14 Novembre 2018

Ezra Pound: il poeta enciclopedico e l’opera senza fine. Dialogo con Roberta Capelli sui nuovi studi poundiani

Lo spazio-tempo è un concetto vano nelle questioni poetiche, sulla navicella lirica. Così scriveva Ezra Pound nella Praefation ad lectorem electum, era il 1910, era Lo spirito romanzo: “A Gerusalemme è l’alba quando la mezzanotte impende sulle colonne di Ercole. Tutte le età sono contemporanee. In Marocco, per esempio, siamo ancora avanti Cristo, in Russia nel medioevo, e il futuro già si agita nella mente dei pochi. Tutto ciò è specialmente vero in letteratura, dove il tempo reale è indipendente dal tempo apparente, e dove molti dei morti sono contemporanei dei nostri bisnipoti, mentre molti dei nostri contemporanei sono già stati raccolti nel seno di Abramo se non in qualche più adatto ricettacolo”. La sintesi ‘polemica’ è qui: “Noi abbisogniamo di una critica letteraria che pesi sulla stessa bilancia Teocrito e Yeats, che giudichi con uguale inesorabilità gli sciocchi di oggi e quelli di ieri”. Nella visione di Pound ci sono Dante e Confucio, i trattati rinascimentali e le raffinatezze del teatro No, Ovidio e Thomas S. Eliot, alla pari. Soprattutto, c’è una spietatezza critica verso la quale non si può non simpatizzare: ogni libro va letto come oggetto assoluto, come voce che dialoga con il proprio tempo, con gli altri tempi, con chi verrà, con Shakespeare, con Virgilio con il tiggì di oggi e con il veliero cosmico di domani. Più che un poeta, d’altronde, Pound è un cosmo. Roberta Capelli, che insegna Filologia e linguistica romanza all’Università di Trento, ad esempio, ha studiato in modo specifico i rapporti tra Pound e i provenziali, così vitale nella sua giovinezza poetica – l’ultimo lavoro, pubblicato quest’anno, è dedicato a Tradurre i trovatori: un esempio poundiano. Arnaut Daniel, “Chansson doil mot son plan e prim”, ma già nel 2013 si era fermata su Carte provenzali: Ezra Pound e la cultura trobadorica (1905-1915); dalla bibliografia di un lavoro duraturo segnalo Re-making the Cantos: nell’officina di Ezra Pound (2009), se non altro perché indagine “condotta prevalentemente su materiali inediti conservati negli archivi poundiani della Beinecke Library dell’Università di Yale”. Pound è una fonte infinita, una miniera: lo testimonia il secondo ciclo di convegni realizzato dall’Ezra Pound Research Center, con sede a Merano, dedicato quest’anno a “Ezra Pound un intellettuale tra intellettuali”, diretto da Roberta Cappelli e da Ralf Lüfter, in atto il prossimo sabato, 17 novembre. Al di là degli eventi extraordinari – la presentazione con Mary de Rachewiltz del libro di Alessandro Rivali, Ho cercato di scrivere paradiso (Mondadori, 2018) e la mostra fotografica di Lisetta Carmi, The Umbrage of a Poet (da cui l’immagine in copertina) – tra i partecipanti ai lavori vi saranno Manlio Della Marca (sul “carteggio di Ezra Pound con Marshall McLuhan e Eva Hesse”), Sean Mark (“Gettare il corpo nella lotta”: Pound, Pasolini e l’impegno), Massimo Bacigalupo (Pound nell’AngloLiguria). Per entrare in alchimia poundiana, ho contattato la Capelli. (d.b.)

Intanto. Come nasce l’idea di una giornata di studi su Pound? Intendo. Mi pare che in questo periodo, con rinnovato interesse, si sia tornati a studiare e a pubblicare Pound: è così?

