29 Marzo 2024

Il giusto tormento. Ritorniamo a confrontarci con il mistero. Dialogo con Emiliano Fiori

Nel piccolo bar di campo San Basegio, a Venezia, cerchiamo di farci spazio in uno stretto angolino. L’intento è di stare per i fatti nostri ma qui all’inizio sembra difficile: la cameriera ci sposta di tavolo un sacco di volte, non va bene dove ci siamo seduti; e poi non ha capito cosa abbiamo ordinato. Alla fine, con calma, iniziamo a parlare. A dire il vero con Emiliano Fiori ho iniziato a parlare mesi fa, quando su consiglio di una mia professoressa ero andata a bussare alla porta del suo ufficio di Cà Foscari. È lì che è approdato come professore e ricercatore ormai da diversi anni, dopo un lungo peregrinare di studi in varie città d’Europa. In quegli anni ha studiato la storia intellettuale del cristianesimo antico, con sguardo particolare per l’opera di Dionigi Areopagita (autore del VI secolo, fondamentale per la mistica europea), per l’apocalittica cristiana e per la mistica siro-orientale, di cui mi fa fare la conoscenza.

Ad uno dei numerosi colloqui che sono seguiti a quel nostro primo incontro mi ha detto che per lui la fede non si scontrava contro il dubbio quanto piuttosto contro l’indifferenza, “contro l’accidia dei giorni” aveva detto. Anche per me è così, certamente. Anche se forse alla mia età il nemico dello scetticismo è quello che si fa più sentire. Al nostro pranzo gliene parlo, lui sorride, mi racconta di quella vignetta di Andrea Pazienza che aveva creato tanta indignazione in ambito ecclesiastico. L’immagine raffigura Papa Giovanni Paolo II che, avvolto in un comodo accappatoio e con un cocktail in mano, osserva il cielo stellato dalla sua lussuosa dimora. Preso dal mistero della volta celeste si interroga: “e se esistesse veramente?” E poi: “Ih!… Mavvedi cosa vado a pensare…”. A figurarmi la scena rido, non sono certa di avere afferrato. Poi il mio interlocutore si fa più serio. “La vignetta – mi dice – rappresenta bene quel contrasto tra fede e ragione. La differenza è a quale parte decidiamo di far prendere il sopravvento”.

Cos’è la mistica?

Per mistica, di solito, si intende oggi genericamente, senza pensarci troppo, qualcosa come l’estasi o l’intimità col divino, o comunque con una dimensione di mistero. Ed è questa seconda, tutto sommato, una definizione più adeguata. Soprattutto, oggi c’è la percezione diffusa che non si dovrebbe aver bisogno di una mediazione per attingere stati mistici; ma si dovrebbe ricordare che anticamente, la parola “mistica”, a livello etimologico, contiene almeno tre cose: una è sì il mistero, però ci sono anche la dimensione dell’iniziazione e quella del rito. Un rapporto col mistero presuppone, cioè, una forma di iniziazione: uscire da una dimensione per venire educati a comprenderne un’altra. Questa tendenzialmente passava sempre per una forma rituale, tanto che il mysterion in greco voleva significare innanzitutto un’azione rituale, prima che qualcosa di cui non si ha conoscenza. Era solo all’interno di questa azione rituale che si veniva iniziati e si poteva avere un contatto con la divinità. Nei misteri di Eleusi, ad esempio, l’iniziazione comportava l’epoptèia, che era una qualche forma di visione del divino. Quindi in realtà la parola “mistica”, in origine un aggettivo derivante da mysterion, implica al suo fondo coscienziale questo plesso di dimensioni: rituale, iniziatica e solo allora di mistero. A noi oggi è rimasto solo il mistero, senza la parte iniziatica.

Ma la mistica può esistere senza questi strati?

