Harold Bloom aveva una passione per i testi sacri: pensava – da astuto eresiarca – che una religione vince e ci avvince anzitutto per eccellenza estetica. L’Antico Testamento ci sovrasta perché i Salmi, Giobbe, Qoèlet e Isaia sono testi immedicabili, superbi; il Nuovo Testamento è la fonte di due grandi scrittori russi: Lev Tolstoj ha tentato per tutta la vita di imitare i Vangeli; Dostoevskij è un degno discepolo – quanto a ritmo e mania logica – di San Paolo. Il padre di entrambi, Aleksandr Puškin, invece, preferiva il Corano. “Il Corano è il Libro della Vita”, scrive Harold Bloom, “vitale come una persona… è un libro universale, aperto e generoso come i più grandi capolavori della letteratura, come Shakespeare o Cervantes”. Il genio del Corano, scrive Harold Bloom, è il fatto di essere assertivo e assoluto – da qui, le diverse, difformi interpretazioni – e di essere “il più grande esempio di ciò che chiamo ‘l’ansia dell’influenza’”, stretto com’è dai due illustri precedenti: la Torah ebraica e gli scritti cristiani. Ma questo è un altro discorso. È vero che le ultime sure del Corano sono lirica purissima, tinteggio cosmico, flagrante abisso. Fondano, insomma, non soltanto – non tanto – una religione, ma una letteratura.
La più nota imitazione del ritmo coranico, attraverso l’opera del poeta Hafez e la tradizione lirica persiana, è quella di Goethe, che nel 1819 stampa il Divano occidentale-orientale. Un libro marmoreo, memorabile. Puškin fa qualcosa di più. Nel 1824 scrive un fascio di poesie che chiama Imitazioni dal Corano, dedicate a Praskovya Osipova. Per Puškin è un momento delicato: confinato nella tenuta materna – con l’accusa di ateismo – continua a lavorare all’Eugenij Onegin, che aveva cominciato l’anno prima, scrive il poema Gli zingari, studia il Corano, appunto, tradotto in russo nel 1790 da Mikhail Verevkin (ma da versione francese). L’esito è un ciclo, scrive Pia Pera, di “splendidi versi… vibranti del senso di un’armonia fra l’uomo e Dio: lo stesso genere di tranquilla semplicità d’animo che Puškin saprà ricreare in La figlia del capitano”. Le poesie ‘coraniche’ vengono pubblicate nel 1826, insieme al poemetto Il profeta:
“Di sete nell’animo preso
Nel buio deserto ansimavo –
E un serafino con sei ali
A un crocevia m’apparì:
Con dita lievi come il sonno
Le mie pupille egli sfiorò…”.
Questa poesia si trova, nella traduzione di Giovanni Giudici e Giovanna Spendel, nel ‘Meridiano’ Mondadori che raccoglie le Opere di Puškin; delle altre non v’è traccia. Nelle note alle Imitazioni del Corano, il poeta chiarifica le sue fonti: la Sura XCIII (“Dunque non opprimere l’orfano,/ non respingere il mendicante, e proclama…”), la Sura XXXIII (“O Profeta, di’ alle tue spose, alle tue figlie e alle donne dei credenti di coprirsi dei loro veli…”), la Sura XLVIII (“In verità ti abbiamo concesso una vittoria evidente,/ affinché Allah ti perdoni le tue colpe passate e future, perfezioni su di te il Suo favore e ti guidi sulla retta via”), tra le altre (cito la versione del Corano di Hamza Roberto Piccardo). Puškin installa la poesia su alcuni versetti, per procedere secondo il proprio estro: le imitazioni diventano così autentiche variazioni; il poeta ricalca il ritmo coranico, gli importa dare ai versi un tono fiabesco, una luce che mai muore – luce su luce, splendore che pretende accoliti. Divennero un piccolo classico. Dostoevskij, nel discorso solenne su Puškin tenuto nel 1880, a proposito delle “strofe della Imitazione del Corano”, trova giustificazione nel celebrare il poeta-come-profeta:
“non è questo lo spirito stesso del Corano e la sua spada, l’ingenua maestosità della fede e la minacciosa, sanguinosa sua forza?… Puškin è un fenomeno inaudito e mai visto e, secondo me, anche profetico”.
La fascinazione di Puškin per il Corano, al di là delle sante ascendenze – il bisnonno, il generale Gannibal, era nato in Eritrea e consegnato, bambino, al sultano di Costantinopoli, prima di approdare in Russia – è sotterranea e continua: il suo viaggio ad Arzrum (1829) tradisce la passione per il Caucaso, la severa sapienza liturgica dei suoi abitanti (che diventerà un cliché della letteratura russa: traspare nel Chadži-Murat di Tolstoj, ad esempio); l’Onegin si chiude citando Saadi, il grande poeta persiano vissuto nel XIII secolo. Forse lo appassionava l’idea di un dio inattingibile, la funzione – romantica – del poeta come mediatore tra le ‘forze’, mestatore tra gli invisibili; lungi dall’essere un gioco, le imitazioni orientano a una forma più acuta di dedizione: il poeta si fa profeta, le sue labbra la tazza rovesciata dall’angelo, ciò che capisce, decapita.
