18 Maggio 2024

“Allena le mani come falchi”. Sulla poesia di May Swenson

Ormai non mi sbalordisco più. Leggo su “Poetry”, la mitica rivista fondata da Harriet Monroe nel 1912, che la tizia “è ritenuta uno dei più importanti poeti americani del secondo Novecento”. Non è un giudizio peregrino, isolato. Harold Bloom, il critico-monarca del “Canone occidentale”, nel 1998 cura l’antologia The Best of the Best American Poetry 1988-1997. La scelta è rigorosissima: conta pochi autori, di norma notissimi (tra cui: John Ashbery, Louise Glück, Derek Walcott, Charles Simic, Mark Strand, Charles Wright). Secondo Bloom, l’autentico carisma della poesia statunitense (che nelle sue più alte gemme si è espressa in Walt Whitman, Emily Dickinson, Wallace Stevens e Hart Crane) è la complessità: una lirica, cioè, dotata d’alto ingegno, di vitalità creativa, di volitiva ironia. In tempi – più di venticinque anni fa – di disfatta delle intelligenze, mistificazione della letteratura, al macero del mercato, e cultura col cancellino, l’antologia di Bloom funzionava come i Trecento alle Termopili:

“Culturalmente, intendo, siamo alle Termopili: i multiculturalisti, le orde di militanti affetti dalla mania francofona, le finte femministe, i burocrati, i fanatici del gender e del power, le schiere dei nuovi storicisti e dei vetero materialisti – costoro ci assalgono. Si solleveranno, potremmo essere sopraffatti; le nostre università sono già delle parodie, i nostri giornalisti sono la caricatura dei professori dei cultural studies. Ma ancora per un po’, vi prego, manteniamoci sulle vette, nel reame dell’estetica. Esistono ancora, credetemi, autentiche poesie che dicono l’autenticità degli Stati Uniti”.

E qui Bloom cita la tizia, May Swenson. Secondo lui, è tra i tre grandi poeti americani degli ultimi decenni. (Gli altri due sono Elizabeth Bishop e James Merrill).

Da qui inizia la mia ricerca. Non mi stupisco più, lo ripeto. Mai sentita nominare May Swenson. In Italia è irrintracciabile; esiste un’antica pubblicazione del 1986, Una cosa che ha luogo poesia, curata da Gabriella Morisco per un piccolo editore urbinate, Quattro venti. Fine. Allora, faccio da me.

May Swenson – in realtà: Anna Thilda May – nasce nello Utah, alla fine di maggio del 1913, in un villaggio di Mormoni. I genitori sono svedesi, immigrati; in casa l’inglese è la seconda lingua; May è la prima di dieci fratelli. Il papà è un professore di ingegneria, May si laurea alla Utah University, pratica il giornalismo a Salt Lake City, per poi trasferirsi a New York. Lavora per un decennio presso la New Directions, la mitica casa editrice di James Laughlin. Nelle sue poesie, da subito, una specie di gioia selvaggia nel far deragliare il linguaggio si associa all’esibizione erotica – la Swenson prediligeva le donne –, alla mania per il dettaglio.

La prima raccolta di versi – Another Animal, 1954, stampa Scribner – riscuote critici clamori; negli anni, May fa incetta di premi, tra cui il Bollingen – quello andato, per intenderci, a Ezra Pound, Robert Frost, W.H. Auden, Wallace Stevens e compagnia poetante. La comparano, per estro, alla poesia di E.E. Cummings e di Marianne Moore; per prossimità affettiva e vertigine verbale, è più corretto avvicinarla a Elizabeth Bishop. Con la grande poetessa americana, May Swenson intrattiene un epistolario, dal 1950 fino alla morte della Bishop, nel 1979, che conta oltre 260 lettere. Alla Bishop, tra l’altro, May Swenson dedica un poemetto, Dear Elizabeth, pubblicato sul “New Yorker” nel 1965, di cui possiamo leggere il dattiloscritto digitalizzato dalla Washington University, l’istituto che custodisce la maggior parte dei documenti della poetessa.

Vita votata alla solarità del talento poetico, May Swenson ha tradotto diversi poeti svedesi in inglese, tra cui il premio Nobel Tomas Tranströmer; amava Edgar Allan Poe, ha curato un’edizione di successo delle poesie di Edgar Lee Masters. Il giorno della sua morte, il “New York Times” la definì a Humorous Poet of Cerebral Verse; il giornalista, Richard Bernstein, scrisse che

“A differenza della maggior parte dei poeti contemporanei, May Swenson non credeva nella poesia come maniera della disperazione o elegia tragica. Aveva un talento sensibile alla gioia, alla levità dell’intelligenza. Trasformò le sue minime esperienze quotidiane – una passeggiata sulla neve da poco caduta, la visione di un lago, l’ape che sorseggia il nettare da una rosa gialla – in oggetti d’arte. È stata in grado, come ha scritto un critico, di far vedere ai suoi lettori ciò che fino a un attimo prima avevano a mala pena guardato”.  