A mio avviso no, anche se ho l’impressione che oggi si tenda a pensarlo. Non voglio dire che questa iniziazione debba essere necessariamente “ecclesiastica”. Per esempio, in diverse tradizioni della letteratura monastica cristiana del primo millennio, soprattutto quella siriaca, i sacramenti non hanno un ruolo di primo piano, anche se per lo più (a meno che non si tratti di scritti che poi hanno finito per essere bollati a vario titolo come “eretici”) non c’è alcuna ostilità al sacramento: semplicemente, i sacramenti non sono al centro dell’attenzione. L’iniziazione è piuttosto la via ascetica, che ha delle sue regole e una sua ritualità. E con “iniziazione” non intendo nulla di esoterico, si tratta semplicemente della consapevolezza che si deve aderire a una pratica per avere un contatto misterico col divino. Non si ha un ingresso immediato: si deve avere una formazione, che nel caso del monaco è l’ascesi. Questa dà accesso a sacramenti di una qualità superiore, che vengono ricevuti in una dimensione interiore (gli altari “del cuore” o “dell’intelletto” delle tradizioni di Evagrio e dello pseudo-Macario). Oggi invece si associa più che altro la mistica all’idea di un’estasi indotta e/o immediata, che viene soprattutto dalle controculture degli anni ’60 e ’70. È l’idea che si possa avere un’esperienza di tipo estatico senza affrontare davvero un cammino impegnativo, magari accorciandolo con la droga, con una visita al guru, un viaggio, o un’illuminazione improvvisa. In generale, comunque, cosa sia la mistica e il contatto col divino non è una cosa che interessi molto nel discorso generale della società contemporanea.

E dovrebbe invece interessarci?

Altroché. E in particolare sarebbe necessario tornare ad associare il concetto di disciplina (che è strettamente legato a quello di ritualità) all’idea di un percorso di realizzazione interiore. Oggi, se parliamo di disciplina, tendiamo a pensarla come finalizzata al benessere, al fare una dieta, in particolare per ottenere un corpo più bello, al fare sport. Le forme di disciplina della cultura comune, che possono essere anche molto rigide, non sono finalizzate al perfezionamento interiore ma a quello esteriore. Se va in una palestra vede molta disciplina ma decisamente poca spiritualità. Le discipline dello sport, del corpo, delle diete, tendono all’eccellenza dei risultati ma sono risultati esteriori: il far mostra di sé ecc. Sono tutte forme di disciplina che portano a un potenziamento dell’ego, non a una sua riduzione, che è invece ciò che cerca di fare una disciplina di perfezionamento interiore. Diciamo che alla radice c’è la perdita di consapevolezza dello spirito come dimensione reale, l’idea che nell’uomo ci sia questa componente e quindi anche l’idea di una disciplina volta a plasmarla e indirizzarla. È qui che sta la radice della perdita dei percorsi mistici.

Come abbiamo perso questa consapevolezza?

Questa è una domanda enorme, la cui risposta rischia di essere banale, trita. Posso se mai semplificarmi il compito dicendole che mi ha sempre colpito l’idea di Roberto Calasso della nostra epoca come epoca dell’inconsistenza, in cui non solo non ha consistenza reale lo spirito ma, aggiungerei, non ha consistenza niente. Oggi si tende a non dare consistenza nemmeno al corpo. Tutto si smaterializza, tutto perde consistenza, non solo lo spirito, che è invisibile, ma anche il corpo, che ha una consistenza fisica – paradossalmente, visto che il modo in cui i nostri corpi appaiono è oggi importantissimo. Ma appunto è importante come appaiono, non come realmente sono. I fattori comunque sono quelli noti: la rivoluzione industriale, il predominio di un paradigma scientifico ed economicista e ora del transumanesimo tecnologico, una delle ideologie più inquietanti di sempre… Questi fattori hanno completamente estroverso la formazione del sé dal dentro al fuori – il transumanesimo, in particolare, fuori dell’umano stesso.

Come si può recuperare la cura per questa parte dell’uomo? Le religioni hanno un ruolo in questo percorso?

