Carlo Michelstaedter (1887-1910) ha ormai trovato uno spazio certo nella tradizione filosofica non solo nostrana: lo dimostrano la presenza sempre più frequente del Goriziano nelle storie della filosofia, le tesi di laurea a lui dedicate ed una bibliografia critica ricca e attenta, oltre alla traduzione in varie lingue dell’opera maggiore, La persuasione e la rettorica. Ma se il pensiero costituì l’approdo più maturo a cui Michelstaedter giunse durante gli anni fiorentini, visto da un’altra prospettiva esso può apparire come un ripiego, al quale Carlo fu costretto dalle circostanze. Testimonianze epistolari e biografiche attestano infatti quanto il giovane amasse disegnare fin da giovanissimo. Secondo Paula Michelstaedter era questa la più spiccata propensione di suo fratello, un’attitudine che a partire dall’adolescenza divenne un bisogno irrinunciabile: su quaderni scolastici, libri, ritagli di carta, tovaglioli e, in mancanza di questi, persino sui tavolini dei caffè di Gorizia Carlo tracciava con la matita i suoi rapidi segni, realizzando ritratti fulminei e divertite caricature.
Concluso il liceo a Gorizia Carlo si iscrisse, nell’estate del 1905, alla facoltà di matematica di Vienna, ma decise poi di trasferirsi a Firenze, città nella quale frequentò la facoltà di lettere e filosofia presso il Regio Istituto di Studi Superiori, a partire dal novembre del 1905 fino al 1909. Quello fiorentino fu un periodo cruciale nella vita di Carlo, durante il quale fu concepita l’opera filosofica per la quale egli è maggiormente noto. Tuttavia dalle lettere che Carlo scrisse alla famiglia a partire dal giorno della partenza per il capoluogo toscano, il 22 ottobre 1905, emerge con chiarezza che al centro dei suoi desideri e delle sue speranze non c’era affatto la filosofia, né tantomeno l’università, bensì il disegno e a pittura. Nella valigia egli portò con sé i pennarelli, i colori, gli album pieni di schizzi a matita. Il 23 ottobre a Venezia Carlo visitò una dopo l’altra l’Accademia, Palazzo Ducale e l’Esposizione; uscito dall’Accademia acquistò un bruno Van Dyck, con il quale completò la gamma cromatica dei suoi oli. A Padova il 25 ottobre vide la Cappella degli Scrovegni. Il 27 arriva a Firenze; il 29 visita gli Uffizi. Alla fine di quell’ottobre 1905 Carlo non sapeva ancora quale sarebbe stato il suo futuro, non sapeva che presto avrebbe frequentato l’università di Firenze: in quei giorni in realtà non aveva alcuna intenzione seria riguardo lo studio delle lettere classiche e della filosofia, si sarebbe iscritto a un corso di studi solamente perché quell’iscrizione gli avrebbe permesso di accedere a tutte le gallerie d’arte della città; e quando un conoscente sembrò procurargli tale permesso Carlo scrisse in una lettera: “che bella cosa sarebbe. Allora non m’iscriverei certo all’università”. Da queste testimonianze epistolari emerge quanto l’arte fosse per il giovane goriziano il pensiero dominante.
Nei primi giorni di novembre Carlo cercò una sistemazione che gli permettesse di giustificare agli occhi della famiglia la sua permanenza a Firenze: provò a entrare nella redazione del settimanale locale Cyrano come caricaturista, poi alla libera scuola del nudo. L’epistolario tace sull’esito di queste prove, ma è lecito supporre che sia stato negativo se il 10 novembre Carlo si recava ad ascoltare una lezione di Pio Rajna presso l’Istituto di Studi Superiori e se a tale Istituto si iscrisse nel dicembre successivo.
Contemporaneamente a tutto questo, agli slanci e alle frustrazioni delle prime decisive settimane a Firenze, Carlo disegnava continuamente e dovunque, secondo quella che era divenuta un’abitudine, ritraendo familiari, compagni, conoscenti, estranei incontrati per caso in strada o in un locale, oppure ricopiando a matita opere d’arte note, particolari di statue o dipinti, come testimoniano le esercitazioni dalle quali emerge una già matura capacità manuale e la dedizione profusa nello studio della figura classica. Il disegno era ciò che all’età di diciotto anni egli sentiva come vocazione autentica: dalla sua pratica scaturiscono entusiasmo, e soprattutto le prime anticipazioni di una visione del mondo alla quale Carlo avrebbe poi dato forma filosofica negli anni successivi, in particolare nell’ultimo anno di vita.
