26 Febbraio 2020

Mario Luzi, il poeta irraggiungibile. (E sull’incontro con Anna Achmatova e Cristina Campo)

Controversia, cioè in contrasto al verso – andare contro. Nel contrasto s’inaugura il fuoco. Lì, tra i controversi, nella ramiglia del fuoco, nella masnada di fiamme, c’è il poeta.

La zattera circassa sul far della notte
risale il fiume Koura con fuochi sotto gli spiedi
con suoni e vini a bordo in memoria di Rustaveli
il poeta dell’Uomo dalla pelle di leopardo
e suo, di lei regina di queste rupi
ma dietro quel remoto appuntamento del potere e dell’arte
due vite disfatte nella sostanza, disfatte
dal ricordo non meno che dalla dimenticanza…

Ancora la scrittura letta all’inverso
scambiando la fine per l’incipit
ponendo nel passato l’origine
che incuba nell’aspettazione dei tempi…

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Graffito dell’eterna zarina s’intitola la poesia da cui è scalfito il brano, sopra; la raccolta, Al fuoco della controversia, era il 1978, e lui, Mario Luzi, ne diceva così: “Il passato è inconoscibile come il presente e come il futuro, nel senso che l’operazione della memoria e la sua registrazione non danno nessuna garanzia della realtà. Insomma, quella che è stata la vita non è catturabile da nulla”. Nel ‘Meridiano’ che raduna la sua Opera poetica (Mondadori, 1998), Luzi raccoglie quattro libri – Dal fondo delle campagne, Nel magma, Su fondamenti invisibili, Al fuoco della controversia – sotto un unico titolo, “Nell’opera del mondo”. Il mondo, quindi, è fondo e fuoco, è magma e controversia, è scavo e scatto negli invisibili. Quelle raccolte di Luzi – lo dico, ora, approfittando dei 15 anni dalla morte – elaborate complessivamente in 15 anni, sono il diamante oscuro, l’opera somma, tra le grandi del secolo. Voglio dire: Mario Luzi andrebbe pubblicato di continuo, come Seamus Heaney e Iosif Brodskij, per nulla intimidito da loro, anzi, come Boris Pasternak e Wallace Stevens, e delle sue poesie andrebbero adornate le nostre metropoli.

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Luzi è ieratico come Simone Martini, ha filiazioni neoplatoniche, ma possiede l’intransigenza di chi maneggia la terracotta. Nel magma, la raccolta edita da Scheiwiller nel 1963, poi magmaticamente accresciuta e concepita, fino alla Garzanti del 1966, mi pare l’occhio da vulcano della poesia italiana recente. Da lì esce l’angelo e il mostro, l’oro e la polvere, la bava e la bravura mistica. Il dialogo delle cose ultime – cioè le prime, le carnali – fa congiura in una poesia uscita dal XIII dell’Inferno, legno che soffia, testimonianza in latrati.

“Credi, credi di conoscermi” recita lei quasi parlando al vento
e osserva controsole la polvere
strisciare sullo stradone deserto.
“Appartieni troppo a te stesso” insiste ad accusarmi
prolungando la pena dell’indugio
quella parte di lei che ancora combatte
avvilita e altera nella macchina ferma.
Ma le suona falso l’argomento
e ne scorgo sul cristallo la larva
che spenge d’un sorriso
dimesso le parole appena dette.
“Oh di questo hai anche troppo sofferto” aggiunge poi quasi portando fiori
sul luogo, un’orticaia, dove mi ha crocifisso.

Michelangelo Antonioni, Bacon, lo sfascio di Marlon Brando, una particola di pietà; tutto nasce da questo magma: la poesia dialogata, confessionale, mistica, devastante. Nessun poeta è dotato della facilità suprema di Luzi: parla poetando con un respiro in endecasillabi e labbra dantesche.

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Nel magma è onorato con l’Etna-Taormina, nel dicembre del 1964. Insieme a Mario Luzi, c’è Anna Achmatova. “Anna Achmatova non pronunciò una sola parola, partecipò con il suo silenzio alla sua celebrazione e alla mia. La sua figura matronale vestita di nero era assorta in sé, immobile, ma non assente. Quel mutismo trascendeva la sua persona e arrivava come il grido pietrificato di una storia tragica: la sua e quella del suo popolo e di tutta l’umanità straziata dall’arbitrio e dalla violenza di un’epoca fatale. Al termine mi avvicinai per significarle la mia ammirazione che risaliva ai tempi dell’adolescenza: e l’emozione di averla incontrata… Lei ebbe negli occhi la luce di un sorriso, ma da una grande lontananza”.

