26 Gennaio 2024

“Libertà dalle opinioni. Dalle proprie, soprattutto”. Elogio di “Apocalypse Now” e del suo profeta, il colonnello Kurtz

Fu Jhon Milius a scrivere per la prima volta un adattamento per il cinema del capolavoro di Joseph Conrad Cuore di tenebra. Lo intitolò Apocalypse Now perché lo scrisse tra il 1968 e 1969, in contrapposizione a un celebre altro spettacolo, quello dei Living Theatre, che portava il nome di Paradise Now e che fu il manifesto della contestazione culturale di quegli anni. Tra vicissitudini produttive e altri imprevisti che spesso affliggono il mondo del cinema, la sceneggiatura passò di mano in mano per quasi dieci anni, finché non raggiunse un giovane regista italo-americano che proveniva da un lustro di successi travolgenti: Francis Ford Coppola.

I pianeti si allinearono, come è necessario che accada affinché si possa dar vita ad un’opera d’arte che superi le capacità del singolo individuo, qualcosa che sia capace di sintetizzare un’epoca, una visione del mondo.

A poco più di trentacinque anni Coppola aveva già vinto cinque Premi Oscar e, consapevole del suo talento e dello straordinario momento che tutta Hollywood stava attraversando, aprì la produzione del film di tasca propria e si gettò nella giungla delle Filippine rischiando il fallimento ma deciso ad uscire da quelle umide frasche con il film più importante del suo tempo. Un film che non doveva semplicemente parlare del Vietnam, un film che doveva “essere” il Vietnam. È il film di una vita, un’opera a cui l’artista consacra tutta la sua esistenza.

Alla base di questo progetto gigantesco vi furono elementi culturali che è necessario considerare; un’intera generazione che cantava la ribellione, che usciva traumatizzata da quella guerra e sognava di rovesciare le regole del mondo, e un sentimento letterario di sapore apocalittico che coinvolgeva poeti, cantanti, scrittori e registi, che trovava nella Waste Land di Eliot (1922) il suo faro più luminoso, e nella canzone This is the End (1967) dei Doors la sua declinazione più popolare. Coppola intercetta questo sentimento come il grande artista che è, e lo innesta in un racconto iniziatico dall’eco Wagneriano.

Il comandante Willard (Martin Sheen) si trova in una stanza d’albergo a Saigon quando le sue preghiere vengono esaudite, venendo richiamato per una missione che ha come obbiettivo l’uccisione di un pericoloso ribelle, un abile colonnello delle forze speciali che adotta “metodi malsani”: il colonnello Kurtz (Marlon Brando). Adesso Kurtz “ha deciso di diventare sé stesso” facendosi re di quelle genti primitive che osteggiano la nuova imperante civiltà americana. Civiltà americana che sospinge il protagonista Willard ma che non ha nulla di giusto, di nobile. È la società della totale dissoluzione. Una società ludico-bellica che tenta di comicizzare la più brutale violenza rendendola grottesca, in quella che appare come una definitiva e disorientante carnevalizzazione della vita. Si pensi alle sequenze indimenticabile di Kilgore (Robert Duvall), capitano del reggimento di cavalleria, che obbliga i soldati a surfare sotto le bombe e che gioisce dell’odore del napalm alla mattina, o allo spettacolo erotico delle playgirl, circo felliniano inscritto nella spaventosa e caotica cornice del Vietnam. Con le parole di Willard: se questa è la società evoluta, “cominciamo a domandarci cosa avessero contro Kurtz”. Gli americani non sono soldati, ma piuttosto hippie allo sbando e Willard è un eroe terribilmente passivo, alienato. Uno strumento nelle mani dell’esercito, un’arma più che una persona. Non un assassino ma “un garzone di bottega mandato a chiedere il conto”, come profeticamente gli rivelerà Kurtz.

Non solo. Il film non è una rigida similitudine, ma piuttosto un universo metaforico, un magma di significati che si rilanciano l’un l’altro creando una suggestiva ridondanza di immagini e concetti archetipici (per un’analisi semiotica approfondita rimando all’ottimo libro di Paolo Jachia, Francis Ford Coppola: Apocalypse Now).

Se è vero che il demonio imita parodisticamente Dio, il male diviene parodia del bene in un gioco di doppi e di chiaroscuri che confondono, in ultimo, perfino la verità. Molto del fascino di Kurtz, del resto, risiede proprio nella sua ambiguità. Nella sua figura riecheggiano fantasmi messianici negati però di contrappunto dalla sua brutalità. Lo sentiamo come strenuo difensore di una civiltà che sta per essere spazzata via, una civiltà antica – nelle parole di Coppola: “Brando rappresenta una cultura che deve morire, ed è cosciente, sa che deve essere ucciso” –, eppure è lo stesso Kurtz a cantare il superamento della vecchia e “mendace moralità”, come a ricordarci che in fondo questo ultimo passaggio apocalittico è inevitabile. Per lui del resto “libertà significa libertà dalle opinioni, anche dalle proprie” e in un certo senso è consapevole di rappresentare egli stesso l’altra faccia della stessa medaglia che sta combattendo. Kurtz è il doppio, in senso psicanalitico, di Willard. È il suo io più profondo e brutale, il lato più nascosto della sua personalità. Ma Willard, uccidendolo, non riuscirà, come di solito avviene in questo genere di storie, a portare a termine il suo percorso di iniziazione, è troppo poco consapevole di sé per riuscirci.

Il passaggio di corona, che viene, come da antica tradizione, realizzato nel sangue, fallisce. Questa volta a un re non succede un altro re, ma uno schiavo. Un non-re che rifiuta la corona, che abbandona la foresta, antico luogo di culto, luogo sì di decomposizione ma anche di continua rinascita, e lascia orfani i suoi sudditi per tornare alla metropoli, tempio laico di una nuova società consumistica che già Conrad aveva definito “città mostruosa che mi fa sempre pensare a un sepolcro imbiancato”.

Del resto, lo aveva scritto Eliot, e ce lo aveva ripetuto Denis Hooper, arlecchino infernale alla corte di Kurtz: This is the way the world ends/ Not with a bang but with a whimper. “è così che finisce il mondo… non con un boato ma con un sospiro”.

Giovanni Soldi

Gruppo MAGOG