13 Luglio 2022

Santo sepolcro: voglio morire di fianco a Sylvia Plath

Heptonstall è un ditale di Medioevo tra i boschi, di argentina bellezza, nel West Yorkshire, UK. I campi sembrano un oceano verde, le nuvole gli esagrammi dell’I-Ching; Heptonstall è citata nei registri reali dal 1274, ha 1470 abitanti e case dalle finestre vaste, virtù degli antichi centri tessili. La chiesa medioevale di Heptonstall, intitolata a Thomas Beckett, è crollata quasi del tutto, a metà Ottocento, in seguito a una titanica tempesta: nel piccolo cimitero adiacente è sepolta Sylvia Plath, la grande poetessa. Sylvia Plath si è uccisa l’11 febbraio del 1963, aveva trent’anni, mettendo la testa nel forno a gas, dopo aver preparato la colazione ai figli, Frieda e Nicholas. Nicholas aveva compiuto un anno il mese prima; Sylvia si uccide in un appartamento nel distretto di Londra, al 23 di Fitzroy Road, a Primrose Hill, in una casa dove aveva abitato William Butler Yeats. È strano come i morti condizionino le nostre vite: Amelia Rosselli si uccide, a Roma, abitava in via Corallo, lo stesso giorno di Sylvia Plath, 33 anni dopo. “Tutto è sterile. Io sono parte delle ceneri del mondo, qualcosa da cui niente può germogliare, niente può fiorire né portare frutto”, scrive la Plath nei suoi Diari, pieni di abbacinanti confessioni – eppure, è proprio la cenere quel bacio grigio che tiene assieme i vivi e i morti, la vanità e il valore.

Visto che il marito di Sylvia Plath, il poeta Ted Hughes, è nato nel borgo vicino, Mytholmroyd, lei è sepolta a Heptonstall. La lapide è semplice, nuda, e vi è inciso il nome completo della poetessa: “Sylvia Plath Hughes”. I morti, appunto – o ciò che fraintendiamo della loro evanescenza, editti torbidi che si annunciano di notte – giustificano o tormentano i vivi: il cognome “Hughes” è stato, negli anni, scavato, sarchiato, vandalizzato, da chi pensa che il marito, Ted, sia colpevole del suicidio di Sylvia. Una vendetta irrichiesta. Sotto il nome della Plath c’è un’iscrizione: Even amidst fierce flames the golden lotus can be planted. Significa, grosso modo, “anche tra le fiamme ardenti il loto d’oro può essere piantato”. Se il golden lotus è lei, SP, bisognerebbe capire chi simboleggiano le fierce flames. Il verso, ha detto Ted Hughes, proviene dalla Bhagavadgita, ma nel sommo testo indù non c’è; invece, appare nello Scimmiotto di Wu Ch’eng-en, romanzo del XVI secolo, un classico della letteratura cinese. Dimenticanza borgesiana o tentativo di depistare la caccia dei morti? Ted Hughes baloccava con gli arcani, conosceva l’arte celeste degli oroscopi, era edotto nella consultazione dei tarocchi e sapeva il valore dei miti: forse ha pensato di fuggire dalle spire nottambule della moglie; forse voleva confondere chi investiga tra le macerie di una vita privata (che ha sempre il proprio incunabolo di incubi).

Lo scrittore olandese Cees Nooteboom è un pioniere del viaggio tra le tombe dei grandi. Il suo libro, Tumbas (2007; edito in Italia nel 2015 da Iperborea), si inaugura all’abbrivio di un paradosso:

“Chi giace nella tomba di un poeta? In ogni caso, non il poeta, questo è sicuro. Il poeta è morto, altrimenti non avrebbe una tomba. Ma chi è morto non si trova più da nessuna parte, nemmeno nella propria tomba. Le tombe sono ambigue: custodiscono qualcosa e non custodiscono niente”.