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Nel magma non piaceva a Cristina Campo. “Della mia poesia amava particolarmente il libro Primizie del deserto. Ci fu un raffreddamento quando uscì Nel magma. Perché lei questo trapasso un po’ drastico non lo capì, si sentì sorpresa, lo prese un po’ come un tradimento. Forse non capiva questa conversione d’avvicinamento verso la prosa”. Aveva conosciuto la Campo nel 1947, lei aveva 24 anni. Conobbe, quello stesso anno, Dylan Thomas, a Firenze, con Stephen Spender (“In una città corrosiva come la nostra, il suo breve mito è rimasto intatto. La sua ubriachezza, la sua riluttanza o impossibilità di parlare non lo diminuivano affatto. Ambedue le cose si fondevano in un’unica impressione di incomunicabilità che, stranamente, eccitava la simpatia e incuteva rispetto”). Due sacralità di gergo contrario, incontra Luzi: l’incanto della Campo e l’ebbrezza di Dylan Thomas; la rinuncia e la dissipazione; la purezza e l’ustione. Contrari che si equivalgono.

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La Campo ama la poesia di Luzi fino ad amare il poeta. “Ho veduto ancora Vittoria… si aggrappa disperatamente alla mia amicizia, che è molta, ma non può purtroppo portarle alcun bene vero”, scrive Luzi e Leone Traverso il 17 marzo 1953. Fa tutto, anche il sangue, ramato, Luzi, raffinato da aureo distacco. La Campo lo ricambia con una poesia, Moriremo lontani, pubblicata nel 1955 su “Paragone” (poi raccolta in Passo d’addio, 1956):

Moriremo lontani. Sarà molto
se poserò la guancia nel tuo palmo
a Capodanno; se nel mio la traccia
contemplerai di un’altra migrazione.

Dell’anima ben poco
sappiamo. Berrà forse dai bacini
delle concave notti senza passi,
poserà sotto aeree piantagioni
germinate dai sassi…

O signore e fratello! ma di noi
sopra una sola teca di cristallo
popoli studiosi scriveranno
forse, tra mille inverni:
«nessun vincolo univa questi morti
nella necropoli deserta».

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Giorgio Caproni scrive a Luzi di Su fondamenti invisibili: “È un libro di grande poesia, se dir grande in poesia è dir qualcosa. È, col Magma, il più grande libro di poesia uscito in Italia nell’ultimo quarantennio. A tanta altezza, chi potrà mai più raggiungerti?”.

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Ogni scrittura, sulla soglia dei versi di Luzi, è bacio becero, è incipriare il volto della tigre – dai versi di Luzi, una giuncaia crudele, occorre farsi mordere, perfino irritare.

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Vedo, ora, una avventura nell’insperato, tra i versi di Luzi. Luzi, che appare poeta dell’austerità, il ‘classico’ contemporaneo, il Senatore a vita, piuttosto, è un avventuriero. Cioè, un poeta che ha cambiato linguaggi, con mania sorprendente – leggete Avvento notturno al fianco di Su fondamenti invisibili al fianco di Dottrina dell’estremo principiante ed è come passare dal guardiano di una basilica al fondatore di un ordine monastico a un monaco che svasa versi nel vento. Soprattutto, ancora, è l’avventuriero dell’avvenire. “Il vero viaggio, quello in cui si verifica la coincidenza fra spostamento della focalità e spostamento del corpo per me rimane l’Asia, tutta l’Asia”, scrive. E scrive quel poemetto, L’India, così perentorio:

“Avere o non avere la sua parte in questa vita”
riemerge in parole il suo pensiero – ma solo un lembo.
E io ne tiro fuori quella frangia
Ansioso mi confidi tutto l’altro,
attento non mi rubi niente
di lei, neppure l’amarezza, ed attendo.
S’interrompe invece. Seguono altre immagini dell’India
e nel loro riverbero le colgo
un sorriso estremo tra di vittima e di bimba
quasi mi lasci quella grazia in pegno
di lei mentre si eclissa nella sua pena
e l’idea di se stessa le muore dentro.

“Perché porti quel giogo, perché non insorgi”
mi trattengo appena dal gridarle,
soffrendo perché soffre, certo,
ma più ancora perché lascia la presa
della mia tenerezza non saziata e piglia il largo piangendo.

*

Mario Luzi fa ancora razzia, col suo profilo da airone e da grifone, da serafino e da belva – lo leggi e ti mozza le dita prima di concepire un verbo. E tu ti guardi, monco, ridi della tua ridicolaggine. La poesia di Luzi è una vertigine in cui lui non precipita: la sfida con un tuffo, di claustrale eleganza. (d.b.)

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