
“In tutti voi si annida il demone della distruzione”. Anton Čechov, lo scrittore ambientalista
Cultura generale
Diana Mihaylova
Quando frequentate un musicista classico non potete non imbattervi nel dramma quotidiano del confronto, del confronto con il genio. Un genio che sceglie dall’alto del suo mondo sovrannaturale su chi soffiare, una invasione che non chiede permesso, che non è affatto democratica. E tutti gli altri, i musicisti, artisti di un qualche strumento, penano a non finire, giorno dopo giorno, con la natura fisica che deve averli privati – a loro dire – di qualche peculiarità essenziale al genio. Un genio insomma che non si fa scrupoli, crudele e meschino, sceglie però anche corpi non perfetti, corpi che spesso non sono in grado di trattenere a lungo quella scarica elettrica e muoiono giovani.
Frequentate un musicista e non potrete esimervi dal leggere Il soccombente di Thomas Bernhard se volete capirci qualcosa. Perché parliamoci chiaro, i poeti e i musicisti si somigliano: i primi vorrebbero essere le parole che rincorrono, i secondi vorrebbero essere il loro strumento. Due categorie di artisti che cercano comunque l’assoluto, che non si accontentano di narrare una storia o di produrre un’opera d’arte; la loro arte è insita in un inseguimento continuo e sfinente, in una lotta atroce dell’esistere, loro vogliono entrambi esistere, essere la parola ed essere lo strumento. La fusione è un imperativo categorico, perché per citare Bernhard:
“Nella musica si entra come un tutto oppure non si entra affatto”.
Insomma, certe forme artistiche non permettono mezze misure, richiedono un costante confronto con il genio, con l’assoluto della vetta. Vetta che ovviamente è concessa solo a pochi. Il soccombente è la perfetta rappresentazione di questa matassa informe e grigia che è l’artista dello strumento, un qualsiasi artista di uno strumento, è un capolavoro vertiginoso che vi spiega passo per passo come si scende nella scalinata della mediocrità, dove sta la rinuncia, dove abita il tutto e il niente di un musicista.
Quando parlo degli artisti dello strumento, per dire musicisti, termine che usa Bernhard, intendo ovviamente coloro che hanno un fuoco interno simile alla gastrite, un fuoco costante che è un’ossessione, dove l’idea del suonare è un pensiero fisso dalla mattina fino alla sera; non parlo di coloro che si accontentano dei complimenti, di quelli che arrivano alla registrazione di un disco senza aver preparato il pezzo, eseguendolo mediocremente, di quelli che in una frase dicono talmente tante volte “io, io, io” che al primo respiro con cui tentano di prendere fiato voi che li ascoltate avete appena sbadigliato vigorosamente slogandovi la mandibola. Sto parlando di chi con l’ossessione dello strumento ci nasce, di chi vuole essere lo strumento stesso, di chi non prova alcuna soddisfazione nell’interpretare un ruolo ma vuole essere, essere disperatamente.
Parlo quindi di chi nasce con un talento ma questo talento forse non è abbastanza; in realtà dovrebbero già ringraziare ma quando ti confronti con l’assoluto, quando hai la disgrazia – perché tale è – di conoscere nella tua vita un vero genio come Glenn Gould da vicino, come accade per i protagonisti di questo libro, non puoi continuare a esercitare il tuo talento così, senza rimanerne sconvolto e scosso. Quando accade di incontrare un genio, di veder accadere in un corpo umano qualcosa di divino, che appartiene al sovrannaturale, ecco che si è davanti a un dio e tutti i peccatucci vengono fuori. Il problema qui è l’essere e il non riuscire a essere: Wertheimer e il narratore di questa storia sono due giovani pianisti che per un nodo del destino incontrano Glenn Gould, pianista che già manifestava le scariche elettriche tipiche del genio assoluto. Da questo incontro i due amici, ottimi musicisti e promettenti interpreti, hanno l’esistenza cambiata, il destino li renderà obliqui. O forse li renderà solo più consapevoli della distanza siderale che intercorre tra l’essere e il non riuscire a essere. Non si tratta qui di esercizio, di interpretare correttamente o magistralmente un brano, è proprio il desiderio di fusione che si instaura tra il musicista e il suo strumento. Un desiderio di connessione erotica, dove l’uno entra nell’altro, dove si diventa uno smettendo di essere due, superando la separazione. Il rapporto con lo strumento è caratterizzato anche da una fisicità erotica, dove il tocco e la vicinanza del corpo, il movimento del corpo che si protende verso lo strumento sono gli indizi di quella necessità di essere lo strumento stesso; una necessità strisciante, che si innesca logorando ai fianchi, giorno dopo giorno, esercizio dopo esercizio.
