10 Ottobre 2019

Ian McEwan imita Kafka e s’inventa un primo ministro come scarafaggio. Il primo capitolo del nuovo romanzo, “The Cockroach”

Gli inglesi vanno in delirio per gli scarafaggi, siano essi beetle o cockroach. In particolare di questi tempi, in attesa kafkiana, quando non sanno dove batter la testa, fanno affidamento ai romanzieri, alle penne titolate. Le quali sappiano scrivere “c’è un potente disinganno, una paura crescente e scricchiolante dell’ignoto, ansietà riguardo quel che la gente ha votato, quel che hanno scatenato”. Uno come iAN McEwan sa scrivere queste cose.

Si è fatto carico di prendere di peso la realtà di Brexit a tre anni dalla strana disfatta (data minima per romanzare sugli eventi). Ne ha cavato un romanzo – The Cockroach, Lo scarafaggio, del quale ha dato un’anticipazione a Guardian. Sta bene, è il giornale progressista dove per anni ha lavorato sua moglie – ma il lavoretto è grazioso e regge alla grande. È la storia di uno scarafaggio che attraversa le vie fatidiche di Londra per arrivare alla sede del governo e per… ricevere il caffè della segretaria, riacquistando le forme umane di Prime Minister.

Con la metamorfosi ha riacquistato una serie infinita di nozioni (cos’è il Galles, quant’è buono il blue bottle con vermuth bianco e campari…) ma in compenso ha perso tutte quelle qualità animalesche fatte di “vasta e istantanea unione con l’interezza della sua specie”, quella “risorsa senza contorni, infinita, costituita dall’oceano di ferormoni”. Aggiunge McEwan, nei dialoghetti alla fine dell’estratto, che il suo Prime Minister è comunque rapidissimo a licenziare i suoi collaboratori: “alla fine riuscì a ricordarsi appieno qual era sua missione designata”.

Qui leggerete l’inizio di The Coackroach. Il finale che abbiamo omesso è sicuramente divertente ma dà per scontato troppa anglicità per riuscire diretto. Eccovi un esempio.

“Quel che amareggia” disse Simon, “di questi tipetti passati per le scuole private è il loro senso di avere tutti i titoli. A parte lei che ci è stato ma è un’eccezione”.

“Liscio. Il piano?”

“L’ha detto lei. Allontanati di un passo da loro e ti gridano addosso. Dagli quel che vogliono e ti pisciano in testa. Andrà tutto a carte quarantotto col nostro Progetto, questa è gente che critica tutto e tutti. Soprattutto Lei”.

Impossibile rendere al giusto modo. I tipi delle scuole private di cui si tace il vero nome, pieno di storia (tories) e ormai vuoto di senso. E poi quel passaggio da you a Lei che altera in modo gerarchico un dialoghetto, in origine, rocambolesco e dignitoso. Ma che finirà anch’esso a scatafascio. Il consigliere Simon verrà licenziato dal Prime Minister nel giro di qualche battuta.

Bianchi & Rovellini

***

Lo scarafaggio

Quella mattina Jim Sams, intelligente ma non certo geniale, si svegliò da sogni inquieti per scoprirsi tramutato in una creatura gigantesca. Per un po’ stette coricato sulla schiena (non la sua posizione preferita) a rimirare con costernazione i suoi piedi distanti e l’esiguità dei suoi arti. Quattro soltanto, per la precisione, e piuttosto difficili da muovere. Le sue piccole gambe marroni, delle quali cominciava a sentire la mancanza, si sarebbero a questo punto agitate per aria, tanto entusiaste quanto inutili.

Rimase immobile, deciso a non farsi prendere dal panico. Un organo umidiccio, un pezzo viscido di carne, occupava la sua bocca – disgustoso, specialmente quando si muoveva da solo per esplorare la vastità del suo cavo orale. Con muto allarme lo sentì scivolare su un’infinità di denti. Fece scorrere lo sguardo lungo il corpo. Dalle spalle alle caviglie era colorato di un azzurro pallido, con note blu attorno al collo e ai polsi, e una fila di bottoni bianchi nel mezzo del suo torace non segmentato. Da quest’ultimo usciva un soffio intermittente, accompagnato da un odore per nulla sgradevole di cibo in decomposizione ed etanolo, che riconobbe come il suo respiro.  Il suo campo visivo era insopportabilmente ridotto (cosa avrebbe dato per degli occhi composti!) e ogni cosa al suo interno era sovraccarica di colore. Cominciava a capire che per uno scambio grottesco la sua carne vulnerabile si trovava ora fuori dal suo scheletro, che gli era quindi completamente invisibile. Che sollievo avrebbe provato nell’intravedere quel familiare marrone iridescente!

