
“L’innocenza è svuotarsi ogni giorno”. Scrivere per Dino Campana, infermo d’assoluto
Poesia
Isabella Bignozzi
In The Clockwork Testament – che è anche una risposta narrativa al delirio di chiacchiere, alla cacofonia di accuse sovrapposte seguite all’uscita di Arancia meccanica – Anthony Burgess omaggia Gerard Manley Hopkins, il poeta più amato. Il protagonista, Enderby – poeta pure lui, inglese, dispeptico, 56 anni –, ha tratto dal Naufragio del Deutschland, il capolavoro di Hopkins, una sceneggiatura. Il regista ne ha fatto scempio, e a Enderby – come a Burgess dopo il film di Kubrick – casca una fama clamorosa, ma obliqua, inattesa, inaccettata. Il romanzo uscì nel 1974, ed è uno di quelli mai tradotti in Italia di Burgess. Non è il più bello, d’altronde.
Qui interessano, però, i rapporti tra Burgess – che fu anche poeta d’occasione, pur modesto – e Hopkins: nel pantheon personale sta al fianco di James Joyce, come scrive in un articolo, qui tradotto parzialmente, uscito sul “New York Times” nel 1989, per i cent’anni dalla nascita del poeta. Amava chi s’impania nel linguaggio, chi sfigura le convenzioni letterarie del proprio tempo, Burgess – anche per questo, pure lui, il rapace Anthony, è lettura che irrita i puritani, i cavalieri della morale comune, del buoncostume editoriale. Musicista di qualche talento, Burgess, nel 1945, compone la Sonata for Violoncello and Piano in G minor, calcando una poesia di Hopkins in epigrafe; nel 1989 adatta per la radio un testo teatrale incompiuto di Hopkins, St Winefred’s Well. Ha tentato – senza riuscirsi – di musicare, per orchestra e voce, The Wreck of the Deutschland. Nel 1988, poco prima del centenario, Nanni Cagnone realizza per Coliseum la sua traduzione del “Deutschland”: l’ha rivista, quest’anno, per Giometti & Antonello. Ha tratti di uncinata vertigine:
Con una misericordia che supera
L’universa acqua, arca
A chi le dà ascolto; con un amore a chi tarda
Che muove più giù di tenebra e morte;
Visitante vena a quei che oltre preghiera, prigioni,
Penitenti animi all’ultimo respiro – il punto estremo
Raggiunto dal nostro gigante, immerso nella passione risorto,
Khristόs del Padre pietoso, ne la tempesta di suoi falcati passi.
Gerard Manley Hopkins, autentica ossessione di Burgess, penetra anche nel fango verbale del Nadsat, la lingua che lo scrittore forgia per Arancia meccanica. Quando Alex dice di sentirsi shagged and fagged and fashed sta recitando – e chi se lo aspettava – una poesia di Hopkins, The Leaden Echo and the Golden Echo:
…O why are we so
haggard at the heart, so care-coiled, care-killed, so fagged,
so fashed, so cogged, so cumbered…
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L’estasi di Gerard Manley Hopkins
27 agosto 1989, “The New York Times”
Sono passato soltanto cent’anni dalla morte di Gerard Manley Hopkins, sessanta da quando l’ho letto la prima volta. Erano i tempi in cui leggere Ulisse significava infrangere la legge. Il modernismo era pericoloso, e uno dei caratteri del modernismo era la stranezza del linguaggio. Hopkins, come James Joyce, usava parole composte e bizzarre come beadbonny e fallowboot-fellow; sembrava vangare le radici germaniche della lingua inglese, disossarle, esporle dalla terra appena arata. Ma come poteva un prete gesuita, morto lo stesso anno di Robert Browning, essere un modernista? Per un incidente del fato, non fu pubblico prima del 1918, unendosi dunque all’onda dell’innovazione letteraria cavalcata da T.S. Eliot, Ezra Pound, Joyce. Robert Bridges, poeta, amico intimo di Hopkins, ha sbagliato, credo, nel ritardare la pubblicazione della sua opera, attendendo la fine della Prima guerra. I giovani poeti morti in battaglia sarebbero stato felici di portare con sé il volumetto delle poesie di Hopkins. Ma il mondo, secondo l’estremamente conservatore, per non dire pavido, Bridges, non era ancora pronto per la granata hopkinsiana: in effetti, perfino l’edizione del ’18 tardò a esaurirsi.
L’ho letto nell’edizione del 1930, di ritorno dalla Francia, studente intimidito che teneva nella cinta dei calzoni l’Ulisse stampato dalla Odyssey Press (due volumi tascabili). Non riesco, ancora oggi, a leggere Hopkins senza provare la medesima audacia che si aveva, a quel tempo, nel leggere l’Ulisse.
Quando Hopkins fu pubblicato per la prima volta, Joyce aveva già forgiato il proprio stile. Non c’è possibilità che il grande gesuita abbia influenzato il grande ex studente dei gesuiti. Quando Hopkins morì, Joyce aveva sette anni. Quando gli è stato chiesto, in tarda età, cosa pensasse di Hopkins, Joyce rispose che gli pareva una specie di Mallarmé inglese: prova certa che non lo ha mai letto. I due autori, pur sulla stessa via, sono totalmente indipendenti l’uno dall’altro. Joyce cercava quei lampi di rivelazione che chiamava “epifanie”; Hopkins parlava di “natura interiore”, di instresses. Entrambi intendevano che l’esperienza ordinaria ha facoltà di prodigio, è pronta a sorprendere tramite improvvise esplosioni inattese, fugaci visioni della verità. L’espressione della verità non poteva essere affidata agli ammorbati, ammuffiti cliché del verso e della prosa convenzionali; il linguaggio doveva trasalire…
Leggere Hopkins nel giusto ritmo turba gli amanti della poesia privi di orecchio musicale. Idealmente, il suo verso dovrebbe essere composto con i tempi musicali: semiminime, crome, biscrome. Hopkins, come Joyce, era musicista. Conosce il luogo in cui poesia e musica si fondono; ha provato ad annotare una sua poesia, Harry Ploughman, in una forma semi-musicale; riconosceva, con tristezza, che i lettori di libri spesso non sanno cos’è uno spartito. Era un poeta che non poteva scendere a compromessi. Neanche la sua fede accennava a compromessi. Quando lasciò il credo anglicano per quello cattolico romano spezzò il cuore alla sua famiglia. I confratelli gesuiti non lo capivano. Conosceva la notte oscura dell’anima. Morì giovane, di tifo. In vita, la fama lo ha ignorato.
Nonostante il centenario, bisogna dire che la fama di Hopkins è ancora limitata. La difficoltà nel comprendere il suo linguaggio e la sua tecnica lo confina nei dipartimenti universitari. The Wreck of the Deautschland, il suo capolavoro, non diventerà mai un film. La sua teologia irretisce chi non crede. Molti inglesi lo ritengono un apostata dell’anglicanesimo; agli irlandesi scoccia che non abbia difeso con enfasi il loro governo. Persino i correligionari sono turbati dai suoi eccessi estatici. Ma, che ci piaccia o no, la sua influenza pervade tutti quelli che vogliono prendere sul serio il linguaggio. Dovrebbe stare sugli scaffali di tutti gli editor e i copywriter di Madison Aveneu. Frasi come gash gold vermillion dovrebbero tentare gli inserzionisti di “Vogue”. Era pronto a insegnare al mondo il verbo dell’estasi, ma noi riserviamo l’estasi alle ultime acquisizioni dell’arte. Viviamo nell’era diluita. Hopkins fermenta il potente liquore della fede – in Dio, dunque, nel linguaggio.
Anthony Burgess