Non sono ancora entrata in sala che già mi prende la tristezza. Gaber è stato dimenticato. Salgo le scale verso l’ingresso della sala del cinema con un amico coetaneo musicista: siamo due trentenni, ci guardiamo in faccia e non sappiamo se ridere o imprecare. Una coppia di ultra ottantenni ci sta davanti, con tripode appresso e bastone magico, arrivare alla sala pare la conquista dell’Everest, il tempo praticamente va indietro. Ma non è per gli anziani, ci mancherebbe, è che ci guardiamo negli occhi e abbiamo già capito che saremo gli unici under settanta – e sono buona – della sala.
Ci guardiamo con dispiacere, possibile che Gaber sia stato dimenticato dalla nostra generazione? Come è possibile che Giorgio Gaber, con una mole immensa di materiale disponibile in rete, sia stato relegato solo alle menti di chi all’epoca era suo coetaneo? Forse aveva proprio ragione – tolgo il forse, aveva ragione: la sua generazione ha perso. Hanno perso la sua eredità, e non basta un documentario a riportarlo in vita. Il seme si è disperso, non ha trovato una terra in cui piantarsi. I pochi che hanno colto quel seme, che lo portano custodito come un dono si contano sulle dita di una mano.
Quando G.G. è morto, nel 2003, avevo 12 anni, era il primo gennaio e dopo qualche giorno ricominciava la scuola, andavo a scuola e piangevo, ho pianto per oltre una settimana; immaginatevi la scena, una ragazzina che va a scuola e piange e la maestra gli chiede cosa è successo, pensando fosse morto uno dei nonni, e io che rispondo “è morto Gaber”. Ricordo ancora la faccia della maestra, non capiva se stessi scherzando o se doveva prendermi sul serio, oppure a bastonate.
“Io, noi e Gaber” è il nuovo docu-film di Riccardo Milani, uscito in questi giorni nelle sale, che raccoglie testimonianze di chi ha conosciuto Gaber, di chi ha lavorato con lui, riproponendo degli spezzoni di filmati dai primi anni ’60 in poi. Il film inizia con i primi piani della figlia che è nella casa di Gaber, dove c’è la sua foto che viene toccata malinconicamente. Saranno tanti i primi piani, facilmente nostalgici, come quello della moglie Ombretta Colli che si commuove mentre nel sottofondo si sente Gaber che canta. Giorgio Gaber è stato immenso, un uomo oltre che un artista, lui sul palco dava tutto. Si donava senza remore, senza chiedere il permesso. Negli spettacoli teatrali quando smise con la televisione, Gaber era un uomo solo su un palco, con la sua voce e la chitarra. Le basi poi a un certo punto erano sempre registrate per consentirgli di “viaggiare” leggero, non sbagliava mai un tempo né una nota. Tutto l’anno faceva spettacoli, anche più di due a settimana, poi l’estate si ritirava e con Sandro Luporini creavano nuove parole, nuovi monologhi, nuove canzoni. Tre mesi all’anno in cui i due si incontravano facendo del loro essere insieme un flusso bidirezionale di letture, vita, umanità, domande. Una vera condivisione: credo che il loro rapporto sia stato unico, l’incontro perfetto che ogni artista reclama dal profondo, la necessità di incontrare qualcuno che dia forma in parole e in suoni a una tua domanda lacerante. Le numerose interviste a Luporini sono bellissime, commoventi. Si vede che Gaber manca, manca tantissimo. La figlia Dalia che racconta di come anche fosse scomodo avere due genitori così visibili, che quando la portavano a scuola tutti si giravano, tutto questo guardarli provocava in lei disagio.