***
Imitazioni dal Corano
I
Giuro sul pari e sul dispari
sulla spada e sulla giusta battaglia
giuro sulla stella del mattino
e sulla preghiera della sera.
Non ti ho lasciato:
l’ombra veglia e nessuno
mi nasconde dalla persecuzione.
Quando ho sete
diserto dal dissetarmi.
Eppure: la mia lingua
piega ogni mente.
Fatevi coraggio e disprezzate gli inganni
perseguite con allegria la via del vero:
proteggete gli orfani e predicate
il Corano alla creatura che trema.
*
II
Le mogli del profeta
sono pure, diverse da tutte:
terribile è l’ombra del vizio.
Protette dal silenzio
vivono caste: il velo vergine
le serba. Custodisci un cuore fedele
per chi vive nel timore e nella legge.
La maldicenza del vile
non graffierà il tuo viso.
Quanto a voi, ospiti di Maometto
accalcati al suo pasto
fuggite le vanità del mondo
che confinano il profeta
nella confusione. Il giusto
non ama le parole eloquenti,
avide e vuote: onora la festa
con l’umiltà. Casta
è l’inclinazione del servo.
*
V
La terra è immobile, il cielo si volta
Creatore: tutto sorreggi
l’alto non crolla sulle acque
e nulla ci travolge.
Hai acceso il sole nel cielo
perché splenda sulla terra
come, inebriato dall’olio,
si spande il lume della lampada.
Prega l’Onnipotente: egli
governa i venti; invia greggi
di nuvole quando fa caldo,
ci ha donato gli alberi.
Lui è il Misericordioso:
ha rivelato a Maometto
il Corano, mirabile. Così
anneghiamo nella luce
e la nebbia si dirada
dai nostri occhi.
*
VI
È esatto: ti ho visto
in sogno – battaglia di crani
nudi, innesti di spade insanguinate
per trincee e torri, sopra i contrafforti.
Ascolta come gridano
i figli del deserto che arde!
In cattività gli schiavi fanciulli:
va diviso il lordo bottino.
Gloria a chi vince
sia dannato il vile:
non hanno ceduto
al richiamo della guerra
alla mirabile speranza.
Beati i caduti in battaglia
loro è il regno dei cielo:
annegano nei piaceri
e ormai nulla li avvelena.
*
VII
Levati nel timore:
nella tua grotta
arde già la santa
lampada – eleva
la preghiera, profeta,
rimuovi i pensieri
cupi, i malvagi sogni.
Dalla prima ora
fissati nel pregare
ripeti il libro celeste
e incoraggia l’alba.
*
VIII
Non ha paura il giusto della cupa miseria
perché mano prudente non disperde il dono
e la generosità è gradita ai cieli.
Nel terribile giorno del giudizio, sarai come
un campo fertile, mio seminatore!
Egli ti ricompenserà cento volte tanto.
Ma se ti ostini a conservare il tuo guadagno
e scarsa elemosina spandi sui poveri
con pugno livido d’invidia
sappi che i tuoi talenti torneranno polvere
manciata di cenere, acqua che sulla pietra
si scinde e scompare – hai rifiutato un tributo al Potente.
*
IX
Sfiancato, il viaggiatore si affidò a Dio:
aveva sete di ombre, vagava
per i deserti da tre giorni:
occhi pesanti di polvere
desiderio spezzato dal disperare.
Sotto una palma, improvviso, il tesoro.
Si rinfrescò avidamente nel fiume:
la lingua era una fiamma – fiero
si sdraiò di fianco all’asino, il sonno
superò ogni male. Molti anni, per volontà
del Signore dei cieli, passarono su di lui.
L’ora del risveglio è giunta – il viaggiatore
si desta e una voce sconosciuta gli dice:
“Da quanto dormi così profondamente
nel deserto?”. E lui: il sole è alto,
lo stesso che brillava anche ieri – avrò
dormito per un giorno intero.
La voce replicò: “Viandante dei deserti
molto più a lungo hai dormito. Guardati:
giovane ti sei sdraiato, vecchio ti levi.
La palma è marcita e il fiume si è
ormai prosciugato, terra arida
lo ha divorato, cupa sabbia delle steppe.
Svettano le ossa del tuo asino”.
Ormai vecchio, il viandante prese
a piangere, testa che trema incessante.
Ma un miracolo balenò nel deserto:
il passato si ricompose in magistrale bellezza.
La palma che trema ancora, con vasta chioma;
il fiume e il pozzo si rinnovano, freschi.
Le ossa dell’asino si rivestono del corpo:
la bestia è di nuovo viva, raglia che sembra
ruggire. Il viandante recupera le forze –
il sangue benedice il viso
sante estasi gli gonfiano il petto:
da quel giorno si mise in viaggio con Dio.
1824