*
Tutto questo già lo preoccupava abbastanza, quando nel destarsi del tutto si ricordò che aveva una missione, un compito importante e solitario, anche se al momento non rammentava in cosa consistesse. Farò tardi, pensò mentre tentava di sollevare dal cuscino una testa che doveva pesare più di cinque chili. Non vale, si disse. Non me lo merito. I suoi sogni frammentari erano stati profondi e agitati, infestati da aspri echi di voci tutte in dissenso. Solo quando la testa gli ricrollò sul cuscino cominciò a vedere oltre il velo del sonno, e gli tornò in mente un mosaico di memorie ed intenzioni che si disperdevano non appena provava a trattenerle.

*
Sì, aveva abbandonato il decadente ma piacevole palazzo di Westminster senza nemmeno un addio. Così doveva essere. La discrezione era fondamentale, lo sapeva anche senza istruzioni al riguardo. Ma quando, esattamente, se ne era andato? Certamente quando fuori era già buio. La notte precedente? Quella prima ancora? Di sicuro era uscito dal parcheggio sotterraneo. Passando dall’entrata principale avrebbe dovuto superare gli stivali lucenti dei poliziotti. Ora ricordava. Tenendosi al bordo della strada, era sgattaiolato fino al terrificante incrocio di Parliament Square. Davanti a una fila di veicoli immobili ma impazienti di schiacciarlo sull’asfalto, si era precipitato verso un tombino sul lato opposto. Dopodiché, gli era sembrata passare un’eternità prima di attraversare nuovamente una strada terrificante per raggiungere l’altro lato di Whitehall. E poi? Aveva percorso velocemente molti metri e si era fermato. Perché? Ora gli tornava in mente. Respirando pesantemente da ogni via aerea del suo corpo, si era riposato vicino a uno scarico e aveva fatto uno spuntino con un avanzo di pizza. Non era riuscito a mangiarla tutta, ma aveva fatto del suo meglio. Guarda caso era una margherita, la sua preferita. Niente olive, non su quella fetta.

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Scoprì che la sua pesantissima testa poteva ruotare di 180 gradi con poco sforzo. La girò da un lato. Vide una piccola camera da letto mansardata, illuminata dalla fastidiosa luce mattutina, poiché le tende non erano state tirate. C’era un telefono al suo fianco; anzi, due telefoni. Il suo sguardo ristretto superò il tappeto per arrestarsi sul battiscopa e lo stretto spazio lungo il suo bordo inferiore. Avrei potuto infilarmi là sotto, lontano dalla luce del sole, pensò tristemente. Avrei potuto essere felice. Dall’altra parte della stanza c’era un divano; accanto, su un tavolo basso, un bicchiere di vetro e una bottiglia vuota di scotch. Stesi su una poltrona c’erano un abito e una camicia ripiegata e lavata. Su un tavolo più grande vicino alla finestra c’erano due grossi fascicoli, uno sopra l’altro, entrambi di colore rosso.

*

Cominciava a capire come muovere gli occhi, ora che intuiva che avrebbero sempre ruotato all’unisono. Scoprì che la lingua poteva essere comodamente riposta all’interno della sua bocca piena di bava. Orripilante, ma meglio che lasciarla penzolare oltre le labbra, dove di tanto in tanto gli gocciolava sul petto. Stava acquisendo la capacità di indirizzare le sue nuova membra. Imparava velocemente. Ciò che lo turbava era la necessità di occuparsi degli affari. C’erano decisioni importanti da prendere. All’improvviso, un movimento sul pavimento attirò la sua attenzione. Era una piccola creatura, proprio del tipo che lui era stato, senza dubbio l’inquilino precedente del corpo che ora abitava. Con un certo interesse protettivo stette a guardare mentre l’insetto minuscolo lottava con i fili di moquette per raggiungere la porta. Sulla soglia esitò, con le antenne gemelle che si agitavano incerte per via dell’inesperienza. Alla fine si fece coraggio e si infilò sotto la porta per iniziare una discesa difficile e pericolosa. Il cammino per il palazzo era lungo e ci sarebbero state molte insidie lungo la strada. Ma se lo avesse compiuto senza essere schiacciato dai piedi avrebbe trovato, dietro i pannelli dei muri o sotto le assi del pavimento, sicurezza e conforto tra milioni di suoi fratelli. Gli augurò buona fortuna. Ora però doveva occuparsi delle sue faccende.

