21 Giugno 2018

“La scrittura non salva, è una lotta per la sopravvivenza”: Matteo Fais dialoga con Marco Vetrugno, autore di “Apologia di un perdente”

Sarà pur vero che “il dolore è eterno,/ ha una voce e non varia”, ma certo è in buona misura scomparso dalla scena letteraria. A quanto pare non è granché commercializzabile, proprio come l’ironia nella canzone popolare. Un libro per vendere deve far ben sperare, indurre al sogno, essere catartico nel senso più basso del termine. O, alla peggio, lo può toccare un’appena percettibile malinconia di fondo, così da non turbare oltremodo le nostre anime già tenute chimicamente a bada da qualche goccia di Xanax che ne cheta ogni angoscia, per quanto giustificata possa essere. Meglio che lo spirito sia leggero, pronto a spendersi con tutte le proprie forze per la produzione e l’accumulo. Perciò, lascia basiti vedere come qualcuno – e non una casa editrice qualsiasi, ma la Elliot Edizioni – abbia deciso di pubblicare Apologia di un perdente di Marco Vetrugno.

L’autore, lettore infaticabile, poeta e scrittore teatrale, licenzia un nuovo monologo che riporta in scena in grande stile la riflessione esistenziale più cruda e abissale. Forte di un’esperienza di vita che avrebbe annichilito tre quarti degli scrittori attuali, Vetrugno aggredisce con rabbia e disincanto il lettore-spettatore riportandolo alla cogenza di quello che Camus considerava “il solo problema filosofico veramente serio: quello del suicidio”. Ha senso vivere? E generare? Quando l’esistenza non è più vita, ma un qualcosa che si trascina? Può sembrare che le domande siano banali e forse effettivamente lo sono – da sempre –, ma le risposte avanzate dall’autore risultano tutt’altro che scontate in un testo che vi coglierà di sorpresa come un fulmine a ciel sereno.

libroIl primo interrogativo che mi è venuto in mente leggendo il tuo monologo è stato: ma come fanno a pubblicarlo? È un testo duro, diretto, sincero, per niente consolatorio. Ed è scritto da un autore non propriamente notissimo, diciamo così. Quindi, toglimi una curiosità: come hanno fatto a pubblicarti?

(Ride) Devo tutto a un curatore del gruppo editoriale Lit. Avevo visto su Facebook che cercava nuovi autori. Sai come si fa in questi casi: mandare una mail non costa nulla. L’ho fatto, pur essendo consapevole che il mio testo, essendo teatrale, non rientrava in ciò che lui presumibilmente cercava, ovvero della narrativa. Ho inviato comunque. Era uno di quei tentativi disperati in cui pensi di partire già sconfitto, ma ti butti alla o la va o la spacca. Sta di fatto che, per una volta, mi sbagliavo a essere tanto negativo. L’opera è stata letta e ha suscitato immediatamente un’impressione positiva. La Elliot Edizioni ha poi deciso di inserirla in una collana apposita, Lampi, composta di testi brevi di natura sperimentale e sono così finito in mezzo a tutta una serie di mostri sacri, da Proust a Balzac.

Ipotizziamo di voler fare una breve sintesi della trama… Dico la verità, avrei qualche difficoltà, anche perché in questa tua opera – come nella maggior parte delle opere ben riuscite – non succede granché. Non per niente, si tratta di un monologo. Tu come spiegheresti l’intreccio del tuo testo ai nostri lettori?

Per stare alla semplice trama, direi che questo è un monologo in cui un uomo, Ezra, di cui non conosciamo il passato, confessa la sua condizione di alienazione e solitudine. Il suo disincanto è tale da non riuscire neanche più a trarre giovamento dalla sublimazione artistica. L’opera è ambientata in un museo. Di volta in volta, un quadro funge da semplice background o da cornice in cui si svolge un determinato atto. Il protagonista ha in mano una figura fetale, fasciata con dei panni, e lì, vicino a lui, è contenuto in una teca il teschio della sua compagna trapassata. Questo per quel che concerne l’intreccio. Mi sembra però il caso di metterlo in parallelo con il mio precedente lavoro, anch’esso un monologo, Mutilo, Musicaos 2017, di cui Apologia di un perdente costituisce per così dire il contraltare. Il protagonista, che dà anche il titolo al testo, è uno scrittore che si è fatto saltare le mani per perdere l’uso della scrittura e quindi dell’arte. Alla fine si ucciderà, sull’onda di una presa di coscienza e di coraggio. Mutilo è un incurabile, come è un incurabile Ezra. Entrambi sono alienati. Ezra però, a differenza di Mutilo, è un uomo che ha vissuto per inerzia, che a un certo momento ha perso e ha convissuto con la sua sconfitta. Debbo confessarti, a questo punto, che io sono figlio di un suicida. Mio padre era bipolare. Si è ucciso quando avevo 16 anni. Non ti sembri strano, quindi, se tutta la mia produzione, o almeno la gran parte, verte su questioni tanto controverse, oltre ad avere molte affinità con il mio vissuto. Ho avuto esperienze forti e questi due monologhi ne sono una diretta conseguenza. Ezra è simile a me, nel senso che non è riuscito a cambiare e neanche è riuscito a trovare il coraggio per morire. Al contrario Mutilo, che a un certo punto prende coscienza del dolore e rifiuta l’alienazione, è più vicino a mio padre. Per entrambi, quando la pena è diventata insostenibile (nella fattispecie di mio padre, dopo anni di malattia) c’è stata una presa di coraggio – o almeno io così l’ho vissuta. A una vita che non era più vita, hanno deciso di mettere un punto. Contrariamente a me, contrariamente a Ezra che invece accetta l’alienazione, la solitudine, la propria sconfitta.

