Un giorno d’inverno del 1956 una giovane americana che studia all’Università di Cambridge grazie a una borsa di studio si sveglia con i postumi della sbornia. Prende il suo diario e scrive:
26 febbraio, domenica. Breve appunto dopo grande orgia. È una mattina grigia, piuttosto sobria, dagli occhi puritani freddi e bianchi; puntati su di me. Ieri notte mi sono ubriacata, tanto tanto beatamente, e adesso sono a pezzi, dopo sei ore di sonno al caldo come un bambino, con Racine da leggere e neanche un po’ d’energia per battere a macchina; mi sta venendo il delirium tremens. O roba del genere.
La notte prima aveva partecipato alla festa di presentazione di una rivista letteraria. La studentessa la racconta così:
Il tempo sincopato di un piano, e oh, quanto faceva bohémien, con i ragazzi in dolcevita e le ragazze con l’ombretto azzurro o tutte eleganti in nero […]. Arrivati a questo punto avevo versato un bicchiere, un po’ in bocca, un po’ sulle mani e per terra, e il jazz cominciava a prendermi […]. Andavo sbrodolandomi in giro, a singhiozzi, farfugliando. Poi è successo il peggio: quell’atletico ragazzone bruno, l’unico enorme abbastanza per me, che andava in giro a piegarsi in avanti sulle ragazze e il cui nome avevo chiesto appena messo piede nella stanza, ma nessuno me lo aveva detto, si è avvicinato e mi ha guardato fisso negli occhi ed era Ted Hughes.
L’incontro tra Ted Hughes e Sylvia Plath, si tratta proprio di lei, durante una festa studentesca a Cambridge, il 25 febbraio 1956, e che conosciamo grazie al diario di lei, è ormai famoso. Da quell’incontro nasce una delle coppie più esplosive della letteratura del XX secolo. Ma in quel momento nessuno bada a loro: sono due sconosciuti. Nel 1956 Sylvia è semplicemente una studentessa tra le tante. È vero che chiama attenzione: è americana, alta, bionda, bella, molto brillante e una delle poche donne che studiano all’Università di Cambridge, dove da poco vengono ammesse anche le donne e dove la proporzione è ancora bassa, una su dieci uomini.
Sylvia soffre di crisi depressive, è uscita da poco da un ospedale psichiatrico ma questo, a Cambridge, non lo sa nessuno. Sylvia ha avuto la prima crisi in occasione della morte del padre, aveva otto anni. Gli voleva molto bene; sentiva di essere la sua prediletta. “Una mattina lei è entrata con gli occhi… pieni di lacrime e mi ha detto che se n’era andato per sempre. La odio per questo”, ricorda Sylvia nel suo diario. Otto Plath, nato in Germania, era docente di biologia presso l’Università di Boston e si era sposato con una sua alunna, Aurelia Schober, venti anni più giovane di lui. Sylvia non può portare il lutto perché, data la sua età, non le viene permesso, e nemmeno a suo fratello – tre anni minore di lei – di partecipare alla sepoltura. Per la madre, invece, la scomparsa di quel marito tirannico è una liberazione, sebbene sia anche una condanna alla povertà.
La vita era un inferno. Le toccava lavorare. Lavorare e fare la madre, anche, uomo e donna in un’unica, dolce massa ulcerosa. Risparmiava. Tirava la cinghia. Metteva sempre lo stesso cappotto. Ma i bambini avevano divise scolastiche nuove e le scarpe del numero giusto. Lezioni di piano, lezioni di viola, lezioni di corno, facevano gli scout. Andavano ai campi estivi e a scuola di vela.
