Intanto, Donald Cammell. Si è ammazzato 25 anni fa, scozzese, stralunato, cresciuto in un castello di Edimburgo. Il padre, Charles Richard Cammell, aveva affari con Aleister Crowley, il demoniaco, di cui scrisse una biografia occulta. Di lui Keith Richards ha detto che era “un ruffiano, faceva il magnaccia e intrallazzava orge”, olè. Piuttosto ricco e stravagante, Cammell frequenta William Burroughs e Marlon Brando, scorrazza coi Rolling Stones, scrive un film, Performance – passato in Italia come Sadismo –, che col senno di poi sarebbe diventato il manifesto più estremo della “Swinging London”, votato tra i grandi film britannici di sempre. All’epoca, il film fu preso per “pretenzioso e repellente” (così il “Los Angeles Times”), “come se a Mickey Spillane venisse in mente di scrivere imitando Harold Pinter: una schifezza” (così il “Washington Post”). Girato nel 1968, uscito due anni dopo, vietato ai pupi, il film racconta la storia di Chas, tipo violento, che passa da una band di delinquenti a una gang bang in una villa che pare un covo di vampiri. I protagonisti della storia – James Fox, Mick Jagger e una prepotente Anita Pallenberg – si danno al sesso sfrenato, galvanizzati da droghe a go-go. In cabina di regia, insieme a Cammell, c’è Nicholas Roeg, all’esordio, che qualche anno dopo girerà The Man Who Fell to Earth, con magnetico David Bowie.
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Che ci frega di quel film, uscito cinquant’anni fa? Beh, a dire di Cammell la chiave di Performance è Jorge Luis Borges, “Sono stato ispirato dalla lettura di Borges e da Disperazione di Vladimir Nabokov: mi affascina l’estatica esplorazione di un personaggio, l’estetica della morte”. Il film è costellato di presenze borgesiane: Chas e Turner, i protagonisti – cioè Fox & Jagger – sono ripresi mentre leggono A Personal Anthology, abbecedario di Borges edito nel mondo inglese nel 1968; a un certo punto Mick Jagger recita un passo da Il Sud, racconto di JLB del 1953, poi raccolto nella seconda edizione di Finzioni, con frasi di onirica potenza: “Cieco verso le colpe, il destino può essere spietato con le più piccole distrazioni”; “Alla realtà piacciono le simmetrie e i leggeri anacronismi”, da cui è setacciata questa, “Alla clinica non avrebbero permesso che mi succedessero queste cose”. L’arredamento della villa lisergica dove s’inscena il film è terribilmente borgesiano: pullulano specchi, le ombre hanno vitalità alchemica, il labirinto è ovunque. Il tema della promiscuità sessuale ci schianta presso l’androgino, l’uomo completo, in cui coincidono gli opposti, icona dell’“umana nostalgia dell’interezza” (Elémire Zolla). In questo senso, ciò che ad occhi mondani pare il caos – il capovolgimento dell’etica, il vivere quaggiù l’al di là – è autentico ordine, enciclopedia celeste. In un fotogramma del film, si vede l’immagine di Borges – in concreto, severo smarrimento – su uno specchio, che s’infrange. Per costruire un mondo, un altro deve estinguersi. “Nel 1996 Donald Cammell si spara alla testa. Secondo alcuni, avrebbe chiesto alla moglie di fissare uno specchio, dicendole, ‘Riesci a vedere il viso di Borges?’”.
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Dunque: Borges icona di un film estremo, vietato, dove Mick Jagger se la fa con Anita Pallenberg, all’epoca musa-amante di Keith Richards. Nonno JLB, alla faccia della scrittura cristallina, della colta cristalleria di libri, è il Prete Gianni del caos, l’alchimista della perdizione, in un marasma lascivo. In verità, lo dice Donald Cammell e si sussurra nel testo, è Tlön, Uqbar, Orbis Tertius la ‘fonte’ ideale di Performance, il racconto del 1940 che apre Finzioni. Testo dall’incipit sconcertante – “Devo alla congiunzione di uno specchio e di un’enciclopedia la scoperta di Uqbar” – si concentra sull’esegesi di Tlön: “All’inizio si pensò che Tlön fosse un mero caos, un’irresponsabile licenza dell’immaginazione; adesso si sa che è un cosmo e le leggi intime che lo governano sono state formulate, sia pure in modo provvisorio”; “Le cose si duplicano su Tlön; tendono anche a cancellarsi e a perdere i dettagli quando la gente li dimentica”. Borges mette in allarme riguardo a Tlön – “Il contatto e la consuetudine con Tlön hanno disintegrato questo mondo” – dacché se tutto è duplice, esiste un altro me stesso, che posso, per fragilità, uccidere. Performance esce nel 1970, quando Borges ha pubblicato da poco Elogio dell’ombra: “Non esagerare il culto della verità; non c’è uomo che alla fine d’una giornata non abbia mentito, a ragione, molte volte”, scrive in Frammenti di un vangelo apocrifo. Performance, infine, è finzione, esibizione, messa in scena, replica. Di un uomo non c’è altra verità, ma il vero giace dietro i veli, in ombra.