28 Agosto 2018

“Il sogno dell’India multiculturale di Gandhi oggi è in serio pericolo”: dialogo con Carlo Buldrini

Certo, c’è l’incontro con Indira Gandhi, memorabile. Accadde il 4 novembre del 1981. La chiusa emoziona. “Al termine dell’intervista strinsi la mano a Indira Gandhi. Mi accorsi allora di quanto fossero piccole e fragili le mani di quella donna che era stata spesso accusata di usare il pugno di ferro”. Indira conferma ciò che Carlo Buldrini sa ormai da tempo. “Quello che tiene unita la gente in India non è la religione, non è l’appartenenza a una stessa etnia, non è la lingua e non è neppure un particolare sistema politico o economico. A unire gli abitanti di questo Paese è un senso di «indianità», un vincolo di appartenenza. Questo, malgrado le differenze etniche, linguistiche e religiose che ci contraddistinguono”. Buldrini, che è stato addetto reggente dell’Istituto Italiano di Cultura a New Delhi e ha insegnato all’università islamica di Delhi, è partito per l’India sull’onda del Sessantotto, dei Beat e con Siddharta sotto al braccio, come tanti. Come pochi, però, anzi, come nessuno, ha conosciuto l’India per davvero, al di là dei lisergici pregiudizi occidentali. Certo, c’è l’incontro con Jiddu Krishnamurti, folgorante. Buldrini ne è affascinato dagli anni Settanta, lo ascolta, lo intervista a Rishi Valley, nel dicembre del 1982. “Vivere con la morte significa vivere senza violenza, senza attaccamento. La morte e la vita non sono separate. Finire significa cominciare”, dice Krishnamurti a Buldrini. Ma c’è altro, oltre a questi incontri formidabili, in quel continente dove gli dèi danzano un ballo sfrenato e le contraddizioni emergono, dilanianti. Cronache indiane (Lindau, 2018, pp.304, euro 23,00; in copertina una fotografia di Buldrini ritrae “una marionetta yakshagana risalente ai primi anni del secolo scorso”), che va letto sinotticamente agli altri libri di Buldrini (Pellegrinaggio buddhista e Lontano dal Tibet, sempre in catalogo Lindau), non è soltanto un registro di reportage, dal sapore intenso. Il libro ha l’effetto di un risveglio dopo lunga gestazione onirica: l’India, appunto, non è l’Eden di chi cerca ristoro dagli afrori d’Occidente – è una terra brulicante di dolore e di stupore. Così, il libro di Buldrini, che ha abitato trent’anni in quel Paese senza negarsi nulla, senza fare sconti all’utopia occidentale, fa l’effetto di un vasto romanzo, che passa dal Kumbha Mela (“Osservai i miei compagni di viaggio e, improvvisa, ebbi la sensazione di essere salito sul treno della morte”) alla storia di Phoolan Devi, la bella maledetta, che “aveva collezionato taglie per 225.000 rupie e 66 mandati di cattura. Rapina a mano armata, sequestro di persona, strage”, raccontata con il piglio dello scrittore assai attrezzato (“Dopo aver aspettato a lungo, la gente poteva finalmente vederla. Era salita sul palco per la cerimonia di resa. La giovane donna era tesa, con lo sguardo assente. Aveva gli zigomi sporgenti, le labbra carnose e una grande benda rossa che le fasciava la fronte. Era piccola di statura. La canna dello spietato Mauser 315 che teneva tra le mani con il calcio piantato a terra, le arrivava all’altezza del cuore. Si chiamava Phoolan Devi. Aveva ventisei anni ma sembrava una ragazzina”). Da qui, da questo atavico, demonico desiderio d’India che preda tutti almeno una volta nella vita, s’alza il dialogo con Buldrini. (d.b.)

cronache indianeParto da lontano: quando nasce il suo amore per l’India, e perché? Folgorazione meridiana, studi, incontri, l’egida del caso, cosa?

