanelli, fece un martire. I versi di una sua poesia – The Soldier: “Se dovessi morire, pensate solo questo di me:/ Che c’è un angolo di campo straniero/ Che sarà per sempre Inghilterra” – divennero utile biada per le truppe, inselvatichite dalla vita di trincea. Usavano gli uomini come carne da cannone e i poeti come cibo per propaganda.

Ad ogni modo, dopo la Prima guerra, la letteratura europea cambiò per sempre. Nacquero, dal massacro, opere miliari, di irripetibile fragore, dalla Terra desolata di Eliot a Viaggio al termine della notte di Céline; dall’Ulisse di Joyce alle poesie di Montale e di Ungaretti. L’assunto trova conferma in Sulle rovine d’Europa, libro curato con impeccabile slancio da Raoul Precht, che raduna “Poeti tedeschi e francesi della Grande Guerra” ed è edito da Ares come ideale pendant al libro sui War Poets inglesi (uscito nel 2022, a cura di Paola Tonussi). Il libro è anche uno spaccato di storia (tragica) della letteratura europea: per galvanizzare il gioco, evito gli autori notissimi, Apollinaire, Aragon, Breton, Cendrars e Drieu la Rochelle (nato come “poeta di guerra”, le sue due uniche raccolte in versi, belliche, Interrogation e Fond de cantine sono state pubblicate dalle edizioni Magog nel 2022 come O il maschio o la morte, per la cura di Annalisa Crea).

Scopriamo, così, l’opera di Peter Baum, morto a 47 anni “in azione sul fronte lettone”: ai suoi occhi le bombe sono “sfere di luce fatte di pelo arruffato di tigre”, hanno lo “sfarzo del predatore colorato, che scintilla nell’oscurità”. Erich Kästner, poeta di cui si occupò Walter Benjamin, pacifista, opta per toni sarcastici:

“Siamo andati a letto con le donne
mentre i loro uomini erano in Francia.
Pensavano che sarebbe stato più bello.
Ma non eravamo che cresimandi.

Poi ci hanno chiamati per il militare,
ma solo come carne da cannone”.

Fu obbligato al fronte diciottenne; in era nazista, i suoi libri passeranno al rogo, insieme a quelli di Zweig, Brecht e Thomas Mann.

Il nobile Marc de Larreguy de Civriex, figlio dell’alta aristocrazia francese, muore nel 1916, a ventuno anni, poco lontano da Verdun; nella “nuda beltà” delle “foreste dell’Argonna” intuiva l’inferno di Dante: “gli alberi tormentati dalla guerra…/ protestano contro lo stanco cielo!”.

Faccio mie le parole di Filippo Tuena poste a principio del libro: la guerra non è garanzia di alta letteratura, il sangue versato non rende grandi poeti, il patriottismo non fa affari con le questioni estetiche:

“Il rischio di morire non migliora l’arte, al massimo la rende necessaria per chi la pratica”.

Quando si è con la morte in fronte, d’altronde, non si recita un sonetto di Shakespeare: impetrare perdono, ringraziare, dire “ti voglio bene” sono abbastanza per glorificare una vita intera. È vero, tuttavia, che la nostra letteratura, per natura, è iliadica, nasce sotto le mura di Ilio, è retta da parole ormai usurate come ira, coraggio, assedio, rischio. La Prima guerra, così, ci ha dato un poeta tra i più gradi di ogni tempo, Georg Trakl. Morì a Cracovia, intossicato di cocaina, nel novembre del 1914; Ludwig Wittgenstein lo aveva da poco eletto, insieme a Rilke, tra i rari beneficiari di un’eredità affidata a poeti di genio. La battaglia di Grodek, in Galizia, gli ispirò una delle poesie più note:

“Risuonano di sera i boschi d’autunno
D’armi letali, le pianure dorate
E i laghi azzurri su cui si srotola
Più cupo il sole; la notte avvolge
Guerrieri moribondi, il selvaggio lamento
Delle loro bocche straziate”.

