01 Giugno 2020

La storia di William Ernest Henley, il poeta che scrisse “Invictus” (ricordate il film di Clint Eastwood?) e fu il modello per il temibile Long John Silver (la figlia, invece, è la Wendy di Peter Pan)

Fece, sostanzialmente, due cose – facendone, tuttavia, tantissime. La prima fu una poesia, immortale – la seconda… permise l’immortalità a un caro amico. Nato a Gloucester nel 1849, mentre agosto marciva, William Ernest Henley fu allievo del grande T.E. Brown. Costui stimolò il ragazzo – robusto di corpo e di cervello – definendolo “una rivelazione, un uomo di genio, il primo che abbia mai incontrato”.

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Il genio di Henley – autore di una manciata di raccolte di versi che non troverete nel nostro belpaese – fu irrobustito dal dolore. Atroce. Tubercolotico, a vent’anni gli segarono le gambe. I continui pellegrinaggi in ospedale non gli impedirono di diventare un giornalista autorevole, un critico rispettato (direi: spietato), un poeta di talento. In molti lo temevano. Wilfrid Scawen Blunt, poeta estratto dal cinismo e fanatico di cavalli d’Arabia, scrisse, “è orrendo come un nano, ha il corpo enorme, la testa gigantesca, gli arti inferiori minimi – ha la malignità del nano, l’attitudine a ribellarsi contro tutti, è brutale, coraggioso, sprezzante”. Con l’amico Robert Louis Stevenson scrisse tre pezzi teatrali, Beau Austin, Deacon Brodie, Admiral Guinea, prodotti a Edimburgo e andati in scena – con non troppo successo, a dire il vero – a Londra, dal 1884.

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La seconda cosa che ha fatto Henley, dotato, per altro, di barba romanzesca, è stata quella di offrire il busto a uno dei personaggi più celebri della letteratura di ogni tempo. “Lo devo ammettere: fu la vista della tua mutevole forza, della tua poderosa maestria, che mi ha dato l’idea di forgiare Long John Silver… l’uomo mutilato, temuto da tutti, è tratto da te”, gli scrisse Stevenson, nel 1883, riferendosi, ovviamente, a L’isola del tesoro.

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Stevenson andò a trovarlo spesso negli anni in cui il poeta fu costretto al ricovero, tra il 1873 e il 1875. Si stimavano – poi Henley, carattere prono all’ira, mandò a quel paese RLS accusandolo di plagio, ma questa è un’altra storia. In ospedale Henley scrisse la raccolta In Hospital, appunto, dove balugina la cosa più bella che ha fatto. La poesia Invictus, inno all’eroismo silente, alla capacità di sostenere ogni mutilazione, un manifesto, citata da Winston Churchill nel discorso ai Comuni il 9 settembre del 1941, letta come un monito da Nelson Mandela, ridotto in carcere. Quella poesia è evocata, fin dal titolo, nel film oleografico di Clint Eastwood, dedicato a Mandela, Invictus (2009), con Morgan Freeman e Matt Damon.

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Henley morì dopo essere caduto da una carrozza del treno. La tubercolosi ricominciò a fiammare, divorando il poeta: era l’11 luglio del 1903. La sorte, canina, gli aveva portato via la figlia dieci anni prima, nel 1894. Si chiamava Margaret, svanì a cinque anni, per causa di una meningite grave. J.M. Barrie l’aveva conosciuta: lei lo chiamava fwendy, lui la eternò come Wendy nel testo a cui stava lavorando, un pezzo teatrale che s’intitolava “Peter Pan o, il ragazzo che non voleva crescere”. (d.b.)

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Questo è il testo di “Invictus”:

Dal profondo della notte che mi avvolge,
Nera come un pozzo che va da polo a polo,
Ringrazio gli dei qualunque essi siano
Per la mia indomabile anima.
Nella stretta morsa delle avversità
Non mi sono tirato indietro né ho gridato.
Sotto i colpi d’ascia della sorte
Il mio capo è sanguinante, ma indomito.
Oltre questo luogo di collera e lacrime
Incombe solo l’orrore delle ombre.
Eppure la minaccia degli anni
Mi trova, e mi troverà, senza paura.
Non importa quanto stretto sia il passaggio,
Quanto piena di castighi la vita,
Io sono il padrone del mio destino:
Io sono il capitano della mia anima.

William Ernest Henley

Gruppo MAGOG