*
Eppure Jim non si mosse. Nulla aveva senso, qualsiasi movimento era inutile finché non fosse riuscito a ricostruire il viaggio e gli eventi che lo avevano portato in una camera da letto sconosciuta. Dopo quel pasto fortuito era strisciato via, senza prestare attenzione al trambusto sopra di lui, pensando ai suoi affari mentre si nascondeva fra le ombre delle fognature, anche se non riusciva a ricordare quanto a lungo. Quello che sapeva per certo era che alla fine aveva raggiunto un ostacolo che torreggiava su di lui, una piccola montagna di sterco, ancora calda e fumante. In qualsiasi altro momento si sarebbe rallegrato. Si considerava una specie di intenditore. Un bon vivant. Quello specifico lotto, non aveva fatto fatica a riconoscerlo. Chi avrebbe confuso quell’aroma di nocciola, con sentori di petrolio, buccia di banana e sapone da sella? Le guardie a cavallo! Ma che errore, aver mangiato fuori pasto! La pizza lo aveva lasciato senza appetito per l’escremento, per quanto fresco o ragguardevole, né alcuna inclinazione, data la sua crescente stanchezza, a arrampicarsi su di esso. Si accovacciò all’ombra della montagna, sul terreno molliccio ai suoi piedi, e considerò le sue opzioni. Dopo un momento di riflessione, gli fu chiaro cosa doveva fare. Si mise a scalare la parete verticale di granito del marciapiede per aggirare il cumulo e scendere sul suo lato opposto.

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Disteso nella camera da letto, capì che era quello il punto in cui aveva dovuto dire addio al suo libero arbitrio, o all’illusione dello stesso, ed era caduto sotto l’influenza di una forza guida maggiore. Salendo sul marciapiede, come aveva fatto, si era sottomesso allo spirito collettivo. Era un piccolo ingranaggio in un meccanismo di una grandezza che nessun singolo individuo poteva comprendere.

*
Si issò sul marciapiede, e vide che gli escrementi ne occupavano un terzo della larghezza. Poi, dal nulla, si abbatté su di lui una tempesta improvvisa, il boato di 10.000 piedi, canti e campane, fischi e trombe. L’ennesima dimostrazione turbolenta. A quell’ora della sera. Un’orda di incivili che creavano problemi anziché restarsene a casa. Di quei tempi, le proteste venivano indette quasi ogni settimana. Interferivano con i servizi fondamentali, impedendo alla gente perbene di svolgere le proprie attività ordinarie. Si immobilizzò sul marciapiede, aspettandosi di essere schiacciato da un momento all’altro. Suole di scarpe 15 volte più lunghe di lui calpestavano il terreno a pochi centimetri da dove stava rannicchiato e facevano tremare le sue antenne e il marciapiede. Fortuna per lui che ad un certo punto decise di alzare lo sguardo, del tutto rassegnato allo spirito del fatalismo. Era pronto a morire. Ma fu allora che intravide un’opportunità: c’era un vuoto nella processione. La successiva ondata di manifestanti era a 50 metri di distanza. Vide i loro striscioni muoversi, le loro bandiere sventolare, stelle gialle su sfondo blu. C’era anche qualche Union Jack. Non aveva mai corso così in fretta in vita sua. Respirando a fatica attraverso le trachee del suo corpo segmentato, guadagnò l’altro lato nei pressi di un pesante cancello di ferro pochi secondi prima che la folla gli ripiombasse addosso con il terribile fragore del calpestio, e adesso anche con fischi e rulli selvaggi di tamburi. In preda ad uno scomodo miscuglio di paura mortale e indignazione, scappò dal marciapiede e, per salvarsi la vita, si infilò sotto il cancello verso il santuario e la relativa tranquillità offerti da una strada laterale, laddove riconobbe immediatamente il tacco dello stivale di un poliziotto. Rassicurante, come sempre.