L’apologia ha una lunga storia nella tradizione europea. Basti pensare alla più famosa, quella di Socrate. Perché tu hai scelto di fare quella di un perdente? Cosa rappresenta questa figura per te?

Devo essere brutale: ho scritto un’apologia di un perdente perché il perdente sono io. La mia vita e il mio presente sono un qualcosa su cui non riesco a intervenire. Ci sono dei meccanismi autodistruttivi a cui non riesco a sottrarmi. Diciamo quindi che in questa figura mi ritrovo. Se mio padre è riuscito a mettere un punto, io non riesco né a migliorarmi né a fare come lui e ciò è piuttosto avvilente. Vivo una costante condizione di malessere e alienazione. Non vorrei dirlo, ma l’apologia è per me. Raccontando questa storia ho raccontato me stesso. Tramite Ezra porto la mia esperienza in scena, restituisco la raffigurazione letteraria di una condizione esistenziale.

Tu provieni dalla poesia e questo monologo è scritto in versi. In che modo queste tue due inclinazioni, il teatrale e il poetico, si incontrano in questo ultimo lavoro?

Questo è un momento particolare nella mia vita dal punto di vista artistico, desidero sperimentare. Io arrivo al teatro da studioso, da lettore e da spettatore, ma senza aver mai fatto corsi. Però, forte di questa semplice base da fruitore, ho capito che questo raccoglie tutto. È un contenitore che ha in sé dalla poesia, alla filosofia, all’arte figurativa…

Insomma, come nella Gesamtkunstwerk, l’opera d’arte totale di Wagner…

Sì, ho cercato una via sperimentale per arrivare a una sorta di opera totale che riuscisse a veicolare i vari elementi, secondo un’idea di contaminazione. Insomma, come diceva Carmelo Bene: non si può più fare teatro con il teatro, poesia con la poesia. Certo è rischioso. Infatti, come ben sai, ce ne sono pochi in giro e la mia casa editrice mi ha dovuto mettere in una collana a parte tra gli scomparsi.

Ogni atto ha come protagonista, oltre a Ezra, anche un quadro. Delle volte funge da sfondo, altre volte da scenario, insieme a un museo non ben specificato. E sono tanti i grandi nomi di pittori che citi. Come mai questa scelta e perché proprio questi autori?

Il motivo per cui la scelta è caduta proprio su questi pittori è facile da arguire. Chi ne conosce la vita sa che si tratta in ogni singolo caso di esistenze molto travagliate. Da Van Gogh, a Bacon, a Schiele, tutti questi artisti hanno avuto un privato molto controverso che si è poi trasformato in arte. Anche a livello visivo, facendo una carrellata, persino una persona non appassionata di pittura e storia dell’arte noterà una correlazione, un minimo comune denominatore di inquietudine diffusa. Per tal motivo ho deciso di inserirle materialmente nel testo. Se avessi fatto mettere solo il titolo delle opere, non sarebbe stata la stessa cosa: vedendole, chiunque potrà farsi immediatamente un’idea dello spirito del testo.

Tra i temi che sono riuscito a individuare in questo tuo ultimo lavoro, citerei il dolore, l’angoscia, l’incapacità e il male di vivere, l’antinatalismo, l’illusorietà del concetto di comunità. Insomma, la vita è invivibile per dirla con il già citato Carmelo Bene. Quindi, qual è il ruolo dell’arte in questo inferno?

Per quanto mi riguarda, la scrittura, come la lettura e lo studio, mi hanno salvato letteralmente la vita. A 16 anni ho lasciato la scuola, dopo la morte di mio padre. Sono andato via di casa a 17/18 anni. Di lì a poco, già lavoravo in un bar. Poi ho fatto diversi anni di strada, fino a che non sono stato arrestato. A 27 anni ho ripreso a studiare. Dopo tutto questo casino, ho cominciato a scrivere e la scrittura ha assunto per me la connotazione di una lotta per la sopravvivenza e la legittimazione del mio esistere. Oramai dedico tutte le mie forze a queste attività. Nel libro c’è un passaggio in cui Ezra dice che riusciva a trarre forza dalla bellezza e, in generale, dalla sublimazione artistica, fino a quando non è morta la compagna, e da allora la sua passione non riesce a dargli più nulla e l’arte gli appare come un semplice artificio. Anche mio padre era una persona molto appassionata. A un certo punto, però, neanche i suoi interessi più grandi gli sono stati d’aiuto… Per me, invece, negli ultimi otto anni, l’arte e le letture mi hanno consentito di andare avanti. L’importante è che si capisca che io non penso mai all’arte come un qualcosa di salvifico – aggettivo che non mi si addice minimamente. Casomai io parlo di lotta, perché sono disilluso e non nutro alcuna speranza. Anzi, peggio, non aspiro a nessuna salvezza. Allo stesso tempo, però, tutto ciò che faccio mi aiuta a trovare un motivo per alzarmi la mattina. Nel senso che mi resta solo questo e, se non ci fossero certe passioni a dare un indirizzo alla mia giornata, credo veramente che non mi rimarrebbe niente.

I tuoi ispiratori nella poesia, nel teatro e, in generale, tra le tue letture?

Nel teatro mi colpì molto il Caligola di Camus, A porte chiuse di Sartre, Finale di partita di Samuel Beckett, Sarah Kane. In generale adoro Thomas Bernhard, qualsiasi libro. Tra i poeti Thierry Metz con L’uomo che pende, Paul Celan, Gherasim Luca. Degli italiani Ferrari, Simone Cattaneo, Dario Bellezza, Salvatore Toma. Potrei poi aggiungere centinaia di altri autori e titoli… Ma sono talmente tanti (continua a ripetere per almeno trenta secondi).

Matteo Fais

Gruppo MAGOG