Oggi capita che molte persone si sentano più attratte da religioni severe, che pretendono un totale impegno della persona. Non per nulla c’è gente che si radicalizza con l’islam. Non tanto da noi ma per esempio negli Stati Uniti o in Inghilterra si tende a scegliere l’ortodossia o il cattolicesimo tradizionale, e nella galassia protestante le correnti evangelical non sono certo progressiste. Le Chiese storiche, invece, inseguendo il mondo, come dicono certi analisti (e io sono d’accordo), danno alla gente ciò che in realtà si può trovare anche senza chiesa e senza doversi mettere in gioco su un piano spirituale o religioso. Perciò non sorprende che forme rigorose di religione possano essere più attraenti, pur non riuscendo comunque ad attrarre grandi numeri. E poi tendono a non essere molto nutrienti, visto che il loro rigore è spesso puramente formalista. Io credo comunque che oggi sia il tempo in cui, più che altro, vada tenuta accesa  una qualche fiamma per evitare che il fuoco si spenga. Tenere viva una fiamma, anche per una minima minoranza, è, forse, la forma profetica di questo tempo molto più che il tentativo di lanciare messaggi a grandi numeri di persone. A livello collettivo, se mai, è una questione di sopravvivenza – non si può certo sperare in una “misticizzazione” del mondo in questo momento, anche perché in un’epoca disincantata come questa si tratterebbe inevitabilmente di un processo inautentico e a forte rischio di deriva teocratica (si veda l’ISIS per un esempio recente). Ci sono forze che si oppongono alla coltivazione del mistero e dello spirito, e in questo momento sono particolarmente violente. Ma poiché queste forze agiscono innanzitutto nei cuori dei singoli, allora è quello il primo terreno su cui devono essere combattute.

Vero, anche se in realtà ho la sensazione che sia sempre stato così: lo spirito è sempre stato in crisi.

Lo spirito è sempre in crisi, è in crisi fin da quando è stato dato: se vogliamo stare al racconto degli Atti degli Apostoli, non appena i cristiani ricevono lo spirito vengono subito perseguitati. Però è anche una questione di stili o paradigmi di vita, che potremmo vedere come prolungamenti inseparabili degli stili o paradigmi di pensiero ideati da Ludwik Fleck e da Thomas Kuhn dopo di lui. Oggi siamo immersi nel paradigma scientista ed economicista, che si impone con forza a livello collettivo. In passato invece c’era uno stile di vita e di pensiero che, nonostante le controversie, favoriva lo sviluppo dei frutti dello spirito. I santi sono sempre stati pochi. Ma i paradigmi precedenti orientavano la vita dell’uomo al mistero e al trascendente, creando un terreno di coltura più favorevole. Oggi questo è completamente rovesciato: il paradigma orienta la sua visione del mondo in senso opposto e quindi l’opera degli pneumatofori (i portatori dello spirito) è più difficoltosa e nasce meno spontaneamente. La pneumatoforia esiste, perché è una possibilità dell’umano, ed è abbastanza rara perché lo è sempre stata; oggi però non ha un terreno fertile e quindi, a livello collettivo, ci si dovrà limitare per ora, più che altro, a far sopravvivere lo spirito, più che a farlo vivere. Dico questo, ma allo stesso tempo mi viene in mente quello che diceva Walter Benjamin, ossia che in realtà il momento del pericolo è anche il momento più fecondo, quello in cui può venire fuori un frutto veramente significativo.

Lei come affronta il dissidio tra il desiderio di abbandonarsi allo spirito e al mistero e l’istanza più razionalistica, che fa quasi da carceriere?

Diciamo che il carceriere, nel mio caso, come nel caso di chiunque studi, è molto ben nutrito, perché il carceriere non è altro che il buon senso e la ragione, che più vengono nutriti di conoscenze e di capacità dialettica più sono spinti a dubitare. Questo però non vuol dire che abbiano sempre ragione di farlo: la dimensione del mistero e della sua percezione è talmente eterogenea rispetto a quella su cui lavora la ragione che le due attività non dovrebbero interferire, sebbene finiscano sempre per farlo. Interagiscono perché fanno entrambe parte dell’uomo, e questa interazione diventa conflittuale perché la ragione si trova davanti a qualcosa che è il completamente altro da sé, che non conosce e che non può legittimare.