*

E dopo? Procedette lungo il marciapiede vuoto, oltre una fila di residenze esclusive. Stava senz’altro realizzando un progetto più grande di lui. L’inconscio collettivo, il feromone della sua specie gli conferiva una comprensione istintiva della direzione di viaggio. Dopo mezz’ora di marcia senza incidenti, fece una pausa, come da programma. Sul lato opposto della strada c’era un gruppo di un centinaio di fotografi e giornalisti. Dalla sua parte, era all’altezza di una porta, fuori dalla quale si trovava l’ennesimo poliziotto. Proprio in quel momento la porta si spalancò e una donna con i tacchi alti uscì, quasi infilzandolo tra il nono e decimo dei suoi segmenti addominali. La porta rimase aperta. Forse doveva arrivare un visitatore. In quei pochi secondi Jim intravide in un corridoio accogliente, dall’illuminazione soffusa, con battiscopa leggermente consumati – sempre un buon segno. Seguendo un improvviso impulso che non riconobbe come suo, entrò.

*
In quell’insolita circostanza, sdraiato su un letto sconosciuto, gli faceva bene rievocare i vari dettagli. Era rassicurante sapere che il suo cervello, la sua mente, era come era sempre stata. Nonostante tutto, gli era rimasto il suo io essenziale. Era stata l’imprevista presenza di un gatto a farlo correre non in direzione dei battiscopa, ma verso le scale. Ne salì tre e guardò indietro. Il gatto, un soriano bianco e marrone, non lo aveva visto, ma Jim riteneva pericoloso scendere. Così iniziò la sua lunga scalata. Al primo piano c’erano molte persone che camminavano su e giù per il pianerottolo, entrando e uscendo dalle stanze. Troppo grande il rischio di finire calpestato. Un’ora dopo, quando raggiunse il secondo piano, qualcuno stava pulendo i tappeti con un potente aspirapolvere. Conosceva molte anime che si erano perse in quel modo, risucchiate nell’oblio polveroso. Nessuna scelta se non quella di continuare a salire finché – ma a questo punto, all’improvviso, nella stanza mansardata, tutti i suoi pensieri furono cancellati dal fastidioso squillo di uno dei telefoni sul comodino. Pur avendo scoperto che alla fine riusciva a spostare uno dei suoi arti – un braccio – non si mosse. Non poteva fidarsi della sua voce. E anche se avesse potuto, cosa avrebbe detto? Non sono chi pensate che io sia? Dopo quattro squilli il telefono tacque.

*

Si distese e diede modo al suo cuore frenetico di calmarsi. Si esercitò a muovere le gambe. Alla fine si spostarono. Ma soltanto di un paio di centimetri. Tentò di nuovo con un braccio e lo sollevò fino a che torreggiò altissimo sopra la sua testa. Tornando alla rievocazione: si era arrampicato sull’ultimo gradino ed era arrivato senza fiato al pianerottolo superiore. Si era infilato sotto la porta più vicina, che dava su un piccolo appartamento. Di norma sarebbe andato dritto in cucina, ma invece si era arrampicato su un letto e, completamente esausto, era strisciato sotto un cuscino. Doveva aver dormito profondamente… ma proprio allora, dannazione, si udì un suono tamburellante e, prima che potesse rispondere, la porta della camera da letto venne aperta. Una giovane donna in un tailleur beige si fermò sulla soglia e dette un cenno sbrigativo prima di entrare.

“Ho provato a telefonare ma poi ho pensato che avrei fatto meglio a venire. Primo ministro, sono quasi le 7.30”.

Non riusciva a pensare a nessuna risposta.

La donna, chiaramente una sorta di aiutante, entrò nella stanza e raccolse la bottiglia vuota. I suoi modi erano piuttosto informali.

“Bella seratina, eh?”.

Non sarebbe servito a molto rimanere ancora in silenzio. Dal suo letto provò a rispondere con un suono inarticolato, a metà tra un gemito e un gracidio. Niente male. Più acuto di quanto avrebbe desiderato, con un accenno di cinguettio, ma abbastanza decente.

Ian McEwan

* traduzione di Bianchi & Rovellini

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