Dal 1967 la Swenson si ritira a Sea Cliff, un villaggio in Long Island. Lo aveva chiamato “La tana del gheppio”; le piaceva vedere il mare. Nel 2013 fa ingresso tra i grandi: la Library of America pubblica i Collected Poems di May Swenson al numero 239 della gloriosa series. Poco prima di morire aveva scritto che

“Le radici delle poesie migliori sono in larga parte nel subconscio. Giovinezza, ingenuità, fede nell’istinto più che nel metodo, senso di libertà, tensione al gioco sono necessari alla costruzione di una poesia – lo è perfino confidare nel caso”.

Aveva scritto una poesia sulla morte della madre, anni prima, sottilmente crudele. È morta il 4 dicembre del 1989, il giorno in cui è morto mio padre.

***

Che la sua anima possa impinguarsi

La mia piccola tarchiata madre sul desco delle
pompe funebri aveva la grazia di un manichino. Il lenzuolo,
steso dal mento ai piedi, la faceva magra, alta.  La faccia
quieta, liscia, esangue, mostrava un lungo sorriso.
La testa poggiava su un cuscino: il collo lungo, i capelli
ondulati, raccolti. Più tardi, dopo la “visione”, inabissata
in quella bara di tulle rosa – un regalo troppo costoso
degno di rovinarsi –, vestita con il verde grembiule dell’Eden
e un cappellino d’organza, parve rimpicciolire e poi crescere
ancora, gialla. Chi le aveva messo gli occhiali con la montatura
dorata su quel viso chiuso; chi ha posato la mano sinistra,
con l’anello nuziale, sullo stomaco, che pareva scomparso
sotto tutto quel pizzo finto?

Prima di morire, il lavoro prediletto di mia madre era
la purificazione, un regime prossimo alla fame, per giungere
degni all’appuntamento con il Padre, che confondeva – o meglio:
fondeva – con nostro padre, in Paradiso ormai da tempo. Ha creduto
nel martirio, nella rinuncia continua e feroce, voleva
svuotare il corpo perché si rimpolpasse l’anima.
Al momento della sua morte, il vento scatenò
con rovina la sua forza. Gola e retto cantavano insieme,
in galvanico spasmo, un sibilo di estasi. Poi
fu il crollo, rettilineo. Gambe e braccia spalancate
come quella santa spagnola appesa a una croce
per le caviglie; la bocca aperta in una oscura O. Ora
la sua vigorosa anima sfrecciava, libera. Presso le pompe
funebri, intanto, lei riposava, ringiovanita, fresca,
trionfante e con un lungo sorriso.

*

Che la terra sia il tuo palco

Sotto la cupola celeste
ricordati, mentre cammini
tra androni di nubi, lungo
navate di luce solare
o attraverso cortine di siepi
puro verde acquazzone
che cammini nel mondo
tacchi alti, manto che turbina
mano sull’elsa del tuo
spadaccino orgoglio:
leva alta la testa
e che la vita ti spaventi

Entra ogni giorno
con il tuo passo
su questo palco
illuminato, elevati
in alto come una fiamma
acutizza le narici
fai crepitare gli occhi
fino all’agonia, alla razzia

Allena le mani
come falchi;
rapace o rapito
muovi il corpo
come una muta
di cavalli che
spazza dirupi e praterie
con i suoi miseri zoccoli:
le criniere in fuga
la severità delle membra.

Che la terra sia la tua stanza
il pavimento tappezzato
di raggi stellari; afferra
l’argenteo vento e prendi
spazio: è il tuo turno, danza

*

Notte, bosco

Gufo-binocolo
sorretto su un arto
tutta la notte
come una lanterna,

osserva dove tutti
gli altri uccelli dormono:
il passero sotto una milizia
di foglie, la cincia nell’abisso

del cespuglio, il fringuello
vampiro aggrappato
al leporino del legno,
il tordo tra le canne

la rondine ronza nel salice
il picchio trema nella quercia –
non riesce a vedere il povero
succiacapre

sotto la collina
in un cimitero di bronchi:
è ancora sveglio
l’occhio sbarrato

scorticato dalla luna
il petto felino
ripete, ripete, ripete il suo inno
alla crudeltà.