Con la Seconda guerra, muterà tutto. Il poeta – avveniristico interventista o cantore d’abisso – non serve più: è l’epoca, a piena messe commerciale, del romanzo – ne dico, sparsi, alcuni: Il nudo e il morto di Norman Mailer, Il partigiano Johnny di Fenoglio, Mattatoio n. 5 di Kurt Vonnegut, Vita e destino di Vasilij Grossman – e del cinema, soprattutto. Tra i rari, talentuosi poeti di quella guerra, Alun Lewis scrive una poesia, Odi et Amo, in cui esprime, drasticamente, la distanza tra il sé e la storia, tra necessità e anima: “Il mio corpo non sembra il mio/ Ora. Queste mani non sono le mie/ Che toccano la molla del grilletto, né i miei occhi/ Intenti su un bersaglio umano” (cito dalla traduzione di Annalisa Crea). La poesia sull’orrore dell’assassinio termina con un urlo d’amore, con un inno alla gioia:

“La mia anima grida il suo amore
Per tutto ciò che freme e nuota e vola
…E i fiori dell’estate mi sbocciano sul capo
Con tutta la bellezza intollerabile dei morti”.

Inviato a combattere in Birmania contro le forze dell’esercito nipponico, Alun Lewis si uccide alle cinque e mezza del 4 marzo 1944, presso le latrine degli ufficiali. L’esercito dichiarò che si era trattato di un incidente. Il poeta, ormai, non era soltanto inutile; era diventato un problema.

**

Cartolina postale

Ti scrivo da sotto la tenda
Mentre muore questo giorno d’estate
In cui sboccia come folgore
Nel cielo appena azzurrato
Una cannonata scintillante
E sfiorisce prima ancora d’esser stata

Guillaume Apollinaire

*

Soldato

M’illumino con le lampade di Aladino, poche
aurore
mi allarmano: da cui il sole che erode. Le crepe
di una roccia lambiscono la sua dolce coppia d’occhi
in pianto.
Oscura l’epoca Rimbaud
nelle foreste… Fuoco al daino!
spesso tradito da un ventre illuminato,
il crepacuore dei nostri ritornelli copre
                             una palude.

André Breton

*

Coro dei prigionieri

Non siamo solo prigionieri dietro il filo spinato,
Siamo anche avvolti nella notte dello spirito.

Noi, già cinti di luce e oggi dimenticati,
Divenuti spettacolo glorioso per i sanguinari!

Un tempo eravamo fra gli audaci,
Ora gemiamo sotto il giogo dell’odio di sangue.

Un tempo ci burlavamo dei cupidi vanitosi
E oggi ci abbassiamo alla stessa cupidigia.

Eravamo giudici e giudicando distruggevamo,
Ma ora a tutto rinunciamo, privi di volontà.

Nelle baracche di legno noi sepolti siamo accovacciati,
Mentre sublimi sono i morti sopra di noi.

Yvan Goll

*

La battaglia sulla Marna

Le pietre prendono lentamente a muoversi e a parlare.
L’erba s’irrigidisce a verde metallo. I boschi,
bassi e fitti nascondigli, divorano colonne lontane.
Mistero bianco come calce, il cielo minaccia di scoppiare.
Due ore colossali si riducono a minuti.
Si dilata il vuoto orizzonte.

Il mio cuore è grande come Germania e Francia messe insieme
ed è trafitto da tutti i proiettili del mondo.
La batteria ruggisce forte per sei volte
verso la campagna. Ululano le granate.
Silenzio. In lontananza gorgoglia il fuoco della fanteria,
per giorni, per settimane.

Wilhelm Klemm

*

Per Gerhard Lepsius († 20 luglio 1915)

La notte era più scura del solito. –
La mitragliatrice laggiù dietro la siepe
(spesso così rozza nel farsi beffe)
stavolta non rideva.
I cannoni dormivano.
Il cielo scorreva, uno scuro, morbido uccello
molto solenne e lento.
Sotto le sue ali le sfere luminose che volevano cacciarlo
cadevano pallide in terra.
Allora seppi –: TU sei… morto.
(Da qualche parte qualcosa urlò il tuo ultimo grido.
Da qualche parte qualcosa ingaggiò la tua ultima lotta.)
E quando alzai lo sguardo, la luce nel mio rifugio si era spenta –
Uscii fuori. Rabbrividii. E piansi.

Edlef Köppen

*I testi sono tradotti da Raoul Precht e tratti da: “Sulle rovine d’Europa. poeti tedeschi e francesi della Grande Guerra”, Edizioni Ares, 2024

*In copertina: Blaise Cendrars (1887-1961) nel 1916

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