Non è facile per la signora Plath trovare un impiego, dopo aver trascorso tanti anni a casa, dedicandosi a pulire, cucinare, accudire i figli e aiutare il marito elaborando schede di libri e scrivendogli a macchina i manoscritti dei suoi libri di entomologia. Trova lavoro come insegnante ed è costretta a tornare dai genitori in compagnia di Sylvia e di suo fratello Warren. Quello che Sylvia prova verso la madre lo spiegherà lei stessa nel diario, anni dopo, appena uscita da una seduta di psicoterapia. “Mi sento una persona nuova. [La dottoressa mi ha detto]: «Ti autorizzo a odiare tua madre»”.
Se una buona madre è una madre abnegata, la signora Plath è la migliore madre del mondo. Non ha una vita propria. Vive per i figli. Quando questi le chiedono di risposarsi, lei accetta, addirittura tramite un documento scritto. Lavora senza sosta… Sylvia dovrebbe esserne grata. Invece, come abbiamo visto, la odia. E la odia, paradossalmente, per i suoi sacrifici perché questo presuppone che lei, Sylvia, debba avere questo debito infinito che non potrà mai saldare, che la farà sentire sempre colpevole e che rispecchia quello che vuol dire essere donna, e che quello è il destino che aspetta anche lei: vivere sottomessa, al servizio altrui, rinunciando ai suoi desideri; diventare la domestica e la segretaria del marito prima e dei figli poi, non godere…
Sylvia studia furiosamente, per andare avanti, per alimentare la sua carriera da professionista e avere successo, per non pesare sulla famiglia, per non essere come sua madre. Vuole diventare scrittrice. Scrittrice…? Nessuno, attorno a lei, la prende sul serio. L’ambizione professionale di una donna sembra un sogno ingenuo che può durare soltanto fino al matrimonio. Gli uomini le profetizzano che quando avrà figli non sentirà più il bisogno di scrivere e sua madre, previdente, insiste affinché la figlia impari tachigrafia e meccanografia perché, giunto il momento della verità, possa lavorare almeno come segretaria. Ma Sylvia non si lascia intimorire e scrive. Invia racconti, articoli, poesie e servizi alle sue riviste preferite. E qualcuno glieli pubblica. Guadagna un po’ di soldi, riceve delle borse di studio; nel 1953 vince un concorso il cui premio consiste nel trascorrere un mese a New York e lavorare come “redattrice ospite” presso una rivista di moda.
A 21 anni sembra aver iniziato col piede giusto, tutto le sorride. Quando tornerà a Boston si concentrerà su quello che le interessa veramente: la scrittura. Ha chiesto di partecipare a un prestigioso corso di creazione letteraria e non ha dubbi sul fatto che la accetteranno… Ma il mese trascorso a New York è deludente: il mondo frivolo dei vestiti, delle feste e delle foto di moda in cui si è introdotta non fa per lei. Il corso di creazione letteraria è quello che le interessa. Quando torna a casa, tuttavia, l’attende una vera e propria doccia fredda: la sua richiesta è stata respinta. Le crolla il mondo addosso. Qualche giorno dopo Sylvia lascia un biglietto in cucina: dice a sua madre che è andata a fare un giro, che non sa quando tornerà, che non la cerchi… Questo, ovviamente, fa scattare l’allarme: la madre di Sylvia e suo fratello si mettono a cercarla. Trascorrono le ore, non la trovano, mobilitano i vicini, trascorre un giorno, due, il quotidiano locale divulga la notizia… Finché il fratello non sente dei gemiti provenienti dal ripostiglio e Sylvia è proprio lì, priva di sensi: ha preso alcol e barbiturici. Una lavanda gastrica riesce a salvarla.
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Quanto somiglia l’amore alla guerra, a volte. Ma Sylvia e Ted, in quel momento, vedono solo l’amore. O per meglio dire, il desiderio. Sono abbagliati l’uno dall’altro: l’attrazione erotica è così forte tra i due quanto l’affinità intellettuale. E caratteriale, come scopriranno mano a mano: entrambi sono ambiziosi, laboriosi, vulcanici.