Anche qui mi fa piacere citare Roberto Calasso, un autore che ammiro perché ha mostrato come una finezza intellettuale e del gusto quasi esasperata, e un’erudizione “invasata”, non debbano portare alla negazione di una dimensione misterica (e questo a prescindere dalla mia opinione personale sulla concezione calassiana di cosa sia mistero). A un certo punto ne Il cacciatore celeste c’è una frase davvero illuminata. Si riferisce alle ere storiche ma si può applicare lo stesso ragionamento anche alla propria interiorità, e a questo conflitto tra ragione e mistero. Calasso scrive che è inutile deridere gli antichi per le loro superstizioni relative a cose che loro consideravano misteriose per ignoranza e che poi noi abbiamo decifrato: “non si tratta di mettere a confronto il nostro noto con il loro ignoto, il che non può avvenire se non con un certo tono di sufficienza. Si tratta di mettere a confronto il loro ignoto con il nostro ignoto, come accostando due infiniti”. Il mistero rimane anche per noi, rimaniamo anche noi ignoranti di un’incommensurabile quantità di cose, e quindi anche noi siamo in una posizione di ignoranza esattamente come gli antichi. L’unica cosa che è cambiata sono i confini e la qualità del mistero; il mistero però c’è ancora. Il mistero è una dimensione irriducibile, e che ci appartiene, quindi perché dovremmo reprimerla? Tendiamo a reprimerla perché pensiamo che il mistero siano semplicemente cose che non conosciamo, ma che conosceremo. È l’argomento di certo ateismo contemporaneo: si constata questo continuo dilatarsi della ragione e se ne deduce che prima o poi la ragione si mangerà il mistero. Ma proprio il fatto che la ragione si dilati indefinitamente non depone a favore dell’idea che a un certo punto arriveremo ai confini del Tutto. E poi rimane il fatto che, come diceva Hermann Broch in Sortilegio, la vita dell’uomo è “murata tra due tenebre”, la nascita e la morte. Io sono tra quelli pronti a scommettere che le nostre conoscenze non avranno mai ragione di queste due pareti di tenebra.

La mistica siriaca, di cui lei si occupa nello specifico, che tipo di fenomeno è? Ci può aiutare a recuperare una dimensione di spiritualità? Ad acquietare la ragione e ad abbandonarci al mistero, a renderci meno prometeici, meno razionali, più umani?

Si tratta di un fenomeno religioso più o meno limitato alla Mesopotamia del VII e dell’VIII secolo, che, prima ancora che “mistica”, andrebbe definito “ascetica”. Inizialmente, peraltro, non riguarda nemmeno tutte le Chiese siriache storiche ma solo quella imprecisamente detta “nestoriana”. È una letteratura estremamente pratica, che si rivolge a chi vuole intraprendere la strada del monachesimo, per dare consigli e spiegare determinati fenomeni che emergono durante il percorso ascetico. È quindi una letteratura (entro certi limiti) molto terra terra; tuttavia, descrive un percorso che, nella sua parte finale, fa un salto qualitativo: dallo sforzo al dono. Poi nel cercare di dare una fenomenologia di questo salto qualitativo se ne riconosce anche l’ineffabilità: è una descrizione che, come in ogni mistica, può essere fatta solo per accenno, approssimazione o metafora: basti pensare a quando Isacco di Ninive (VII secolo) parla di come si trasforma la preghiera dopo questo salto, chiamandola “non-preghiera”. Quello che comunque caratterizza questa mistica è il suo equilibrio specifico e irripetibile di apporti culturali. Riceve infatti l’ascetica di Evagrio Pontico (IV secolo), che era molto astratta (quanto meno nel linguaggio, perché noi ignoriamo pressoché tutto dell’esperienza personale di Evagrio); ma contemporaneamente anche la teologia del molto meno noto autore greco Teodoro di Mopsuestia (IV-V secolo), che è invece molto concreta, molto storica, ma soprattutto ha un’impostazione radicalmente “pedagogica” del rapporto di Dio con l’uomo. Nel paradigma cristiano comune, l’uomo è portato da una condizione di perdita di una perfezione iniziale a una di riscatto: c’è la caduta e la risalita, grazie all’intervento di Cristo; a monte, quindi, c’è uno stato di perfezione da recuperare. Invece in Teodoro di Mopsuestia c’è una crescita continua che inizia da una imperfezione originaria: l’uomo non diventa mortale perché ha peccato (come in tutte le altre tradizioni cristiane) ma nasce mortale e per questo diventa peccatore: l’uomo esce già imperfetto dalle mani di Dio, come un bambino che il Padre educherà e aiuterà a rafforzarsi. Si rovescia quindi l’ordine e questo fa sì che l’uomo, nel paradigma teodoriano (che è poi quello fondamentale dei mistici siriaci) non ha una perfezione dietro di sé che dev’essere recuperata, ma ce l’ha solo davanti a sé. Dio, in questo percorso, educa i propri figli attraverso la loro stessa storia. Negli altri monachesimi questa concezione pedagogica, che nel cristianesimo siro orientale è strutturale, è meno accentuata.