Non posso dire che il film non sia bello anche perché riuscire a fare un film su Gaber e renderlo brutto è davvero impossibile; bastano infatti solo i filmati e le registrazioni di alcuni spettacoli a innalzare la qualità del documentario. Quindi come dire, si gioca facile. Però nonostante questo Milani è riuscito ad abbassare il tono, a smorzare l’umore in sala. Sono ancora qui dopo giorni dalla visione del film a capire per quale motivo abbia inserito nelle interviste su Gaber due tipi come Fabio Fazio e Jovanotti. Per favore, spiegatemi il motivo. Avrebbe avuto senso inserire Andrea Scanzi, che ha praticamente dedicato tutta la sua vita allo studio dei testi e degli spettacoli di Gaber, riproponendoli e amandoli visceralmente. Ma Fabio Fazio e Jovanotti davvero mi fanno incazzare. Stiamo parlando di Gaber, che se sapesse che Jovanotti al suo caro Jova Beach Party a Marina di Ravenna ha fatto abbattere l’anno scorso non so quanti alberi per allestire il suo disumano stridere (altro che l’elogio delle “O” di Gaber che fa Jova nel docu film, per favore non scherziamo). Fabio Fazio poi che è rimasto tiepido davanti allo sfacelo di questi ultimi tre anni, davanti agli obblighi vaccinali e alle imposizioni di uno stato che ha fatto solo il padrone e si è dimenticato di essere padre; Fazio che aveva giocato a fare il contro corrente con Saviano in quel programma “Vieni via con me”, che aveva anche buone potenzialità ma poi si è annichilito su se stesso come una particella con la sua antiparticella. Ti prego caro Milani, era difficile sbagliare qualcosa, c’erano davvero molte persone che hanno amato G.G. e che hanno condotto una vita coerente con i semi che questo immenso artista ci ha lasciato, che potevi contattare. Ma questi due non me li spiego. Non parlo poi di Bersani, che quando l’ho visto ormai veniva un infarto a me e a tutti i miei colleghi ottantenni di sala che avrei dovuto poi soccorrere.
Si esce da questo film con la netta sensazione che la generazione precedente ha perso, ha perso in modo irrecuperabile. Gaber è solo negli occhi della sua generazione, sono pochi quelli che si portano nel cuore la sua voce, il movimento del suo corpo. Quelle immagini di Gaber che canta e muove il corpo in un modo che è solo suo, quasi scoordinato ma vero. In lui non c’era il teatro disgiunto dalla vita, il teatro era vita, lui si dava al suo pubblico interamente, non si teneva niente. Dietro le quinte tanti erano gli asciugamani per tamponare il sudore, ad ogni spettacolo dimagriva, il corpo era uno strumento potentissimo da prendere e donare. Gaber era voce e carne, Giorgio Gaber portava una profezia.
Quando è moda è moda, quando è moda è moda.
Non so cos’è successo a queste facce, a questa gente
Se sia solo un fatto estetico o qualche cosa di più importante,
Se sia un mio ripensamento o la mia mancanza di entusiasmo
Ma mi sembrano già facce da rotocalchi,
O da Ente del Turismo.
Quando è moda è moda, quando è moda è moda.
E visti alla distanza non siete poi tanto diversi
Dai piccolo-borghesi che offrono champagne e fanno i generosi
Che sanno divertirsi e fanno la fortuna e la vergogna
Dei litorali più sperduti e delle grandi spiagge
Della Sardegna.
Era il 1978/79 quando uscì questo testo, eppure è ancora estremamente attuale. Gaber rifiuta il “senso comune”, quello che è stato poi il “politicamente corretto”, che oggi nemmeno ce ne accorgiamo quando chiediamo scusa per ogni parola non corrispondente alla perfetta politicizzazione della moda, che se dico omossessuale mi devo pure scusare di averlo pensato.
Esci dalla sala e vorresti solo piangere, staccarti il cuore che ha visto, sentito e percepito un uomo essere coerente con la sua arte e la sua vita, con la sua disperata umanità, anche dopo vent’anni dalla morte, anche solo attraverso lo schermo. Cantava solo certe canzoni quando aveva la giusta rabbia per farlo, non per posa, non per edonismo. Gaber portava una verità irripetibile, ora siamo tutti dei dilettanti. Mi spiace caro Jova, ma stattene a casa, le “O” di Gaber venivano da un uomo che dei testi che cantava faceva una cosa sola col corpo. Penso a quando – ripreso in questo film – in un’intervista dice che la vera trasgressione non è l’amore, ma la fedeltà. Guardate il docu film, quindi, per riscoprire un Gaber molto giovane, solo per fruire di alcuni punti della sua vita che magari sono rimasti un po’ dimenticati, come il passaggio dalla televisione alla canzone-teatro. Guardate questo film per poi avere la voglia di dire “devo ritrovare Gaber”; il film deve essere solo una piccola miccia per un grande incendio che segue i giorni successivi. Vi lascio con questi versi, assoluti, di Luporini e Gaber in “Quando sarò capace di amare”.
Quando sarò capace di amare
Mi piacerebbe un amore
Che non avesse alcun appuntamento
Col dovere
Un amore senza sensi di colpa
Senza alcun rimorso
Egoista, naturale come un fiume
Che fa il suo corso
Clery Celeste