*

Dormire con il boa

Le insegno come abbracciarmi
ma è troppo piccola
ma quel che è peggio è che non capisce.
E
anche se giace al mio fianco, sgancia
la lingua per leccare se stessa.

La piace che la mia mano la accarezzi.
E
si lascia baciare.
Ma quando le dico:
“Ora fallo a me, così”
indietreggia, sibila.

Cosa agita la sua piccola mente?
Salta giù dal letto
si mostra di spalle
per rannicchiarsi sul tappeto.
Le imploro di tornare. Tentenna
poi si nasconde

sotto le coperte. Gioca con i miei piedi!
“Oh, Boa, torna qui, sii dolce,
sdraiati contro di me, sono generosa e calda.
Sistema qui la tua tana. Non artigliare, non
mordermi, resta con me stanotte”.
Forse acconsente, infine mugola.

Le sue profonde pupille s’infossano
nelle mie: sguardo pari al diluvio…
Ma non è la mia effige.
Nient’affatto.
E
quel che è peggio, è troppo piccola.

*

Figura d’acqua

Nello stagno del parco
tutto raddoppia:
i palazzi pendono
e si dimenano, delicati.
I camini sono gambe piegate
che si inchinano alle nubi.
La bandiera scodinzola come
un amo gettato in cielo.

Il ponte, arcuato, in pietra,
è un occhio: la palpebra
infierisce nell’acqua. Nella
sua orbita, teste aggrovigliate
con capelli che non cadono. I cani
passano, abbaiano, di schiena.
Un bambino getta cibo alle
anatre: penzola a testa sotto,
il palloncino rosa pare un boa.

Le cime degli alberi spargono
una nebulosa di fiori di ciliegio:
gli uccelli volano a pancia in su
nella conca di vetro di una collina;
in fondo, una vigna di bimbi
sgranocchia noccioline:
sospesi sulle loro scarpe
da ginnastica, vacillano.

Un cigno forma con due
colli la figura del 3,
si muove tra le fosse
delle torri raddoppiate.
Sibila mentre si bacia
e tutta la scena è un bel
problema: schegge di finestre
d’acqua, gomitolo di rami
il ponte che si piega a ventaglio.

*

Versi di quattro parole

Aggiusti i tuoi occhi
come api e io
mi sento un fiore.
Il loro bruno potere
mette una brezza sulla
mia pelle. Le ciglia
si abbassano, si alzano
come un ronzio cupo
di gambe; lo sguardo
punge gli occhi velati.
Vorrei che ci insinuassimo
in qualche ombra che
nessun altro sciame conosce.
Sono un fiore, respiro
nuda, aperta agli sguardi
caldi delle tue api.
Voglio che tu mi
guadi per cogliere con
la nera fama delle
api, il dolce scintillio
che ho chiamato profondità.

*

La forma della morte

Che cos’è l’amore? Sappiamo
la forma della morte. La morte è una
nuvola, immensa, magnifica. All’inizio
un coperchio si solleva dall’occhio della luce:
accade l’applauso sonoro, il bianco fiore

germoglia dall’osso dello spavento
un colonnato di nubi che muta dal bianco
al grigio come un cervello, mostruoso, che scoppia
e arde, poi diventa nero, malato, e dilaga
e riempie il cielo di ceneri di orrore;

poi si avvolge, tra il nitido mare
e la luna, cranio verde della terra.
Intrappolato nel bozzolo, dal respiro
che soffoca sappiamo la forma
della morte: la morte è una nuvola.

Che cos’è l’amore?
Una particella, una stella –
del tutto invisibile, non si lascia
avvistare dai microscopi. Inimmaginata
dimensione, oltre il getto della speranza.
È un mondo lontano e giusto che mai

oseremmo scoprire. Qual è il suo colore, la sua
alchimia? È un gioiello della terra, possiamo
scovarlo scavando? È stato dragato dal mare?
Possiamo acquistarlo? Si può seminare? 
È bestia refrattaria, difficile da catturare?

La morte è una nuvola,
immensa, un sonoro applauso.
L’amore è piccolo e non fa rumore.
Nidifica all’interno di ogni cellula,
non può essere diviso.

È raggio e seme, nota e parola
moto segreto dell’aria e del sangue.
Non ci è alieno e non è prossimo:
è la nostra stessa pelle –
involucro che ci serba puri dalla paura.

May Swenson

Gruppo MAGOG