In modo particolare fu la personalità di Isacco di Ninive, nucleo irradiante di questa letteratura, a dare un prodotto originale. Isacco riprende con forza questa antropologia teodoriana secondo cui, dato che l’uomo è uscito imperfetto dalle mani di Dio, in realtà il punto in cui può incontrare Dio è proprio nella sua imperfezione. L’ascesi serve, infatti, a incatenare l’uomo alla sua imperfezione, non a perfezionarlo, divinizzarlo. Quella dell’uomo che si deve perfezionare e divinizzare è una concezione greca; nella mistica siro-orientale, invece, il perfezionamento coincide con l’incatenare la propria umanità alla sua fragilità costitutiva. Nell’ascesi ci rendiamo conto di quanto fragili e imperfetti siamo e di quanto, di conseguenza, abbiamo bisogno di Dio. È solo a quel punto che la grazia arriva. L’educazione dell’uomo parte da questa imperfezione originaria.

È chiaro che anche nel modello greco-latino l’uomo non può fare niente senza l’aiuto di Dio; però la convinzione, in questo modello, che vi sia una perfezione da recuperare espone a un maggiore pericolo di ‘prometeismo’. È più facile esaltarsi, se si ha per meta la perfezione. Per questo tutta l’ascetica, d’Oriente e d’Occidente, valorizza tanto l’umiltà: la superbia è il vizio più fatale. L’umiltà è fondamentale anche nella mistica siriaca e in Isacco di Ninive, ma per una ragione diversa: perché la meta è proprio l’esperienza radicale della propria imperfezione. O meglio: la meta è la grazia, ma essa si raggiunge per via di imperfezione, non per via di perfezionamento. Si tratta di una sfumatura, ma è una sfumatura fondamentale: in Isacco si deve stare incatenati alla propria imperfezione, coltivarla. Egli fa di questa imperfezione il faro e lo strumento della propria ascesi. L’uomo non è altro al di fuori di quella imperfezione. L’uomo è quel mucchietto di fango su cui Dio ha soffiato. Questa idea è quella che ha imposto Isacco a tutto il mondo cristiano; ne ha fatto addirittura una forza propulsiva in uno scrittore come Dostoevskij, che ha costruito il suo ultimo grande romanzo su questa idea e sulla struttura della vita ascetica: i tre fratelli Karamazov rappresentano le tre fasi della vita ascetica secondo Isacco di Ninive. Il suo messaggio spirituale è talmente essenziale, perché va talmente alla radice dell’umano, che tutti lo hanno colto subito.