Quest’anno, con libri, articoli di giornale e trasmissioni televisive si è celebrato il cinquantenario del “Sessantotto”. In verità ci sono stati due Sessantotto. In Italia, quello ufficiale, racconta di lotte studentesche (“Abbasso la scuola dei padroni”) che si saldarono con quelle degli operai. C’è stato poi un altro Sessantotto, meno provinciale e che veniva da lontano. Era la continuazione di un sogno che fu già del movimento Beat e dell’Underground americano, fino ad arrivare agli Hippies, i Figli dei fiori. I giovani che appartenevano a questo spezzone del movimento credevano in un mondo migliore, senza la violenza, senza le guerre, senza lo sfruttamento economico, senza il consumismo borghese. Per questi giovani, l’India aveva un’importanza particolare. Il “Viaggio in India” non era un’avventura ma un ritorno; un ritorno alle origini, alle fonti della civiltà, a quel sacro Oriente dove ogni giorno sorge il sole. Ho vissuto in quegli anni completamente immerso in questa “contro-cultura”. Lessi anch’io Siddhartha di Hermann Hesse e il Diario indiano di Allen Ginsberg. Già allora, in oscure stanze che odoravano di incenso e di hashish, ascoltavo le musiche ipnotiche che uscivano dal sitar di Ravi Shankar accompagnato dai tabla di Alla Rakha. Ricordo – era il 1967 – che in un cineclub di Roma, il Filmstudio, vidi il film in bianco e nero di una conferenza del filosofo indiano Jiddu Krishnamurti. Uscito dalla piccola sala cinematografica, mentre camminavo nel Lungotevere romano, pensando a Krishnamurti mi dissi: “Questo lo devo conoscere”. Con queste premesse, il mio “Viaggio in India” fu inevitabile. Ed è durato trentadue anni.

Mi avvicino. Ancora oggi, per noi, alla provincia del mondo, India è Siddhartha, il bagno rituale nel Gange, documentari patinati, tramonti abbacinanti, Mowgli, Kim, Tiziano Terzani e magari un romanzo di Salman Rushdie, I figli della mezzanotte. Al di là del dato culturale mediato, cos’è oggi l’India? Con quali aggettivi la descriverebbe? Da dove, soprattutto, possiamo partire per conoscerla?

Per conoscere l’India bisogna innanzitutto spezzare le lenti deformanti attraverso le quali, per secoli, l’Occidente ha guardato a questo paese. Un esempio. Fin dall’antichità, l’Occidente ripete che l’India è un paese “spirituale”. È proprio così? Ho avuto modo di affrontare l’argomento nel corso di una lunga intervista che ho fatto a Indira Gandhi alla vigilia del suo primo (e ultimo) viaggio in Italia come primo ministro dell’India. A questo riguardo, Indira Gandhi mi ha detto: “È molto romantico mettere al centro dei propri discorsi la spiritualità indiana. Ma io credo che nella nostra gente ci sia la stessa combinazione di spiritualità e di materialismo che caratterizza tutti gli altri popoli del mondo”. Ha poi continuato: “Nei tempi antichi siamo stati abili costruttori di navi, esperti navigatori, scaltri commercianti. Abbiamo dato vita alla più importante industria tessile del mondo e abbiamo costruito città e fortezze inespugnabili. Kautilya, che visse nel III secolo a.C., con il suo Arthashastra ha anticipato per molti versi il vostro Machiavelli. Gli indiani hanno prodotto una raffinata letteratura urbana e le loro sculture sono famose in tutto il mondo per la loro sensualità. Come avremmo potuto fare tutto questo se fossimo stati quasi esclusivamente un popolo spirituale?”. Dunque, per cercare di conoscere l’India, bisogna iniziare con l’eliminare tutti gli stereotipi con cui l’Occidente l’ha sempre descritta. Bisogna poi procedere con cautela, senza arrivare a conclusioni affrettate. Parlando dell’India, Amartya Sen, indiano, premio Nobel per l’economia (1998), è solito citare la sua vecchia insegnante, Joan Robinson, che gli diceva: “Qualsiasi cosa vera tu dica dell’India, è vero anche il contrario”. Per descrivere l’India si può dunque usare qualsiasi aggettivo. L’importante è aggiungervi, subito dopo, anche l’aggettivo di significato contrario.

Qual è stato l’incontro ‘indiano’, tra i tanti, che la ha più impressionata?

