A 60 anni dalla nascita del fumetto Diabolik (apparso nelle edicole nel 1962), e in coincidenza con l’uscita del film “Diabolik” dei fratelli Manetti, Torino ospita la mostra-evento “Diabolik alla Mole” (Museo Nazionale del Cinema, Mole Antonelliana, dal 16 dicembre al 14 febbraio 2022) a cura di Luca Beatrice, Domenico De Gaetano e Luigi Mascheroni, con un allestimento scenografico di Helga Faletti. Una mostra che celebra storia e “stile” di un’icona pop italiana, fra fumetto, cinema, arte, giornalismo. Per gentile concessione dell’autore, pubblichiamo l’intervento in catalogo (Silvana Editoriale) di Gianni Bono che ricostruisce le origini di Diabolik, andando a scavare in un vecchio fatto di cronaca della fine degli anni Cinquanta…
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Quando DiaboliK si chiamava Diabolich
Diabolik appare nelle edicole nel novembre 1962, frutto della creatività della neo-editrice Angela Giussani, presto coadiuvata nell’impresa familiare dalla sorella Luciana. L’eroe in tuta nera e dagli algidi occhi azzurri è una fortunata sintesi di elementi narrativi – nulla nasce dal nulla – da Rocambole ad Arsène Lupin a Fantômas.
Le sorelle Giussani, però, fin dall’inizio mettono in ombra l’aspetto del brillante avventuriero per puntare tutto sullo stile “noir”, che genera inquietudine con la proposizione di intrecci criminali platealmente ricchi di passaggi violenti. Diabolik non nasce per essere un ottocentesco “ladro gentiluomo” ma un “Re del terrore” contemporaneo. Quello che non tutti sanno è che il nome del personaggio, con una grafia diversa nel finale – Diabolich – quasi cinque anni prima aveva popolato per mesi le cronache nere dei quotidiani grazie al caso di un feroce omicidio a Torino. Un Diabolich vero, prima di quello fumettistico, un omicida che nella sua lucida follia a sua volta si era rifatto al protagonista di un romanzo giallo: Diabolic, stavolta senza “h”.
E forse si può risalire ancor più all’indietro nel tempo in uno strano gioco di scatole cinesi, che andiamo ad aprire con ordine. Nel 1952 in Francia le Éditions Denöel pubblicano il romanzo poliziesco Celle qui n’etait plus, firmato dalla coppia di autori Boileau-Narcejac (Pierre Louis Boileau e Pierre Ayraud). Al centro della trama una coppia di amanti che si accorda per uccidere la moglie di lui. Il cadavere però sparisce misteriosamente e il marito assassino si strugge nell’angoscia del rimorso. Tanto più che riceve a sorpresa post mortem dalla moglie una lettera regolarmente affrancata che ne dimostrerebbe l’esistenza in vita. Nel 1955 lo sceneggiatore e regista Henri-George Clouzot ne trae un film horror, con Simone Signoret, che ottiene uno straordinario successo. Il titolo è Les Diaboliques. E qui per la prima volta il Diavolo ci mette lo zampino. La sceneggiatura è molto diversa dal romanzo originale. L’azione si svolge in un collegio e per di più la vittima del triangolo questa volta è il marito infingardo e manesco, annegato in vasca dalla moglie e dall’amante in combutta tra loro. Il film lascia il segno ed è ancor oggi considerato un classico del genere horror, regolarmente nelle posizioni alte delle classifiche dei miglior film del genere. Perciò è quantomeno plausibile che il giallista Bill Skyline avesse nelle orecchie il titolo del blockbuster francese quando diede il nome di Diabolic al protagonista del suo romanzo Uccidevano di notte, pubblicato a Roma da Boselli Editore il primo aprile 1957 nella collana Gialli della metropoli. Siamo di fronte a un romanzetto da edicola senza altra pretesa se non quella di intrattenere il lettore per un paio d’orette e Skyline non è certo Hitchcock. Anzi a dirla tutta è uno degli pseudonimi del giornalista Italo Fasan, prolifico autore di gialli sotto diversi nomi. La caratteristica del suo Diabolic? Quella di pianificare ed eseguire “delitti perfetti” e spedire alla polizia, dopo ogni omicidio, una serie di lettere di sfida firmate.
