
“In tutti voi si annida il demone della distruzione”. Anton Čechov, lo scrittore ambientalista
Cultura generale
Diana Mihaylova
Domenica mattina ho ripreso a leggere dal punto dov’ero arrivato il Diario del caos di Antonio Moresco, risalente agli Anni Ottanta, diario del cantiere di lavoro da cui sarebbe venuto fuori il romanzo Canti del caos, romanzo spartiacque della letteratura italiana se la letteratura italiana si fosse accorta di quello che le era successo ma la letteratura italiana ha continuato a girarsi attorno mentre Moresco ha continuato a spingersi più avanti, facendo fatica lui stesso a oltrepassare la frattura provocata da Canti del caos – nella mia esperienza da suo lettore solo nella terza parte di Canto di D’Arco (Le città di confine) è riuscito a varcarsi ulteriormente,
“Adesso c’è un impressionante silenzio, il silenzio che può esserci solo dove non c’è nient’altro che luce, dove la luce, arrivata al diapason della luce, ha mangiato la luce”.
La pagina di Diario del caos letta domenica mattina cominciava con:
“Nell’inferno (aldilà): È stato diminuito un po’ alla volta il carico dei disagi. […] C’è il problema di non proiettare un’immagine troppo negativa di questo luogo…”.
Ci ho ripensato stamattina guardando nell’occhio vetrificato dalla morte del gatto di sbieco sul marciapiede. Passeggiavo, me lo sono ritrovato sdraiato davanti, dieci passi più avanti: che gatto pacioccone!, ho pensato; che gatto fiducioso che non si tira su e scappa, che non piega a cuspide la schiena soffiandomi contro, ho pensato quando i passi erano cinque. Poi ero in piedi davanti a lui e il gatto ha continuato a restare immobile, a non fremere, a ignorarmi poiché ormai apparteneva alla dimensione della morte, della completa indifferenza. Che grande tristezza guardare il corpo abbandonato del gatto sconosciuto, ancora intatto, soffice; la fissità della morte lo aveva come scolpito in un ghiaccio polare, il piccolo corpo dell’animale morto era diventato una fabbrica nucleare di gelo. Era lì e già non era più lì. Il corpo senza vita era già il suo fantasma.
Incontri un gatto morto per ragioni sconosciute e avverti la minaccia e l’insostenibilità della morte, la tensione tattile del rischio e dell’inganno di sottofondo a ogni forma di vita, di fronte ai quali bisogna decidere quotidianamente e continuamente tra la paralisi e il salto, la ritirata o il fronteggiamento. Questa mattina, mentre io incontravo la morte di un gatto senza storia, che catastrofe domestica, trascurabile, rimuovibile, tutt’attorno, a scale via via più grandi, continuavano a consumarsi le peggiori ingiustizie e violenze, così come continuano adesso che ricordo e che scrivo del corpo sottozero del gatto morto sotto il sole insistente di un ottobre caloroso. Esclusione, sopraffazione, guerra, madamine il catalogo è questo. Eppure il grande orrore su cui siamo tenuti in costante aggiornamento non è altrettanto angosciante, insostenibile, paralizzante, dell’occhio vetrificato di un gatto morto incontrato dal vivo.
L’orrore non lo incontriamo per davvero, non ci viene fatto incontrare. Ha ragione Moresco, aveva ragione nel Diario del caos, ci raccontano l’inferno ma ci raccontano un inferno diminuito, meno carico di disagi, è consentita un’immagine non troppo negativa poiché se ci fosse restituita per quel che è non potremmo continuare a viverci come se non fosse l’inferno. Dovremmo decidere se arretrare o fronteggiare il male generale che ci facciamo stare bene non facendo praticamente nulla, complessivamente nulla, per denunciare quanto male ci faccia stare. Dovremmo decidere cos’è l’inferno e come vogliamo vivere al suo interno o, se no, cosa non è inferno. Decidere se abbiamo concluso che non esista altro spazio possibile al di fuori di questo inferno o se esiste la possibilità di un caos al di fuori dell’inferno, un caos da plasmare per dare avvio a una storia differente della specie. Per venir via dall’inferno bisogna passare dal caos. Perché l’inferno continui a essere inferno basta non sia raccontato come l’inferno.
Come scrive Moresco nel Diario del caos: l’inferno, se ci metti l’aria condizionata, può sembrare abitabile, meglio del niente che invece è. In Allah 99, di Hassan Blasim, romanzo sul prosaico inferno quotidiano in Iraq, viene ricordato un verso “del poeta americano Cummings, che recita: Non essere morto non significa essere vivo”. Tra l’altro che differenza può mai fare essere vivi o essere morti se non c’è nessun altro luogo possibile, nessun’altra destinazione possibile, se non l’inferno che stiamo vivendo, in cui ciascuno si aggrappa al suo girone con l’unica speranza che si concede di non dirupare in quello di sotto?
L’inferno non gode più di pessima pubblicità, non ce ne si fa più una immagine troppo negativa, l’inferno non è neppure più l’inferno, se non fosse per l’occhio vetrificato di un gatto che non respira più, di sbieco su un marciapiede. All’inferno lo si trova sempre un tavolo per le trattative e dare una fetta di ragione a tutti, quella più grossa a chi non l’ha mai avuta. L’inferno non è neanche più l’inferno se viene trovato il modo per farci sentire a nostro agio all’inferno, nella bambagia di una scatola di Schrödinger.