L’incontro per me più importante è stato quello con il filosofo indiano Jiddu Krishnamurti. L’ho intervistato a lungo nella sua scuola di Rishi Valley, in Andhra Pradesh, quando Krishnaji era già vecchio e malato. Ma non sono stato il solo a essere colpito dall’incontro con questo personaggio. Lo scrittore e filosofo inglese Aldous Huxley, dopo aver ascoltato a Saanen, in Svizzera, un discorso di Krishnamurti, scriverà a un amico: “È stata una delle cose più impressionanti che io abbia mai sentito… È stato come ascoltare un discorso del Buddha, tale è stata la sua forza, la sua innata autorità, il suo rifiuto senza compromessi di offrire all’homme moyen sensuel una via di fuga, un surrogato, un guru, un salvatore, una guida, una chiesa”. Krishnamurti è stato un filosofo e un rivoluzionario. Diceva che l’individuo deve essere completamente libero. Negava ogni autorità spirituale. Affermava che tutti i credo, tutti gli ideali, altro non sono che tragiche illusioni. Paralizzano l’uomo e distorcono il suo rapporto con la natura e con gli altri esseri umani. Sono stati questi credo e questi ideali a creare conflitto nel mondo. L’uomo deve invece cercare la verità dentro di sé. Nessuna religione, nessun insegnamento, nessun testo sacro, nessun guru, possono aiutarlo a liberarsi. Nel corso della mia lunga intervista (riportata integralmente nel mio libro Cronache indiane, Lindau 2018) ho chiesto a Krishnamurti: “Esiste un limite tra libertà individuale e responsabilità collettiva?”. Krishnamurti mi ha risposto: “Esiste davvero l’individuo? In ognuno di noi è racchiusa l’intera coscienza dell’umanità. Ognuno di noi è il mondo. Tutti gli uomini hanno in comune la medesima coscienza. Quando si capisce questo diventa impossibile uccidere un altro essere umano”.

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Carlo Buldrini con Indira Gandhi, intervistata il 4 novembre 1981

E qual è stato, invece, l’episodio che è stato fonte di turbamento?

Tra i tanti, ne cito uno molto piccolo e apparentemente insignificante. Era il 1971 ed ero in India da pochi mesi. Frequentavo i corsi della School of Planning and Architecture, la scuola di urbanistica e di architettura di New Delhi. Con un piccolo gruppo di studenti della facoltà ci recammo in un villaggio dell’Haryana per studiarne la struttura sociale che, in India, vuole dire la divisione in caste. Camminando tra le casupole di fango del villaggio, ricordo che vidi un baracchino di legno dove si vendevano sigarette e paan, le foglie di betel che gli indiani masticano con avidità. Si avvicinò un uomo corpulento vestito con una dhoti e un kurta bianchi. Chiese tre sigarette. Le sigarette vennero poste su una specie di mensola di legno che sporgeva dal piccolo chiosco. L’uomo le prese e, per pagare, gettò a terra, tra la polvere, i pochi centesimi di rupia del costo delle sigarette. “Perché ha fatto questa cosa?” chiesi ai miei compagni di corso? “È un brahmino – mi risposero – e, pagando, ha voluto evitare di toccare le mani del venditore di sigarette”. “È un pezzo di merda!” esclamai. I miei compagni furono sorpresi dalla mia reazione. Per loro era tutto normale. Sono tremila anni che l’India funziona così… Questo episodio ci riporta agli stereotipi occidentali. Tiziano Terzani, famoso giornalista, arrivato in India è caduto anche lui nelle solite banalità che si scrivono nel raccontare un’India “mistica e spirituale” che, spesso, non c’è. A proposito del modo di salutarsi degli indiani, Terzani scrive: “Noi ci stringiamo la mano dopo averla aperta per mostrare che non nascondiamo armi. Qui [in India] la gente unisce le mani al petto e si dice reciprocamente namasté, saluto la divinità che è in te”. Terzani evita di dire che il vero motivo per cui gli indiani si salutano con le mani giunte è perché sono terrorizzati dall’idea di poter toccare le mani di una persona di casta inferiore.

Come si conciliano (se si conciliano) musulmani e hinduisti? Ricordo, a proposito, i saggi di Naipaul… la convivenza è possibile, difficile, satura di futuro?

