16 Febbraio 2023

“Un amore mi rende maniaco”. Le poesie erotiche del Sesto Dalai Lama, il folle

In Tibet non si muore mai. Il corpo levita per contemplazione: non c’è distanza tra il ripetuto pregare che disfa l’orante e la pietosa azione dell’avvoltoio che ne smembra muscoli e nervi, fino allo scintillio osseo. Il quinto Dalai Lama, Ngawang Lozang Gyatso, fu un accorto capo di Stato: la sapienza mistica si commisurava alla strategia politica. Riuscì a destreggiarsi tra l’impero di Cina e quello mongolo: un cobra tra la tigre e il lupo. Consegnò al Tibet vasta autonomia territoriale e indipendenza, dominò con la ferma generosità di un satrapo. Morì – pare: dacché un lama non muore mai – nel 1682; i suoi tennero nascosta la morte per un decennio: nel frattempo, terminarono di costruire il Potala, la dimora del Dalai Lama a Lhasa.

Il capriccio del fato – o l’imperscrutabile decreto divino – preferì che a un “maestro oceanico” dalle capacità machiavelliche, un accorto politico, seguisse un folle. Nato in Arunachal Pradesh, tra le spire di una famiglia dell’aristocrazia teocratica, Tsangyang Gyatso fu indicato come la reincarnazione del “Grande Quinto” quando era un fanciullo. Fin da subito, disattese i segni: allo studio preferiva l’arte del tiro con l’arco e lunghe cavalcati nelle valli apriche, alla concentrazione nei misteri e all’educazione teo-politica sostituiva il brigantaggio nei bordelli, la frequentazione di innumeri amanti. Nel 1702, a cinque anni dall’incoronazione come massima autorità religiosa, sciolse i voti: caso unico nella storia della sequela spirituale, il Sesto Dalai Lama preferì la vita laica. Nonostante la rottura dei patti, nessuno mise in dubbio l’autorevolezza del santo uomo: il popolo lo adorava e lui fece la parte del ‘folle di dio’.

Scriveva poesie, che passavano di bocca in bocca conferendogli interminabile fama. Il tema prediletto da Tsangyang Gyatso è l’amore, l’innamoramento, il bracconaggio sentimentale; alcuni dubitano che sia lui l’autentico autore di quei versi, a tratti licenziosi. I Canti d’amore del Sesto Dalai Lama sono stati tradotti da Erberto F. Lo Bue per Sellerio, nel 1993, ma il libro, un tesoro, risulta ormai “non disponibile”; in Francia alcuni testi sono stati tradotti da Alexandra David-Neel: nella nostra scelta facciamo riferimento alle versioni di Paul Williams (Songs of Love, Poems of Sadness: the Erotic Verse of the Sixth Salai Lama, 2004) e di Kelsang Dhondup (Songs of the Sixth Dalai Lama, 1981).

Pare che dietro la morte – apparente – del Sesto Dalai Lama ci sia una cospirazione ordita dai vertici della teocrazia tibetana: lo Stato non poteva essere lasciato nelle mani di un folle, di un amante eremita. Secondo le cronache ufficiali, Tsangyang Gyatso muore nel 1706, a ventiquattro anni, mentre è in viaggio verso Pechino, in missione diplomatica presso l’imperatore cinese. Forse per malattia, molto probabilmente per azione di un sicario. Fu sostituito da Kelzang Gyatso, incoronato nel 1720: un Dalai Lama erudito, recluso nello studio, che lasciò, di fatto, l’arte politica al reggente; l’ingerenza dell’impero cinese assunse, così, caratteri pressoché definitivi.

Tuttavia, come si è detto, in Tibet non si muore mai. Secondo i discepoli più stretti, Tsangyang Gyatso riesce a fuggire dall’assalto ordito ai suoi danni, cominciando una vita di penitenza e di eremitaggio. Durante questo percorso, di lancinante solitudine e dedizione nelle pratiche spirituali, Tsangyang Gyatso ottiene l’illuminazione del santo:

“dapprima un pellegrino goffo e inesperto, percorre migliaia di chilometri e visita numerosi luoghi sacri, grotte e monasteri di varie scuole spirituali; come penitente diventa praticante dello yoga più esoterico… Infine diventa un maestro spirituale illustre, riconosciuto come tale e venerato dai tanti benefattori, nobili e devoti, delle tribù mongole dell’area di Alashan dove, alla fine di tanto peregrinare, egli si stabilirà”.

Secondo La biografia segreta del Sesto Dalai Lama, compilata da un suo stretto discepolo, Ngawang Lhundrub Dargye (e tradotta per cura di Enrica Rispoli da Luni Editrice nel 1999), Tsangyang Gyatso si mostra, ora, come un lama riccamente vestito, in groppa a un destriero, a diffondere i suoi insegnamenti in Mongolia. Morirà autenticamente nel 1746, nel monastero di Yarlung, circondato dai suoi discepoli. Morire, cioè: vivere.

