“Il cinema deve parlare a tutti”. Torna il paradigma reazionario di chi considera brutto un film solamente perché non l’ha capito. È vero che esistono mine vaganti come The tree of life, la cui complessità ti gonfia nello stomaco come una birra artigianale da 9 euro che ti fa rimpiangere di non aver preso la solita eccellente Peroni. Ma quel film è un’invenzione autentica destinata a pochi. Me escluso. Ho dovuto cercare su internet il significato. È vero poi che esistono sbruffonate come Roma che valgono il risarcimento del biglietto e il massimo della violenza verbale contro un tecnico come Cuarón. È vero infine che da un film Marvel ti aspetti una piena adesione ai canoni dell’intrattenimento. In questo caso è vero, il cinema deve parlare a tutti.
Ma che ne è di Amsterdam? Cos’è questa storia che David O. Russell avrebbe toppato? Sia chiaro, il film non è indifendibile. Ma è un film che parla, e non gliene importa niente di farlo con tutti. Di cosa parla? Di quello che ritroviamo in Céline, Hemingway e Fitzgerald. Del lamento di una generazione che a cavallo tra le due guerre ha deciso di vivere e godere, ballando pur se storpi, ciechi o sfregiati. Come ne parla? Col linguaggio di Pynchon. Non ho trovato alcuna informazione su una possibile infatuazione di O. Russel per lo scrittore scampato al Nobel per la Letteratura. Ma quando la trama muove i primi passi, peraltro con un ritmo gradevolissimo, Amsterdam diventa man mano un’esperienza molto simile ai romanzi V. e L’Incanto del Lotto 49. Alla fine del film, capisci che è un’esperienza visionaria di derivazione letteraria, e che per questo non può essere fatto salvo il principio per cui il cinema debba parlare a tutti. Se così fosse, il compromesso della “narrativa in prosa” con cui tutti gli artisti devono convivere – perché chi li edita si aspetta che la gente li capisca – andrebbe convertito in una regola fatta per non essere mai infranta.
Amsterdam non è indifendibile e non deve piacere a tutti i costi, ma sia riconosciuta l’autenticità di una narrazione pynchoniana che come anche L’arcobaleno della gravità non punta a essere vero. È il caso di ricordare una vecchia provocazione di Harold Bloom:
«La capanna dello zio Tom è più sincera della Divina Commedia, qualunque cosa significhi questa affermazione? La sincerità non è una strada privilegiata verso la verità e la letteratura di fantasia si colloca da qualche parte tra la verità e il significato, un luogo in cui vaghiamo e piangiamo».
I tre personaggi di Amsterdam avevano vagato e pianto durante la Grande Guerra, e sentivano che anche la nuova generazione sarebbe tornata a vagare e piangere allo scoppio del secondo conflitto mondiale. Recita Margot Robbie:
«Perché il sogno si ripete, dato che si dimentica. Ecco perché si ripete. Questa è la parte buona. Ma la parte brutta tornerà un giorno. E per ora è questa la parte buona, qui ad Amsterdam».
Era il tempo in cui la Lost Generation si concedeva i vizi propri degli esseri liberi. Mutilati, accecati, ma liberi di concepire ciò che il dadaista Tristan Tzara proclamava come «urlo di dolori spasmodici, groviglio di costrizioni, di tutte le contraddizioni, di cose grottesche, di incoerenze: la vita». Amsterdam.
Qui David O. Russel ha collocato un’infermiera che cerca la bellezza nel dolore per farne operette e sculturine che valgono come reliquie di dolcezza degli anni Venti. Un medico con l’occhio di vetro che si fa carico di portare le cicatrici di una generazione di superstiti. E infine un personaggio piattissimo, un avvocato di colore interpretato da John David Washington, il quale farebbe meglio ad affrettarsi a trovare un lavoro diverso da quello di attore. Per quanto mi riguarda, il figlio d’arte è già responsabile di aver aggravato il bilancio di Tenet – esperienza cervellotica che vale una sessione di crossfit. Insomma, è ora di correre ai ripari contro le accuse di snobismo. L’antidoto è sempre il solito. Leggere Pynchon, Céline, Hemingway e Fitzgerald non fa punteggio per i concorsi pubblici né tantomeno vale una qualifica di qualche tipo. Sono solo esperienze che potresti avere la fortuna di rievocare per merito di un’invenzione sincera come quella di O. Russell. E inoltre ti aiutano a riconoscere ed evitare desolanti pantomime di un’intellettuale come quella di Alfonso Cuaron e del suo pessimo Roma.