06 Agosto 2018

Tutta una questione di cibo… ma è troppo facile credere con la pancia piena. Bisogna ridurre l’intestino a un serpente e affilare i denti per mangiare Dio

La domenica parlano – con sperabile ispirazione – i preti. Il lunedì, da incosciente, metto il cranio dentro la liturgia domenicale. Screziando, da dis-graziato, i testi. La liturgia la trovate, per comodità, qui. Io uso il Nuovo Testamento interlineare, bisciando tra italiano, greco e latino. Pigliate questi come appunti sul margine sfinito, come punti d’appoggio – o di rovina – sulla roccia.

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Nel deserto il mormorio (“Nel deserto la comunità d’Israele mormorò contro Mosè e contro Aronne”, Es 16, 2) ha il sapore del sibilo: le lingue degli uomini scodinzolano come serpenti.

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Nel deserto – che come la montagna è il luogo dell’apparizione: perché dove l’uomo è diradato, dove l’uomo è nel rischio, si palesa Dio – non si mormora, si ascolta. Anche le pietre, nel deserto, hanno orecchie e lo scorpione scintilla come il nastro che lega le sacre preghiere.

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L’altra opposizione è quella, sonora, tra massa e singolarità, tra popolo e pochi, tra tutti e scelti. Dio trasporta Israele – comunità solida come un solo volto, una sola voce, ma disgregata nello schianto del pettegolezzo – nel deserto, verso la Promessa. Eppure, parla a Mosè, al solo.

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Gli israeliti danno vocabolario allo stomaco: hanno fame. La fede è bilanciata dalla soddisfazione che ne trae l’intestino. La preghiera è fecale, digestiva. A pancia piena siamo tutti disposti a credere in un dio – dopo aver divorato il visibile, possiamo credere all’invisibile.

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Dio crea la vita dove non c’è vita, nel deserto. “Al mattino c’era uno strato di rugiada intorno all’accampamento. Quando lo strato di rugiada svanì, ecco, sulla superficie del deserto c’era una cosa fine e granulosa, minuta come è la brina sulla terra… è il pane che il Signore vi ha dato in cibo” (Es 16, 14). Che lancinante ironia: Israele riconosce Dio perché Dio concede il cibo dove cibo non c’è. Servizio catering in pieno nulla. La manna è la dolcezza nell’impervio e nell’aspro. Di mattina, il deserto, ricoperto di brina, pare una lastra di luce.

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Certo, il cristianesimo è una questione di cibo. Come gli israeliti nel deserto, quelli che seguono Gesù – ma non sono suoi seguaci – vogliono soddisfare le voglie dello stomaco (“mi cercate… perché avete mangiato e siete stati saziati”, Gv 6, 26). Per questo, per approcciare Dio, è decisivo il digiuno, convertire l’intestino in un serpente che dorme.

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“Rivestitevi dell’uomo nuovo” (Ef 4, 24), dice Paolo. L’uomo deve cambiare pelle, come il serpente, e lasciare la carcassa al favore dei necrofili.

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“Impegnatevi non per il cibo che muore, ma per quello che resta per la vita eterna, che vi darà il Figlio dell’uomo” (Gv 6, 27). Il cibo è equivalente al denaro: è ciò che sazia, che dà una vita ‘piena’. Ma non bisogna essere mai sazi, mai paghi – occorre ripiegare, correndo, verso la rinuncia. Bisogna fare spazio, nel corpo, a Gesù: se il corpo è già pieno, Gesù non accede, non accade.

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Credere è cadere – sapendo che uno, alla fine, prenderà il calco del tuo viso, proprio del tuo. “Sono il pane della vita, chi viene a me non ha fame, chi crede in me non avrà mai sete” (Gv 6, 35).

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Il cibo che offre Gesù è il corpo, il suo. Gesù ci implora di mangiarlo. Chi ha il coraggio di mangiarlo? Chi ha la forza di non volere altro che quel cibo?

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Il cristianesimo è radicale, è concreto: sostituire al cibo terreno il corpo di Cristo, il solo cibo. La vita, stipando la metafora, è deserto: per evitare che l’uomo divori il prossimo suo, Gesù si offre, mangiate me.

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Affilare i denti per mangiare Dio. Richiede addestramento. (d.b.)

Gruppo MAGOG