Ted è inglese, quasi coetaneo di Sylvia: è nato nel 1930 nello Yorkshire, viene da una famiglia modesta. Suo padre fa il falegname; sua madre la casalinga, anche se è una grande lettrice di poesia. Grazie a una piccola eredità la famiglia può acquistare un negozio che vende tabacchi e giornali, tra cui anche riviste di caccia e pesca. Il giovane Ted, che ha la passione di andare a caccia col fratello maggiore, si appassiona anche alla lettura. A sedici anni ha già deciso cosa farà della sua vita: lo scrittore. Intelligente e creativo, riesce ad accedere alla prestigiosa Università di Cambridge… ma stenta a integrarsi. Non si sente a suo agio nella classe alta, né tra gli intellettuali; preferisce la natura e la vita da bohémien. Nel 1956 non abita più a Cambridge ma a Londra, dove fa qualche lavoretto per mantenersi mentre lavora al suo primo libro di poesie. Per questo motivo Sylvia non l’ha ancora visto in facoltà: lui ci va molto di rado, qualche fine settimana, come adesso. Il colpo di fulmine è immediato.
Un giorno, quando mi alzerò barcollando per cucinare le uova e dare il latte al bambino e preparare la cena per gli amici di mio marito, prenderò Bergson, o Kafka o Joyce e mi struggerò per le menti che supereranno la mia surclassandola. […] Perché Virginia Woolf si è suicidata? si chiede nel suo diario la Plath. E tutte quelle donne straordinarie? Erano nevrotiche? Scrivevano per sublimare (oh, l’orrenda parola) i loro desideri profondi, basilari?
Ai primi di luglio, poco prima di andare in viaggio, Sylvia va dal ginecologo e … sorpresa! Ecco cosa scrive nel suo diario: Sabato, 20 giugno. Tutto è sterile. Io sono parte delle ceneri del mondo, qualcosa da cui niente può germogliare, niente può fiorire né portare frutto. Per esprimermi nello squisito gergo medico del ventesimo secolo, non riesco a ovulare. O non ovulo e basta. Niente questo mese, né quello passato. Per dieci anni ho avuto i crampi inutilmente. Ho lavorato, versato sangue, sbattuto la testa contro il muro per arrivare dove sono adesso. Con l’unico uomo al mondo che mi va a pennello, l’unico che potessi amare […]. Voglio una casa pieni di bambini nostri, animali, fiori, verdura e frutti. Voglio essere una Madre Terra nel senso più ricco e profondo. Ho smesso di fare l’intellettuale, la donna in carriera: è tutta cenere per me. E cosa mi ritrovo dentro? Cenere. Cenere su cenere.
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L’inverno 1962-1963 è uno dei più freddi del secolo. Le tubature sono gelate. Frieda e Nicholas, due anni lei e poco meno di un anno lui, si ammalano molto spesso. La casa non ha il telefono. Sylvia non tollera la solitudine, la sensazione di abbandono, la responsabilità tutta sua sui bambini. Le manca il suo compagno, le manca l’amore, le manca Ted. No vuole divorziare. Disperata, lo chiama per telefono, molto spesso. Per fare questo prima deve trovare qualcuno con cui lasciare i bambini, poi scendere in strada con temperature sotto lo zero, fare la fila di fronte alla cabina, e poi comporre il numero e aspettare, aspettare, aspettare … senza che Ted, che è in compagnia di una delle sue svariate amanti, le risponda.
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Perché si è suicidata Sylvia Plath? … Alcune femministe hanno accusato Ted: più di una volta, sgattaiolando di notte nel cimitero di Heptonstall, nello Yorkshire, dove è sepolta, hanno sfigurato la lapide che ha fatto installare Ted nella sua tomba e nella quale si poteva leggere il cognome di lui accanto a quello di lei. Lo stesso Ted sembra aver accettato la sua colpa quando scrive: “Non è dato a tutti gli uomini uccidere un genio”, anche se questa strana frase sembra esprimere più orgoglio che pentimento.
Laura Freixas