Il Centro di Ricerca Ezra Pound, che è uno degli Istituti dell’Accademia di studi italo-tedeschi di Merano, è attivo già da alcuni anni nell’organizzare iniziative di carattere scientifico e divulgativo di approfondimento dell’opera di Ezra Pound. Due anni fa, insieme al collega Ralf Lüfter (che è anche il direttore del Centro), abbiamo curato il primo seminario internazionale dedicato a “Pound lettore di Dante”, al quale hanno partecipato alcuni tra i maggiori conoscitori della produzione del poeta americano, tra i quali Maria Luisa Ardizzone, Caterina Ricciardi, Stefano Maria Casella, Luca Gallesi. La nostra idea sarebbe quella di rendere questo incontro un appuntamento fisso a cadenza biennale: pertanto, la giornata di studi di quest’anno è, per così dire, la seconda puntata. E poiché Pound era molto eclettico, cerchiamo di mettere in dialogo più settori della critica e più discipline: accademici, giornalisti, artisti; letteratura, storia, storia delle idee, arte… due anni fa sono stati esposti gli stendardi ispirati alla poesia poundiana dell’artista trentino Lorenzo Menguzzato (in arte LOME), quest’anno ci saranno i dodici ritratti scattati dalla fotografa genovese Lisetta Carmi a Pound nel 1966, a Sant’Ambrogio degli Zoagli. Due anni fa ci fu la presentazione del libro di Corrado Bologna e Lorenzo Fabiani, “Il Dante di Pound” (Marsilio, 2015), quest’anno ci sarà quella del libro-intervista di Alessandro Rivali a Mary de Rachewiltz, “Ho cercato di scrivere paradiso” (Mondadori, 2018). Il pubblico può così conoscere meglio Pound e diverse forme della sua ricezione. Una ricezione che oggi è effettivamente più ampia e obiettiva rispetto al passato: ancora negli Anni ’90, quando preparavo la mia tesi di laurea, ricordo una chiusura ideologica preconcetta nei confronti di Pound molto più agguerrita rispetto ad ora. La bibliografia su Pound, in realtà, è sempre stata abbondante, solo che chi si occupava di Pound veniva quasi automaticamente ascritto ad una determinata area politica. Un po’ come l’equivoco per cui si associa il nome di Pound a quello di CasaPound. Mi sembra che in tempi recenti se ne parli e se ne scriva con più libertà, il che non significa acriticamente o con indulgenza, bensì con maggior competenza e cognizione di causa dei legami tra biografia, contesto storico e poetica.

Preciso: forse, a 60 anni dalla scarcerazione di Pound, i tempi sono buoni, visti i rapporti di affinità che il poeta ha avuto con l’Italia, per rimeditarne l’opera senza pregiudizi o tenaglie ideologiche: è così?

Che “i tempi siano buoni” come dice Lei, per rivalutare le affinità elettive tra Pound e l’Italia, mi suona, devo essere sincera, come una formulazione un po’ ambigua e pericolosamente manipolabile nel dibattito socio-politico attuale che ricorre con grande superficialità ad un lessico pieno di -ismi di dittatoriale memoria… Pound amava l’Italia perché la considerava una fortunata terra di cultura e tradizioni, un modello per il “risvegliamento” (il neologismo è suo) degli Stati Uniti fondato sulle Lettere. E Pound stesso si è posto, come una sorta di novello Dante, dentro il mondo del suo tempo, raccontandolo nei ‘Cantos’ come una vera epopea post-moderna e vagheggiando scenari di bucolica rinascenza culturale capaci di ricucire gli strappi e gli errori della Storia (inclusi i propri) nel segno della “musica delle parole e delle idee”, cioè del sovrasenso apofatico di un linguaggio simbolico che rifletta non una teologia negativa, ma una ricerca interiore e tutta umana del paradiso in terra. La fortuna di Pound in Italia è stata a lungo penalizzata da una visione critica di stampo marxista che, come ogni metodo di analisi teorica, propone solo un percorso esegetico tra i molti possibili: il fatto che le prospettive di ricerca correnti tendano sempre più al superamento delle categorie convenzionali, mi pare sia segno di un crescente interesse a capire le manifestazioni e i prodotti letterari, a maggior ragione quelli poundiani, non come monumenti, monolitici e inscalfibili, ma come documenti di processi dinamici esterni e interni al testo, responsabili della sua complessità formale e sostanziale.