La biografia segreta del Sesto Dalai Lama incarna l’insegnamento mistico nell’esoscheletro della fiaba. Tsangyang Gyatso denuncia subito il suo scopo:

“Fine dell’altezza è la bassezza, fine dell’accumulazione è la spartizione, fine del raccogliere è l’esaurire… Sarò asceta e per purificare tutti i miei peccati e le colpe voglio fare pellegrinaggio e praticare lo stato puro della meditazione”.

Il suo cammino è ascesi tramite il martirio, la sua biografia una specie di romanzo fantastico di formazione. Così, il Dalai Lama creduto morto attraversa il male, la corruzione del corpo – “Il corpo mi si riempì di pustole e si gonfiò… Non avevo da mangiare né da bere, così ero tormentato dalla fame e dalla sete” –, verifica il grado zero di sé. Quel corpo che tanto aveva amato, ora dipende dalla bontà o dalla crudeltà di chi incontra: è irriconoscibile. I sortilegi – e i demoni – sono dappertutto: ospite in un villaggio, tra i rilievi montuosi del Tibet, il santo pranza con “un uomo senza testa… quando gli si era formata una malattia sul collo gli era stato tagliato il capo: erano passati più di tre anni e non era ancora morto”; marciando su vasti ghiacciai, vede il serafico profilo di “un leone dal pelo turchino”. In una pianura desolata, astrale, astratta, prossimo all’illuminazione, Tsangyang Gyatso affronta “un grande elefante bianco”, con sei zanne, meraviglioso: “dal centro del dorso partiva un arcobaleno di cinque colori che si ergeva nello spazio del cielo”. In “questo tempo di degenerazione”, Tsangyang Gyatso diventa maestro dell’“impareggiabile compassione”.

La vera vita, forse, è quella notturna, quella che per gli altri è morte: svestendosi dei paramenti sacri e degli ornamenti del potere politico, preferendo l’eremo allo studio, il vagabondaggio allo Stato, il folle Tsangyang Gyatso scopre la santità del cuore.

**

Canti d’amore e di dolore del Sesto Dalai Lama

Sopra le montagne orientali:
il volto della luna che sorride –
nella mia mente prende forma
il volto sorridente della mia amata.

*

Se solo potessi sposare
la donna che amo:
gioia della più bella gemma
tratta dalle profondità dell’oceano.

*

Un amore, di sfuggita:
ragazza dalle braccia fragranti
come un secchio di turchesi
gettato nel canale.

*

Signora, figlia prediletta
di un Potente: ho visto
una pesca tanto rara
svettare sui più alti rami.

*

Un amore mi rende maniaco:
il sonno cola sul fianco della notte.
Di giorno non posso toccarla:
unica confidente, la frustrazione.

*

Passato è il tempo della fioritura
l’ape turchese non si lamenta.
La fortuna d’amore è sfiorita:
imparerò a non lamentarmi.

*

L’urlo dell’oca selvatica sorvola
le paludi: pensavo di riposarmi
ma il lago è ghiacciato
e la speranza è migrata altrove.

*

La barca non ha emozioni
eppure la sua testa di bue
si volta indietro: la mia amata,
invece, non mi guarda mai.

*

La ragazza del mercato intreccia
qualche svogliata promessa.
Da soli il mondo è noioso:
mi metterò ad annodare serpi.

*

Lettere nere su un foglio:
svaniscono come pioggia.
I pensieri mai scritti, benché
voglia cancellarli, non svaniscono.

*

Cerco l’amore al tramonto:
una nevicata imbianca l’alba.
I segreti non hanno più senso:
i miei passi li svela la neve.

*

Le ho detto addio.
Ci rivedremo presto, ha risposto.
Mi mancherai, le dico.
Non ne avremo il tempo, dice.

*

Maldicenze sul mio conto:
riconosco i miei peccati
mentre danzo, fino alla
porta del bordello.

*

Con abilità puoi catturare
un cavallo selvaggio tra le vette:
neanche gli incantesimi trattengono
un amante ribelle.

*

Dirupo e tempesta si vendicano
della crudeltà dell’avvoltoio.
Quanto a me: mi divora soltanto
la disonestà di chi trama alle mie spalle.

*

Una tigre si addomestica
distillando la carne:
donna dalla vasta criniera
diventi sempre più feroce.

*

Osservando le stelle capisco
cosa accadrà su questa terra.
Benché ne studi di continuo il corpo
non riesco a carpire il suo umore.  

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