E ora usciamo dalla finzione per calarci nella realtà. Siamo a Torino, febbraio 1958; nel popolare quartiere Vanchiglia. Probabilmente nella notte di San Valentino qualcuno uccide, nella sua misera abitazione di via Fontanesi 20, Mario Giliberti, ventotto anni, pugliese, operaio alla Fiat Mirafiori. Si tratta di un omicidio selvaggio, la vittima subisce 18 coltellate e nella stanza e cucina che formano l’appartamentino di fortuna ricavato da un retrobottega non ci sono segni di effrazione. Giliberti aveva ospitato l’assassino, i due avevano bevuto un caffè assieme poi l’improvvisa, ma forse premeditata, furia omicida caratterizzata dalla mancanza di tentativi di difesa da parte della vittima. Infine, la ricomposizione del cadavere nel suo letto, infagottato in coperte e cappotto.
Prima di andarsene il killer lascia attaccato al pomello di un armadio un biglietto sgrammaticato che pare una promessa: “Riuscirete a scoprire l’assino”. Nessuno ha visto, nessuno ha sentito. Per questo motivo prima della scoperta del cadavere passano molti giorni. Gli inquirenti entrano nell’appartamento di via Fontanesi solo la sera del 25 febbraio. È stato un incaricato della Fiat ad andare a cercare il Giliberti a casa, visto che non si presentava al lavoro ormai da una decina di giorni. La sera del 26 febbraio avviene il fatto che fa esplodere il caso sulla stampa e rende il crimine peculiare. La polizia riceve una lettera, imbucata dall’assassino prima della scoperta del cadavere, nella quale spiega di essere venuto da lontano per compiere l’omicidio, di essere stato molto amico della vittima e di avere portato con lui la divisa. Poi afferma di essere stato tradito “come se fossi un cane” e pertanto di averlo raggiunto con la sua vendetta. Due particolari inquietanti. Nella prima parte della lettera è nascosto un telestico. Le sillabe finali delle prime sei righe formano l’indirizzo del delitto che solo l’assassino poteva conoscere prima della divulgazione della notizia a mezzo stampa: VIA-FON-TA-NE-SI-20. E poi c’è una firma sconvolgente che la dice lunga sulla sanità mentale del killer enigmista: “Diabolich”. Seguiranno altre lettere con quella sigla e a Torino scoppierà una vera e propria psicosi visto che, a un certo punto, Diabolich annuncia che potrebbe colpire ancora.
Una volta che il caso monta è inevitabile il contorno di mitomani che contribuiscono a confondere le acque con lettere apocrife o dichiarazioni di conoscere il colpevole. Le indagini si orientano tanto decisamente quanto precipitosamente su una falsa pista. Per qualche mese finisce in carcere un innocente poi del tutto scagionato perché l’assassino aveva continuato a spedire le sue missive anche quando il sospettato era già detenuto e perciò impossibilitato a fare uscire dal carcere anche un solo rigo. Il caso, purtroppo mai risolto dagli inquirenti, regge per mesi le pagine di nera del quotidiano torinese “La Stampa” e anche il “Corriere della Sera”, giornale nazionale, gli dedica non meno di una trentina di articoli.
Un caso non epocale, ma neppure minore, la cui eco si è parecchio riverberata a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta. Quasi sicuramente ne sono a conoscenza gli sceneggiatori Vittorio Metz e Roberto Gianviti quando stendono il soggetto di una pellicola le cui riprese iniziano nel febbraio 1962 per la regia di Steno: Totò Diabolicus. La parodia del genere poliziesco nella quale Totò interpreta ben sei parti diverse, viene distribuita nelle sale il 7 aprile 1962. A dare il “la” all’intricatissima trama è l’omicidio di un marchese da parte di un killer in costume che, guarda caso, lascia sul luogo del delitto un bigliettino firmato Diabolicus e che in seguito scrive alla polizia una lettera di depistaggio. A questo punto è davvero difficile pensare che Angela Giussani, alla ricerca di un personaggio a fumetti, che arriverà in edicola appena sette mesi dopo, non sia stata raggiunta anche da una o più di queste suggestioni “diaboliche” poi maturate nel freddo assassino dagli occhi di ghiaccio: Diabolik. Finalmente e per sempre con la K.