Il risultato di questa attività, una mole impressionante di disegni e caricature che non ebbero alcun riconoscimento da parte della cultura del tempo e che solamente a partire dagli anni Settanta ha iniziato ad essere rivalutata in Italia, costituisce una sorta di laboratorio nel quale prende forma per la prima volta il sentimento di una realtà duplice, animata da istanze contrapposte e inconciliabili tra loro, quelle che più tardi Carlo avrebbe definito persuasione e retorica in altri ambiti del suo lavoro. Se si tralascia questa prospettiva diacronica e ci si concentra esclusivamente sugli esiti filosofici più maturi cui il Goriziano pervenne nel 1910, allora l’opera grafica e pittorica risulterà un liminale corollario all’attività speculativa, piuttosto che il luogo da cui è partita una riflessione sull’esistenza che sarebbe poi stata definita in termini concettuali: è infatti nei disegni e nei dipinti che si delinea per la prima volta l’idea michelstaedteriana del linguaggio come critica radicale e irriducibile, come guerra alle convenzioni sociali, culturali, guerra alla vita stessa, alla parola che di essa discorre. È da una personalissima intuizione del linguaggio come pòlemos che il segno caricaturale scaturisce, spontaneamente espressionistico; è alla luce di questa idea che esso evolve, giungendo in pochi anni ad esiti di rivoluzionaria modernità, denotando una spiccata, sorprendente vicinanza, per sensibilità ed esiti formali, con l’avanguardia espressionista tedesca del gruppo Il ponte, contemporaneo a Michelstaedter ma con cui il Goriziano non ha avuto in realtà alcun contatto. Basti citare, a tal riguardo, il ritratto che Carlo fa all’amico Vladimiro Arangio Ruiz, un olio su cartoncino dal titolo Rivelazione.
La figura è statica, frontale, nessuna azione, né narrazione, né storia: domina un’atemporalità senz’atto, un presente che si eterna nella quiete. Questa sospensione del tempo è figurativamente raggiunta attraverso la perfetta, antinaturalistica frontalità del corpo, di cui Michelstaedter riconquista e interpreta il significato. La visione frontale, molto diffusa nell’arte sacra medioevale o nell’arte cosiddetta primitiva, è stata in Occidente progressivamente abbandonata a partire dal Rinascimento; tuttavia in epoca moderna il suo impiego resta frequente in Oriente, nell’arte della Russia ortodossa, nella pittura sacra delle icone. Nel ritratto di Vladimiro Arangio Ruiz, Carlo adotta il punto di vista frontale per rappresentare il compagno di studi con il quale era solito intrattenere, durante il periodo fiorentino, accese discussione filosofiche e letterarie sui classici greci, su Schopenhauer e Nietzsche: un amico fraterno, mosso dallo stesso senso critico di Carlo nei confronti della società e dalla stessa passione per la filosofia e la ricerca della verità. Il ritratto vuol rendere proprio l’immagine del pensatore, nell’accezione etica che è cara al Goriziano di testimone vivente delle proprie idee. La figura è immobile, il corpo una sagoma appena distinguibile dal fondo scuro, un pretesto al fiorire della grande testa. Il volto è il centro del dipinto, il punto verso cui converge lo sguardo dell’osservatore, l’uso di cromie chiare fa sì che esso emerga in modo netto rispetto al resto: la luce gelida bagna soltanto il volto, ne sottolinea i tratti, gli occhi, l’espressione. Non è una luce naturale, proveniente da una fonte definita: è il volto stesso la fonte che produce questo bagliore freddo, denso, materico, che fende l’oscurità come un lampo improvviso. L’uso antinaturalistico del chiaroscuro mette in evidenza i particolari del volto: la bocca contratta quasi in una smorfia, come per un eccesso di tensione; la fronte precocemente stempiata, sormontata da un’esplosione di capelli; lo sguardo, intensamente fisso, verso il quale convergono le pennellate, sguardo dal quale l’intero quadro sembra scaturire; gli occhi, il vero centro del dipinto, rivolti fuori, a un tu cui testimoniare la verità del proprio esserci.
Nel corso degli anni il linguaggio artistico di Michelstaedter evolverà in questa direzione, entro un orizzonte che si chiarirà progressivamente, anche alla luce del formalizzarsi dell’idea michelstaedteriana di persuasione, fino ad assumere i connotati di un pensiero che si traduce in figure, autoritratti, paesaggi. Sarà proprio un dipinto l’ultimo sigillo apposto al corpus michelstaedriano, un paesaggio realizzato nella notte del 15 ottobre 1910, un dono per la madre che avrebbe compiuto gli anni nel giorno in cui il figlio si sarebbe tolto la vita con un colpo di rivoltella esploso in testa: distaccato, quasi oracolare, come quelle massime in greco antico con cui Michelstaedter amava riassumere i suoi ragionamenti, il quadro ritrae una natura che si rasserena, una luce più chiara, sotto un cielo impassibile e vuoto.
Luca Campana