20 Settembre 2023

“I morti cagano, pisciano come i vivi”. Fiori e parole intorno a una poesia di Gabriele Galloni

«Sapete quale sensazione deve provare il suo contemporaneo?
Che solo per un puro caso non è stato lui a scriverlo,
che lui stesso era lì lì per scriverlo e gliel’hanno strappato di mano…». Anna Achmatova

Ecco che diviene doveroso, irresistibile appartenere al mondo dei morti, alle lunghe distese dove trapassano le nostre stesse fatalità, dove forse vagano ininterrotte fino al disconoscimento. Arrivano voci e qualcuno tenta di trovare il suggello, di allestire l’involucro, eppure è nel tempo d’altro tempo quel richiamo. Quel tempo è l’estate del mondo, la casa ormai sconosciuta dove le stagioni più cocenti spalancano i giardini e vi entrano loro, i defunti. 

Il fare dei morti è un fare misterioso, un perpetuare il muso indolente sulla strada ferrosa delle ossa, un’ostinata ragione del futuro. Il corpo è per loro, come per noi, uno strumento stremato che transita ancora, vuole soccombere e stregare; si intende di sparire, di eccesso e vanità. Nei loro occhi sono ancora invincibili le immagini ed è scoperto il tradimento dello spazio: le iridi gonfie e sazie, i palmi irriconoscibili, aperti, con una serie di ultimi gesti pretesi. Ma la vera innocenza è quel grido sovrapposto alla voce, quella conca gelata che una volta era labbro, ora più somigliante ad un puntello. Le mani di tutti si innamorano sopra i cadaveri e sono ferite che si conciliano, sani avvelenamenti, battiti appena appassionatisi.

I morti cagano, pisciano come
i vivi. Solamente che faticano
a rispondere a tutte le domande
che gli vengono fatte. Preferiscono
ricordarsi di un nome,
scomporlo in sillabe, accorgersi che è il loro.

Da In che luce cadranno (Sulla riva dei corpi e delle anime, Crocetti Editore, 2023)

Il gesto di questi è insolito, da atto ad atto, mai davvero concluso; è il gesto di chi diventa argomento, studio, «ultima didascalia del mondo conosciuto». Sono in molti, sono soli, si accoppiano prima di tirare i dadi, prima di scommettersi a vicenda le provviste, l’epidermide seccata o ricucita malamente. La loro usanza è giocosa, ironica, atletica, incivile, mentre sradicano la più scaltra saggezza e giocano a decomporsi. Giocano? Si ritirano dal gioco, sfregano le carte, forse le macchiano, non si fissano certo sulla regola. Se codesti morti dovessero dividersi in gruppi, come capita altrove, avrebbero almeno l’ultimo rimasto fuori da scomporre ancora, in cento altri gruppi. Ma i morti, va ricordato, qui muoiono, e progettano di morire ancora, se ci giungeranno da soli. 

Le loro cianfrusaglie, i loro bottini di re, di miserabili, di amici e amanti, dove finiscono? Usano quelle degli altri, imparano a non appassionarsi; imparano l’uso, dimenticano il costume. Magnifico potersi addentrare senza denti, prendere una vanga, un mulinello e fare quel che si può. Perché questa civiltà può attraversare le stanze senza divieto e impossessarsi di frigoriferi, altalene, giardini, fontane. Ogni strumento è spiegazzato e scomposto nei suoi scopi: possono telegrafare con la sabbia e palleggiare da un foro nel muro. Sono oggetto e cercano caricatura, ritratto. Vegliano pure sulla lingua e sembrano attorniare i vocaboli, farne a poco a poco rapida ascesa. Qualcuno ci si confida ma l’unica accortezza possibile è lasciar loro la moltitudine, intanto che cercano l’erogeno, il fine già ritrascritto delle pelli. Difficile sarebbe però affibbiar loro il culto della memoria, ingenui come palafitte vanno avanti e indietro, e se sentono sulle spalle il peso di qualcuno lo fanno scendere. Non sanno sempre come apparire, perché essi esistono. 

Verrà da chiedersi se si tratti di spiriti, mutilati, di fantasmi, se si parli di gentaglia errabonda, smemorata, di creature morbose che prolificano, che attaccano briga a chi è meglio collegato, sensibile; paiono i più igienici o i superflui nell’opera di comprensione; cercando pretesti, note introduttive, finiscono sempre sull’ultima parola e applaudono gli inizi. Gli distingue un’incoscienza nell’apparire, nel soffiare a vuoto sulle cene imbandite, nell’inventare i compagni che li annusano, i sogni che li sognano. 

I morti hanno fiducia nella sorte.
A notte fonda salgono sugli alberi
del tuo giardino; li trovi che all’alba
non sanno come scendere dai rami.
Li vedi; non ti vedono. Li chiami
e non ti sentono. Li aiuti – scendono.
Ogni notte ritornano e dimenticano.

Mi giunge alla mente la naturalezza con cui parlò un amico rumeno del trasferimento mortuario. I suoi nonni – per pochi da dove provengo tutto è intrapreso con rilassamento nelle cose del trapasso – saranno seppelliti dove sono seppelliti i suoi bisnonni, i suoi bisnonni saranno estratti e la loro casa della morte sarà generata come la loro casa della vita; passeranno alla crescita, passeranno e lasceranno la loro corrente al prossimo figlio che deve resuscitare. Perché anche la morte è nel tempo, allunga i capelli e le ciglia, anche la morte finisce, se viene la premura. Dove finisce la morte, e sappiamo che finirà, c’è ancora parentela e non ci si può distaccare, non scavare nuove buche, ma occuparci di questa adolescenza o infanzia che giungerà alla fine e tornerà a chiedere un disseppellimento, un futuro di ossa ancora sul cammino che non sono come rubate. 

Nel modello dei versi questa stessa tenerezza di un’ospite sincero che ora può parlare, per non parlare più. Minimo uso, minimo spazio: il poeta sembra sapere dover interrompersi, dove festeggiare la forma, e con la sua attenzione rende lo schema impalpabile. Poesia sgusciata, bianca di un principio che attendeva il colpo dello svezzamento, da cui sembrano fuoriuscire figure vive, non chiazzate; non c’è serpente e non c’è peccato, perché là, nel mondo dei morti, «l’albero è solo radici.»

Blu Temperini

Gruppo MAGOG