Forse la lapide è parte dell’opera del poeta: non è la poesia estrema – tutte le poesie lo sono – ma una delle tante. Forse si viene al mondo per dialogare con i morti, sconosciuti. Il viaggio di Nooteboom supera tempi e continenti: nel suo libro c’è la tomba di Murasaki Shikibu, la gran dama della letteratura giapponese, vissuta intorno all’anno 1000, c’è quella di John Keats a Roma e quella di Iosif Brodskij a Venezia, in San Michele; ci sono le tombe statuarie e gemelle di Goethe e Schiller, la lapide gotico-kitsch di Wallace Stevens, su quella di Elias Canetti è riprodotta la sua firma, aggraziata. Nel regesto di Nooteboom non c’è la tomba di Sylvia Plath; Ted Hughes, Poet Laureate dal 1984, amico intimo di Carlo, principe del Galles, è morto nel 1998, e si è fatto cremare, la sua ultima fuga; un memoriale appare nel “Poet’s Corner” dell’Abbazia di Westminster, tra William Blake e Coleridge, T.S. Eliot, W.H. Auden, Dylan Thomas, Shakespeare. Una pietra a Dartmoor, sulle rive del Taw, ricorda il passaggio del poeta su questa terra: è sepolta dall’erba, quasi invisibile. Una leggenda narra che a Dartmoor, nel Devon, si aggiri una pantera, un “grande felino inglese” – o il suo idolo. In un’ombra simile, è probabile, si è incarnato Ted Hughes.

Si può dire che la poesia moderna, in Italia, nasca surfando tra le lapidi, con il poema di Ugo Foscolo, Dei sepolcri; l’arcana tradizione di porre verbi sulle tombe la ha ripresa, di recente, Alessandro Rivali che nel libro La terra di Caino (Mondadori, 2021) s’inoltra nel cimitero Monumentale di Milano e a Staglieno, a Genova, raspando memorie dal marmo, sangue da cunicoli in pietra (“una terra senza paragoni,/ di colline e radure tra le arche,/ di contrafforti, gradoni e boschi.// Incontrerai capogiri di storie:/ le parabole dei desideri,/ gli amori senza rimedio”). Andare per tombe non è esercizio santo, ma apoteosi dell’avidità: si cammina, tra pietre ignote, a immaginare esistenze inedite, livide, a scarnificare l’ossario della memoria, a mordere ricordi decomposti. A ricrearli, con alchimia fittizia. Questo fa lo scrittore, per cui i nomi e le cifre sulle tombe sono le serafiche serrature di un altro mondo; i cimiteri, questa impazienza di risorgere, questa condanna a essere crocefissi in un’unica identità quando potrebbero, i morti, averne mille, ulteriori, e divergere in pioggia, diventare nebbia, lombrico, rospo, fiore. Più che andare sulla tomba dei cari – che ogni giorno gracidano nella nostra mente, indelebili – e tormentarli coi nostri rimpianti, frequentiamo le tombe degli ignoti, a cui dedicare vite fasulle, che rivivranno, rinfrancati, nell’aldilà.  

Qualche tempo fa il “Daily Mail” ha dato una notizia di cimiteriale potenza. Una signora di 44 anni, residente nell’Oxfordshire, a duecento miglia di distanza da Heptonstall, ha chiesto di essere sepolta nel cimitero dove giace Sylvia Plath. Il Burial Act del 1853 prevede una richiesta al tribunale ecclesiastico per essere sepolti in un cimitero che non appartiene alla propria contea. Così la signora ha fatto.

“Alcuni anni fa ho fatto visita con mia madre alla tomba della dolente poetessa Sylvia Plath, moglie del poeta laureato Ted Hughes, a Heptonstall. Benché non siamo restati lì a lungo, perché l’autobus doveva ripartire, ho avvertito una particolare spiritualità in quel luogo. I miei fratelli sanno quanto amo la letteratura e capiranno il mio desiderio di essere sepolta in quel cimitero”.

Il reverendo Karen Marshall, di fronte a questa richiesta – di una donna, leggiamo tra le righe, dal carisma anonimo, che sogna la poesia nei recessi della provincia inglese, in un crudele candore – non ha mosso obiezioni, riconoscendo che l’amore per la letteratura è cosa che varca le ragioni affettive dei vivi. Probabilmente, la signora riuscirà a coronare il suo sogno, una specie di sposalizio mortale con la divina Sylvia. D’altronde, il Cancelliere della diocesi di Leeds, Mark Hill, che domina il West Yorkshire, ha ammesso che quel cimitero può ospitare ancora 450 corpi: una intera falange di fan della Plath. Chissà se la prossimità tra le tombe coincide con una unione nell’aldilà o se questi pensieri sono futili evidenze umane, proprie di chi enumera, classifica, organizza perfino la morte. Forse c’è qualcosa di aggressivo, in questa richiesta, forse vorremmo morire battendo le mani.

In Tibet è praticata la “sepoltura celeste”: il maestro buddhista scuoia il cadavere all’aperto, in una pianura ruvida, ricopre le viscere di ginepro e canti rituali. Le ossa sono in esposizione, come un grido. Il corpo squartato e i canti del sacerdote invitano al pasto gli avvoltoi. Il corpo, così, è ostia per gli uccelli, ospizio di fame: e c’è giustizia, in questo.

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