Per poter rispondere a questa domanda, serve una premessa. Nel 1947, con la partition, la drammatica “spartizione” dell’India, nacquero due stati indipendenti, l’India e il Pakistan. Ma mentre il Pakistan diventò una nazione confessionale di fede islamica, l’India scelse di essere una democrazia in cui tutte le religioni potevano convivere pacificamente tra loro. La partition provocò “la più grande migrazione umana della storia”. Milioni di musulmani si trasferirono in Pakistan e milioni di hindu trovarono rifugio in India. Ci furono violenze efferate, con decine di migliaia di morti. Nel nuovo Pakistan trovarono dimora i musulmani ricchi e potenti, ansiosi di diventare la classe dirigente di un nuovo stato islamico disegnato tutto per loro. Fuggirono in Pakistan anche molti musulmani poveri che vivevano nelle regioni dell’India situate a ridosso della nuova – e assurda – linea di confine tracciata dalla matita dell’inglese Sir Cyril Radcliffe. Ma molti musulmani altrettanto poveri che vivevano nel vasto territorio indiano lontani dalla nuova linea di confine, anche per mancanza di mezzi, decisero di rimanere in India. È così che oggi, in India, ci sono 180 milioni di musulmani, il 14,9% della popolazione totale. Musulmani e dalit, gli ex “intoccabili”, costituiscono le due sezioni più oppresse della società indiana. (I dalit, che sono 200 milioni, sono chiamati anche “intoccabili” perché dediti ai mestieri impuri, trasportare le carogne degli animali, pulire le latrine). Ma torniamo ai musulmani dell’India. Il partito del Congresso di Indira Gandhi li ha sempre sostenuti ricevendone in cambio il voto durante le elezioni politiche. La cosa ha provocato a Indira Gandhi forti critiche da parte dei gruppi fondamentalisti hindu. Con il declino del partito del Congresso, che fu già del Mahatma Gandhi, di Nehru e di sua figlia Indira, ha preso sempre più forza in India il Bharatiya Janata Party (Bjp), un partito nazionalista hindu. Si arriva così alle ultime elezioni politiche generali indiane (2014) dove il Bjp di Narendra Modi ha ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi nella Lok Sabha, il parlamento di New Delhi. Ma il Bjp è un partito “di facciata”. Alle sue spalle opera la potente organizzazione hindu chiamata Rashtriya Swayamsevak Sangh (Rss), l’Associazione dei volontari nazionali. Questa organizzazione nacque nel 1925 e, negli anni ’30, si ispirò direttamente al fascismo di Mussolini e al nazismo di Hitler. M.S. Golwalkar che ricoprì la carica di “leader supremo” dell’Rss, scriverà parole di elogio della Germania nazista che “per mantenere la purezza della sua Razza, ha purgato il Paese delle sue Razze semitiche: gli Ebrei”. E aggiunse: “Questa è una buona lezione che noi nell’Hindustan dobbiamo imparare e da cui dobbiamo trarre profitto”. Sarà un ex militante dell’Rss, Nathuram Godse, ad assassinare nel 1948 il Mahatma Gandhi, accusato di appeasement nei confronti dei musulmani. Ancora oggi i militanti dell’Rss vedono nei musulmani e nei cristiani dell’India degli intrusi, appartenenti a due religioni che definiscono “non indiane”. È così che nell’India odierna di Narendra Modi, sempre più spesso musulmani e dalit – molti di questi ultimi convertiti al cristianesimo – vengono linciati in pieno giorno perché accusati di uccidere la vacca che gli hindu ritengono essere sacra. Con l’ascesa al potere del Bjp, il sogno che fu già di Nehru e di Gandhi di un’India laica, multiculturale, inclusiva e nonviolenta, sembra essere improvvisamente svanito e la convivenza tra hindu e musulmani è messa seriamente in pericolo.

Cosa le ha lasciato l’India?

Rispondo a questa domanda brevemente. Dei trentadue anni in cui ho vissuto in India, per almeno venti di essi sono stato molto povero. Dopo i due anni della borsa di studio offerta dal governo indiano, decisi di rimanere in India perché mi interessava studiare a fondo quel paese. Ma non avevo un lavoro fisso e uno stipendio. Scrissi, molto saltuariamente, per alcuni giornali italiani e cominciai a insegnare la lingua italiana per poche rupie al mese. In quegli anni in cui ero molto povero, anche l’India era molto povera. Questo mi permise di vivere come gli indiani e di rimanere in stretto contatto con loro. Potei così capire a fondo quel paese. E questo mi permise anche di ascoltare e a volte di farmi cullare da quella che Gandhi chiamava “la musica triste e dolce dell’umanità”. Questo è quello che l’India mi ha dato e questo è quello che porto ancora dentro di me.

 

 

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