Il libro inizia dalla prospettiva dell’unico sopravvissuto: sia Glenn Gould che Wertheimer sono morti, entrambi quasi coetanei. Con la differenza che Glenn è morto di morte naturale, crepato con un colpo esattamente sul pianoforte, lo hanno trovato così; Wertherimer invece si è suicidato, la sua non è stata una morte naturale, non si è accasciato a fianco dello strumento che lo ha posseduto, ma si è impiccato a un albero a meno di cento metri da casa della sorella. Abbiamo quindi un narratore unico, con una prospettiva assoluta sulla storia che racconta, una visione monoculare che tenta di essere occultata grazie a una narrazione straordinaria dove l’io narrante si confonde con la costante intromissione di questo nei pensieri, presunti, dei due amici deceduti o nei ricordi di conversazione. La scrittura di Thomas Bernahrd è un vortice senza soluzioni di appiglio, non potrete trovare nemmeno un vago legnetto in questo oceano di parole. Un capitolo unico, non una sola pagina bianca, non una sola divisione interna. Il ritmo delle parole rispecchia esattamente la successione delle note della famosissima interpretazione delle Variazioni Goldberg di Glenn Gould (se non la conoscete, rimediate su youtube), dove Glenn si piega verso il pianoforte, le dita sono fiamme elettriche già completamente fuse con lo strumento, non capisci dove inizia uno e dove l’altro. Glenn è in una posa anti estetica, come invece si raccomanda in tutti i conservatori dove il pianista dovrebbe stare bello eretto, come un bel soldatino, e i gomiti sostenuti, i polsi morbidi ad angolo sulla tastiera. Glenn Gould è un genio e se ne frega di tutto, lui si piega e si accartoccia sullo strumento, si contorce in una delicatezza tutta sua, ogni nota si rispecchia nel volto, trova riposo in una smorfia e in una ruga. Non ci stupisce quindi che sia crepato accanto pianoforte, e dove sennò? A geni del suo calibro la morte deve rendere una grazia, liberarli dall’ossessione dentro l’ossessione, come un cerchio che deve essere chiuso, una sorta di uroboro.
A una prima vista parrebbe che Wertheimer e il narratore siano degli invidiosi di quel genio assoluto di Glenn. Sembra quindi che sia una semplice invidia, un sentimento deplorevole e che ci schifa, perché siamo onesti, nessuno vorrebbe ammettere di essere un invidioso; l’invidioso schifa se stesso nell’atto dell’invidiare, si nasconde benissimo e smascherarlo sarebbe ucciderlo. Quindi a prima vista i musicisti che si lamentano tutti i giorni di non poter raggiungere la perfezione, l’assoluto come la manifestazione del genio, possono sembrare degli invidiosi piuttosto scontati. Thomas Bernhard qui invece scava nella voragine di questa crepa, fessura la terra del non riuscire a essere. Vi ritroverete completamene scagliati dentro questa gola scura, dove solo un terremoto può scatenarsi dall’apertura di questa faglia. Il soccombente non è una di quelle letture che vi lascia indifferente, è un libro che vi tira per la manica, come un bambino che chiede di essere accompagnato di notte alla camera da letto lungo il corridoio, vi lasciate prendere per la manica e vi trovate terrorizzati nell’oscurità, con bambino tremante appresso.
“Se guardiamo con attenzione gli esseri umani, ci disse Glenn una volta, non vediamo altro che mutilati, mutilati esteriormente o interiormente, o anche interiormente ed esteriormente, sono tutti così, pensai. Quanto più a lungo guardiamo con attenzione un essere umano, tanto più egli ci appare mutilato, dal momento che all’inizio ci rifiutiamo di percepire l’entità vera della sua mutilazione”.
Il tutto si svolge per la maggior parte del tempo come un dialogo interno, come una narrazione che avviene tra la mutilazione del narratore che è reso monco dal dolore, meno intero perché le uniche due persone che avevano dato una impronta alla sua vita sono entrambe morte; il dialogo è tra la sua mutilazione e quella degli altri due. Questo dialogo tra mutilati, tra due che non riescono a essere e uno che invece è, accade mentre il narratore è in piedi nella locanda dove deve soggiornare, con ancora i bagagli a fianco dei piedi, in attesa di chiamare la locandiera e farsi dare una stanza. Tutto è un vortice interno, parola dopo parola, si smette di riconoscere la voce narrante e si entra nella testa del suicida Wertheimer o di Glenn Gould. Solo pochi indizi ci avvertono che si tratta di ricordi, o di proiezioni e supposizioni. Il reale perde contatto con il lettore attraverso questo flusso che non chiede permesso.