PoundQuali sono i punti nodali intorno a cui orientare le attività del convegno? In merito alle amicizie di Pound, quale è stata a suo avviso la più intensa, la più gravida di conseguenze?

Il tema del convegno può essere declinato in molti modi. In senso letterale, gli interventi trattano di contatti personali, di amicizia o di scambio intellettuale, che Pound allacciò nel corso della propria vita: ad esempio, gli incontri e le frequentazioni poundiane in quella che Massimo Bacigalupo chiama felicemente l’AngloLiguria degli Anni Venti e Trenta; o il dialogo quasi trentennale con lo scrittore lombardo Carlo Linati, interrotto solo dalla sua morte, nel 1949; o il confronto con Pier Paolo Pasolini per la famosa intervista televisiva del 1967, indagata da Sean Mark. Ma è anche il caso di contatti “indiretti”, nati cioè grazie a Pound e intorno a lui, soprattutto durante gli anni della sua detenzione oltreoceano: Carlo Pulsoni ha trovato una lettera del 1956 nella quale l’editore Vanni Scheiwiller scrive a Giuseppe Ungaretti ricordando con simpatia come si siano conosciuti proprio per parlare di Pound. Oppure, il contatto è epistolare, come quello con la traduttrice tedesca Eva Hesse e il teorico dei media Marshall McLuhan, su cui sta lavorando con parecchi materiali di prima mano Manlio Della Marca. Partendo da questi episodi biografici, è possibile non soltanto comprendere meglio la grande curiosità umana di Pound, ma recuperare anche molti tasselli utili alla contestualizzazione delle sue opere e alla loro comprensione. E questo è valido in particolare per i ‘Cantos’ che sono costruiti a mo’ di patchwork intorno a figure e fatti reali, quotidiani, trasfigurati poeticamente. Questa fitta rete di relazioni è connaturata e concausale allo sperimentalismo poundiano: le sue esperienze di vita e i suoi esperimenti di stile influiscono sulla sua ricerca poetica, ma esercitano anche una forte influenza su chi gli sta attorno. Penso a T.S. Eliot, quella che considero personalmente una tra le amicizie poundiane più importanti, sul fronte personale e creativo: Pound corregge e, in pratica riscrive l’abbozzo di ‘The Waste Land’ (il celeberrimo incipit «April is the cruellest month» è preceduto, nell’originale provvisorio, da più pagine ferocemente cancellate da Pound); Eliot scrive ‘Ezra Pound: His Metric and Poetry’, un saggio ancora illuminante per capire la poesia poundiana, e si mobilita, con Hemingway e Frost, per liberare il suo «Dear Rabbit» (questa l’intestazione di molte lettere) dalla “gabbia di matti” di Washington. Senza Pound non ci sarebbe forse stato nessun futuro letterario per Eliot, e senza Eliot non ci sarebbe forse stato nessun futuro post-bellico per Pound.

Lei si è soffermata sui rapporti tra Pound e i trovatori: può spiegarmi che ruolo hanno nella trama dei ‘Cantos’ questi legami lirici e nella composizione del verso poundiano?

