Star Wars. Episodio VIII. Sottotitolo: ‘Giramento imperiale di coglioni’. Porto il figlio e banda di baby cretini al cinema. Si divertono. Per loro è come un videogame. Il film – chi lo ha visto lo sa – è una cretinata che rende Balle spaziali di Mel Brooks – uscito trent’anni fa, auguri – serioso e austero come l’Agamennone di Eschilo. Ma il problema non è quello. L’aspetto interessante dell’ultimo ciclo di Star Wars è che si sviluppa totalmente sulla nostalgia. Nostalgia di quando Luke Skywalker era un ventenne spavaldo di nome Mark Hamill e non quel bolso insoddisfatto in esilio dalla fama da troppo; di quando Harrison Ford guidava le astronavi con gigiona virilità; di quando Carrie Fisher era quel gran bel pezzo di Leila e non la brutta copia di mia zia. La nostalgia attanaglia gli adulti che rimpiangono quando erano giovani&baldi, quarant’anni fa; la nostalgia sta nel cervello scaltro di George Lucas, che non riesce a fare altri film se non il catatonico calco del primo. La nostalgia di ciò che eravamo e la certezza che non sappiamo più fare niente di nuovo: questa è la sintesi del nuovo ciclo di Star Wars, che poi è il virus della cinematografia di oggi, fatta di remake (l’ultimo? Assassinio sull’Orient Express), di restyling della solita storia (Dickens: l’uomo che inventò il Natale), ripigliando dall’oblio i cari, stinti eroi del tempo che fu (dall’Uomo Ragno a Winnie the Pooh, che riappare in Vi presento Christopher Robin). Insomma, è sempre l’eterno ricordo dell’uguale, la stessa lacrimuccia sul tempo inesorabilmente trascorso. Ecco perché Star Wars è la testimonianza galattica del tramonto dell’Occidente ormai avvenuto. Se il secondo trittico di film – la trilogia che va da La minaccia fantasma a La vendetta dei Sith, realizzata dal 1999 al 2005 – presentava caratteri di autentica novità, con variazioni sul solito tema, l’ultimo ciclo, inaugurato dal Risveglio della Forza, non si sforza neppure di risvegliare il cadavere jedico, è una specie di lunghissimo, tedioso, agghiacciante requiem sul tempo perduto. Un elogio interstellare della nostalgia. Con dettagli mistici inquietanti. Il momento apicale del film accade quando il tronfio, triste Skywalker mostra a Rey i “libri sacri” della religione Jedi, un mischione tra buddhismo zen e Monte Athos, tra filosofia induista e disciplina sufi – frullato che andava bene negli anni Settanta, forse, con i ‘fricchettoni’ frollati dal canonico viaggio in India, ma che ora è vomitevole teologia hollywoodiana e stop. Il messaggio è chiaro: basta un po’ di fantasia e in epoca di ateismo latente e di inappetenza cristiana – favorita dal Papa pop – ciascuno può farsi la religione che gli pare. Il fenomeno ha già rilevanza sociologica e bibliografica: Daniel M. Jones, che dieci anni fa ha fondato The Church of Jedism, è appena stato tradotto in Italia da Sperling, Tu sei l’ultimo Jedi è spacciata come “la prima e unica Bibbia del Jedismo”. Evviva. Secondo Harold Bloom il motivo per cui la Bibbia – e dunque, ebriasmo e cristianesimo – e il Corano sono resistiti fino a noi è per ragioni estetiche. Sono libri scritti mirabilmente. Ma oggi non sappiamo più distinguere tra Isaia e Belen, anzi, molti opterebbero per il bel culetto della bella argentina rispetto alle profezie del genio del deserto. Anche in questo Star Wars è esemplare: nell’epoca dell’Occidente tramontato la religione ve la inventate voi, come vi piace, piacere, benvenuti al party, oggi si mangia il cuore di Dio. Morto da un pezzo.
Davide Brullo