Troverete in questa narrazione picchi assoluti di verità, questi saranno gli unici appigli in quel baratro in cui siete stati gettati da Bernhard. Come quando Wertheimer si barrica nel suo casino di caccia a Traich, in una digrignante solitudine ma al contempo in una necessità di far uscire il suo problema, una disperata ultima richiesta di salvezza. Wertheimer chiuso nel bozzolo del suo problema tenta una comunicazione con il primo che gli capita, con i boscaioli suoi dipendenti del casino di caccia. Ma questo tentativo di sgravarsi non lo renderà più leggero anzi, perché consegnare i nostri dolori è un atto delicato, bisogna scegliere accuratamente a chi darli in pasto.
“Ma il fatto è che le persone semplici non capiscono le persone complicate e con più spietatezza di chiunque altro le inducono a ritirarsi in se stesse, pensai. L’errore più grande che possiamo fare è credere che le cosiddette persone semplici siano in grado di salvarci. Ci rivolgiamo a loro in uno stato di angoscia estrema, li imploriamo letteralmente di salvarci, e quelli invece ci spingono ancora più a fondo nella disperazione”.
Poeti e musicisti vivono entrambi camminando, vivendo, amando e soffrendo esattamente sul ciglio di questa crepa nella terra, di questa crepa che si chiama “il non riuscire a essere”: l’inciampo e la scivolata verso l’assoluto del buio lo fa una singola nota o una singola parola. Entrambi scelgono una precisissima nota in un precisissimo tempo, o una precisa parola in una precisa posizione del verso, ma queste due scelte escludono tutte le altre possibilità e quindi una nota o una parola sbagliata rischiano di gettare l’artista nella voragine e farcelo rimanere, buttato così senza soluzione alcuna.
“Ma ora ripresi a dubitare che quel mio scritto avesse un qualche valore e pensai che al mio ritorno lo avrei distrutto, del resto tutte le cose che scriviamo, se le lasciamo riposare per un periodo piuttosto lungo per poi riesaminarle da capo, sempre com’è ovvio ci risultano insopportabili e non riusciamo a darci pace fino a quando non le abbiamo distrutte, pensai”.
Ma chi è quindi il soccombente? Forse siamo tutti noi, in ognuno di noi c’è un Wertheimer che tenta di sottrarsi alla natura, che non accetta la scelta unilaterale del genio di scansarci, il talento ci tocca ma non così a fondo, abbiamo un dono ma questo non è abbastanza. La natura ha scelto per noi, il Dio non ci ha toccato, il daimon si è ritirato e quindi restiamo a metà strada.
“Noi siamo quelli che vogliono continuamente sottrarsi alla natura, ma com’è ovvio non ci riusciamo, così diceva, pensai, e restiamo a metà strada”.
Il soccombente è un dettame d’esistere, o meglio del non riuscire a essere, è un giudizio che diventa un decreto senza possibilità di appello. Esattamente come una nota o una parola sbagliata, oppure troppo giusta e per questo vera, che si incide nella carne e nelle memorie della rete del DNA. Il soccombente è come Glenn Gould chiamò Wertheimer, con un tono forse scherzoso: l’appellativo in realtà conteneva tutto il destino di un uomo. Di un uomo che non è riuscito a essere, che ha scelto la morte per una incapacità di soccombere alla vita, anche quando questa lo aveva liberato dalla presenza sulla terra di Glenn Gould. O forse proprio per questo. Basta una parola a definire il destino di uomo e Thomas Bernhard ce lo spiega in un passaggio che vale tutta la lettura del libro.
“Noi diciamo una parola e annientiamo un essere umano senza che questo essere umano da noi annientato, nel momento in cui pronunciamo la parola che lo annienta, abbia cognizione di questo fatto micidiale, pensai. Un simile essere umano, messo a confronto con una tale parola micidiale, nel senso che micidiale è il concetto che ad essa corrisponde, ancora non intuisce nulla dell’effetto micidiale di questa parola e del concetto che ad essa corrisponde, pensai. Glenn ha detto a Wertheimer la parola soccombente ancor prima, comunque, che avesse inizio il corso di Horowitz”.
Clery Celeste