Alla luce di questo emerge da sé la riposta alla domanda su che senso abbia leggere oggi questa mistica. In un’epoca in cui l’umano viene negato in un trascendimento ipertroficamente prometeico, una mistica che ci tiene invece radicati nell’umano e nella sua imperfezione è un antidoto potentissimo. È questo quindi che ha reso così rivoluzionaria la mistica siriaca, e che la può rendere così adatta oggi.

Quando si è reso conto che erano queste le cose di cui si voleva occupare? Quando ha capito che le risuonavano?

L’ho capito subito, appena le ho incontrate. Isacco di Ninive, anche se non è un autore affatto semplice, risuona con potenza, c’è poco da fare. Questo risuonare con potenza è stato aiutato anche dal fatto che mi è stato fatto leggere da persone che si erano compenetrate di lui come Paolo Bettiolo e Sabino Chialà. Loro lo avevano letto sia in modo scientifico che spirituale, erano entrati davvero in profondità nell’autore e me ne avevano restituito spontaneamente la ricchezza. E poi, sa: a un giovane spaesato di ventidue anni Isacco di Ninive non può non parlare, e io ero particolarmente spaesato. A una età del genere si è estremamente ricettivi: se si ha una postura esistenziale giusta, il giusto tormento e… la giusta depressione, Isacco travolge. Lo fa innanzitutto perché fa scoprire la dimensione di grazia che investe la debolezza degli uomini, investiti dalla grazia proprio in quanto deboli, nella loro imperfezione. Infatti, Paolo Bettiolo nella sua introduzione ai testi di Isacco parlava del travaglio di questo percorso e “della grazia che presto lo investe”; la letizia, che si accompagna alla grazia, è quasi intrinseca a questo stesso travaglio.

Per noi che non andiamo nei monasteri o nel deserto è possibile fare un percorso di ascesi?

Posto che è più diffuso di quanto si pensi un fenomeno di ascesi urbana, di eremiti all’interno delle città, è anche vero però che c’è una cosa su cui Isacco insiste sempre: che la via che egli insegna è la via della quiete (in siriaco shelya, una parola con cui si intende in primo luogo il ritiro eremitico e poi la condizione che lo contraddistingue). Isacco parla anche, ossimoricamente, di “mare in tempesta della quiete” perché la quiete è una dimensione in cui l’uomo si trova ridotto a sé stesso e quindi al tormento di affrontare sé stesso. Solo la quiete permette all’uomo di trovarsi di fronte a sé stesso nella sua nudità: qualsiasi altra dimensione mette degli intralci. Isacco non sostiene che l’uomo che resta fuori dalla cella monastica sia inferiore, non è una questione di superiorità o inferiorità, è proprio una questione di avere più o meno intralci nell’esser messi di fronte a sé stessi. Restando nel mondo o comunque in una qualunque dimensione sociale si moltiplicano i paraventi e soprattutto gli specchi, specchi deformanti: l’opinione che hai degli altri, l’opinione che gli altri hanno di te, l’opinione che tu vuoi che gli altri abbiano di te. Tutto questo falsa, non permette di essere nudi a sé stessi. Isacco concepisce il vivere nel mondo come un pericolo perché offre tutta una serie di strumenti di fuga – di fuga da sé stessi. I “vizi” stessi sono fughe. Paradossalmente: se vado nel mondo fuggo da me stesso, se invece fuggo dal mondo ritrovo me stesso, mi ritrovo con me stesso.

Quindi diciamo che per noi, oggi, una via come quella di Isacco è difficilmente percorribile, a meno che non viviamo come viveva lui. Però una voce come la sua, quanto meno, ci orienta, ci propone uno sguardo, un’attenzione che rifiuta l’idolatria degli attaccamenti, riconducibili a una fuga dalla propria debolezza: ritornare a sé stessi, alla propria essenziale nuda fragilità. Non è impossibile, anche vivendo nel mondo, però è molto più difficile. Isacco, comunque, ci propone una postura, un’attenzione a quella dimensione dell’umano in cui solo possiamo trovare un contatto col mistero.

*L’intervista è a cura di Bianca Cesari

*In copertina: Jusepe de Ribera, San Girolamo, 1640

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