I trovatori, in quanto rappresentati di una tradizione poetica che, nella visione poundiana, prosegue ininterrotta dai misteri di Eleusi all’empireo dei mistici medievali e alla visione beatifica dantesca, passando per la Provenza dei giardini segreti della fin’amors, rappresentano quella che definirei la “giovinezza”, ossia l’apprendistato poetico di Pound: scopertili sui banchi d’università, vi si dedica per un decennio con acribia ed entusiasmo, traducendoli e rielaborandoli, per perfezionare la propria tecnica. Poi, dal 1915 con il poemetto ‘Near Perigord’ e poco dopo con i primi ‘Ur Cantos’, il primitivo metodo ad intaglio e il successivo, maturo, metodo ideogrammatico, i trovatori si riducono a dettagli luminosi, ‘ghiande di senso’ (per usare un’acuta definizione di Mary de Rachewiltz), all’interno di un sistema poetico che ha, da un lato superato la metrica canonica a favore di una lingua intrinsecamente musicale, dall’altro liofilizzato il nucleo vitale dei modelli del passato per ricomporli nel grande mosaico della propria avventura attraverso gli oceani della contemporaneità. Le citazioni trobadoriche nei ‘Cantos’ sono poco numerose ma costanti, si rarefanno con il progredire del poema ma non scompaiono nemmeno nei ‘Drafts and Fragments’, spesso sono in lingua originale (in lingua d’oc), altre volte nella più sintetica delle molteplici traduzioni fatte da Pound nel corso degli anni, e sono sempre molto brevi, singoli versi, o emistichi, o addirittura una parola: «remir» (‘guarda’), «lo soleils plovil» ‘the light rains’, sono ad esempio due micro-citazioni da Arnaut Daniel, il trovatore preferito da Pound per la perfezione della forma e tradotto integralmente in inglese per ben tre volte tra il 1909 e il 1917, nelle quali si condensa tutta la potenza di un’immagine visivo-luminosa, propedeutica alla contemplazione e fulcro della metafisica della luce poundiana.

Inoltre, lei ha lavorato su materiali inediti deposti a Yale: quali sono le piste di ricerca accademica su Pound che dovrebbero essere percorse o che si stanno percorrendo?

A Yale mi sono concentrata sui materiali provenzali e sulla corrispondenza ad essi relativa, ma nonostante abbia trovato informazioni utili per un libro e vari articoli non credo di aver ancora finito di spogliare tutti i faldoni di lettere, veline di brutta copia, block notes, appunti avventizi e prove di stampa glossate… Questi archivi, preziosi per la cosiddetta filologia d’autore, per allestire cioè il dossier genetico dell’opera nel suo farsi, attraverso i vari stadi di formazione e trasformazione del testo, mostrano un lavoro di revisione maniacale e prolungato nel tempo da parte di Pound, che spiega meglio di qualunque altra testimonianza l’evolversi del suo metodo, la sua sempre ribadita ricerca della “parola giusta”, più accurata, essenziale nel rendere un concetto. Tuttavia, Pound era instancabile, si appuntava idee dove gli capitava, faceva versioni e versioni di prove e correggeva le correzioni, per cui sono sempre più convinta che quello che collazioniamo nelle biblioteche sia solo una parte di ciò che in realtà esiste (o esisteva) in giro, chissà dove. Perciò l’edizione di un’opera poundiana, in primis i ‘Cantos’, che sono letteralmente un “endless poem” nel senso che mancano di una fine che rispecchi la volontà autoriale, è un’edizione “aperta”, deve confrontarsi con l’incertezza di un testimoniale che può improvvisamente arricchirsi di qualche nuova scoperta. In più, la mole dei materiali e della bibliografia, e la stratificazione o l’occultamento dei riferimenti poundiani, aumentano il rischio di sovrainterpretare e fraintendere. Lo scoglio maggiore è probabilmente la difficoltà dello stile e della lingua di Pound, per certi versi intraducibile, anche quando sembrano più lineari (mentre giocano sempre sull’ironia e sulla polisemia) nelle opere giovanili, persino nella prosa, e non parliamo delle lettere, con il loro proprio gergo colloquiale: questo fa sì che la critica poundiana sia per lo più anglo-americana o, come in Italia, legata agli studi di anglo-americanistica, di taglio contemporaneista. In verità, Pound è un autore enciclopedico, che pratica un intenso pluri- e mistilinguismo e che travalica, contaminandoli, i confini di genere e registro: per questo dovrebbe, secondo me, essere “percorso” in più direzioni.

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