20 Dicembre 2022

La collina delle cause perse. Voci dall’Antologia di Spoon River

Il pendolo della vita di Edgar Lee Masters oscillava tra l’essere poeta e il dover fare l’avvocato per sopravvivere, ma lo studio legale fu soprattutto il suo osservatorio poetico. Le miserie degli uomini (soprattutto di certi uomini!) gli apparvero come eruttate da un buco nero, quanto più essi, in vita, si erano creduti simili agli dei. Per farsene un’idea, basterebbe ascoltare la voce di tale Whedon, direttore del giornale di Spoon River, che dalle pagine della sua volontà di potenza si comportò verso le sue vittime con la sensibilità di Jack lo Squartatore di anime.

“Saper vedere ogni aspetto d’ogni problema,
dar ragione a tutti, essere tutto, non essere nulla a lungo;
pervertire la verità, strumentalizzarla,
sfruttare i grandi sentimenti e le passioni della famiglia umana
per bassi scopi, per fini astuti,
indossare una maschera come gli attori greci –

il tuo quotidiano di otto pagine – dietro cui ti nascondi,
strillando nel megafono dei caratteri cubitali:
‘Sono io il gigante’.
E quindi vivere anche la vita di un ladruncolo,
avvelenato dalle parole anonime
di un’amica segreta.
Per danaro insabbiare uno scandalo
o divulgarlo ai quattro venti per vendetta,
o per vendere il giornale,
distruggendo reputazioni, o corpi, se necessario,
vincere a ogni costo, salvo la vita.

Gloriarsi di un potere demoniaco, minare la civiltà,
come un ragazzo paranoico mette un tronco sulle rotaie
e fa deragliare il rapido.
Essere un direttore, com’ero io.
Poi giacere qui accanto al fiume sopra il punto
dove scorre la fogna del villaggio,
e scaricano barattoli vuoti e immondizie,
e nascondono gli aborti”.

Edgar Lee Masters fu un grande avvocato delle cause perse, delle quali si prese gran cura, come delle sue rose. Nel 1915 pubblicò Antologia di Spoon River (ora in una nuova versione per La Nave di Teseo, 2022), un miracolo di poesia scritta all’ombra dei sepolcri di una cittadina della provincia americana. Per otto mesi era stato il confessore e lo scriba dei morti. Ogni notte le ombre lo andavano a trovare. Avanzavano verso di lui così numerose che doveva roteare la penna come Ulisse la spada quella volta che scese agli inferi. Le voci dell’Aldilà gli palpitavano nel petto. Ciascuna era una storia. Una voce lo pregava per un verso, un’altra pretendeva un loculo nell’Antologia, un’altra ancora minacciava di perseguitarlo, se mai avesse profanato la sua memoria. Come la voce del giudice Arnett, un uomo di legge che aveva rifiutato di rendere giustizia a un povero cristo accecato in un incidente sul lavoro. La voce di costui tornò ad alzare la testa e disse: “Avvocato, ci rivedremo il giorno del Giudizio Universale!”

I morti che “dormono sulla collina” raccontavano al poeta, in poche parole, com’era andato il viaggio della loro vita: pianti e rimpianti e un po’ d’ironia, a seconda dello spirito, a seconda del carattere. Racconti di vite d’inferno, di vite spezzate, di paradisi perduti, di amori e di nulla.

Hod Putt, fuorilegge:

Giaccio qui accanto alla tomba
del vecchio Bill Piersol,
che s’arricchì trafficando con gli indiani, e
poi con la legge sul fallimento
se la cavò più ricco di prima.
Io m’ero stancato di fatiche e miseria
e vedendo che il vecchio Bill e gli altri s’arricchivano,
una notte rapinai un passante dalle parti di Proctor’s Grove,
ma senza volere lo uccisi,
perciò fui processato e impiccato.
Fu il mio modo di fare fallimento.
Ora noi che siamo falliti ciascuno a suo modo
riposiamo in pace fianco a fianco.

Ma quando svanirono le ombre, quando tacquero le voci, quando i morti smisero di parlare a Edgar Lee Masters finì la sua ispirazione. Visse ottant’anni, ma le pagine migliori della sua vita le scrisse in quegli otto mesi.

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