22 Aprile 2024

“Seguo il destino delle vette”. Shih-shu, l’enigma della poesia cinese

Shih-shu è uno dei miracolosi enigmi della poesia cinese classica. Intanto, il nome. È fittizio, significa “pietre e alberi”, a indicare il tema lirico dominante del poeta – ma anche la sua indole: coriaceo è l’enigma di Shih-shu, duro a schiudersi, pietrificato nel segreto; vegetale la sua sapienza: chioma che imita le nubi, radici a nitor di serpe. Il suo nome compare in un’antologia della lirica cinese del 1703 che potremmo tradurre come “Le Armonie dei Tre Saggi”. Di Shih-shu si dice “che nel mondo era conosciuto come T’ung-yi” e che è, liricamente, un seguace di Hanshan, “Montagna Fredda”, eccentrico monaco-poeta vissuto nel IX secolo. Di “Montagna Fredda” – amato dai “vagabondi del Dharma” della Beat Generation, soprattutto da Gary Snyder e da Jack Kerouac – possediamo un’ottima traduzione anche in Italia, l’ha stampata nel 2013 l’editore Tararà.

Da ciò che ci è detto dalla vaga nota settecentesca, Shih-shu ha praticato per anni i metodi della poesia di “Montagna Fredda”: “ogni volta che incontravo magnifiche vette o fiumi imponenti, ascoltavo il vento bisbigliare e la luna ergersi splendida in cielo, non potevo fare a meno di intonare le sue brevi, cangianti poesie”. Prima di tutto: obbedienza verso il maestro – che sia morto secoli prima, è evento inconsistente. Soltanto dopo due decenni di vagabondaggi, il poeta – vissuto, si ipotizza, nel XVII secolo – trova un proprio linguaggio, riesce a domarne l’estro: di lui, incastonate nell’antologia sopra citata, restano un mannello di poesie, di sgargiante potenza, che il poeta realizzò “in meno di un mese”, colto da mania – o da improvvisa rivelazione.

“Per il momento, lascerò queste poesie a germogliare lontano dagli sguardi, tra le mie montagne. Forse tra cinquecento anni, qualcuno mi raggiungerà, aggiungendo alle sue le mie armonie”.

È lo studioso americano James Hugh Sanford (1937-2013) ad aver scoperto e tradotto il canzoniere di Shih-shu: nella sua vita da orientalista ha tradotto proprio “Montagna Fredda” (The View of Cold Mountain, 1982) e l’opera del poeta-monaco giapponese Ikkyū Sōjun (Zen-Man Ikkyū, 1981). Di Shih-shu – la cui opera, minima, è raccolta in alcune antologie in lingua inglese come The Clouds Should Know Me By Now: Buddhist Poet Monks of China, 1998 – ci viene detto, in sostanza, “che non possiamo sapere davvero chi fosse”, che l’unica fonte biografica di riferimento sono le sue poesie. Poesie, per altro, eterodosse, linguisticamente, rispetto alle formule standard della lirica cinese, mescolando “immagini e vocaboli derivati dalla tradizione alchemica taoista” e visioni “che si avvicinano ai concetti tantrici del buddismo esoterico, ad esempio quando il poeta insegna che ‘le passioni sono esse stesse illuminazione’”. La poetica di Shih-shu sembra invece conforme a quella dei pellegrini dell’infinito che usavano la poesia come via ascetica – “i suoi temi prevalenti sono la natura, la trasmutazione delle cose una nell’altra, la glorificazione della vita eremitica fatta di solitudine e povertà” – benché animati da una libertà ulteriore.

Shih-shu, per quel che possiamo capire, non è un mero contemplativo, non è un religioso totale: egli ‘violenta’ la visione, ne turba i canoni. Per intenderci: le sue poesie non danno l’idea di un rapace che plana, maestoso e intoccabile, ma dell’uccello che s’innesta nella preda, fino al barocco del sangue. Shih-shu – forse per fierezza della propria ‘marginalità’, magnanimità dei soli al mondo – non si preoccupa di essere ‘pulito’ nel dire, la sua poesia ha gli artigli. Il dubbio ne incrina la statuaria severità, a tratti pare baldanzoso il suo nichilismo; le sue sentenze non ci tolgono il fiato, ma ravvivano. L’idea che le nubi si inscrivano come versi tra gli abissi montuosi, e che al poeta non resti che registrarli, è efficace. Su tutto, regna il crudo privilegio di un’esistenza autarchica e offerta; la poesia come ‘sequela’, passaggio di fuoco, certo, ma anche conquista lapidaria, lampante lapidazione di sé.  

***

Shih-shu

(Cina, XVII-XVIII secolo)

il picco solitario spicca lontano, alto,
i suoi rivi sono gracili, ghiacciati, immobili:
in alto, ruotano in spirali le nubi – un fascio
di uccelli, caotiche rocche, uomini che parlano

le loro ossa: fiori bianchi di pruno
la loro carne: carici rigogliose
e dolci; la primavera reca inni di un
altro mondo, il tepore è la sua armonia

*

i ricchi temono di diventare poveri
per me la povertà è un privilegio
seguo il destino delle miriadi di vette:
qui non serve il denaro

tetto piastrellato di paglia presso un rivo
roccia in bocciolo che drappeggia la cancellata
di bambù: in inverno, vado a caccia del sole;
quando viene l’estate, mi apposto in riva al mare.

*

contro il dolce mattino primaverile che fluttua
l’arrogante rantolo di una carrozza;
i rami di pesco indicano il villaggio
il salice lambisce le sponde dello stagno

al modo delle carpe dalle scaglie scintillanti
e delle anatre che vagano in coppia
il poeta si guarda intorno; in questa vita
tutti sono intrappolati in una rete di chiacchiere

*

scollino e mi pare di camminare nell’aria
ho il corpo troppo leggero:
il bastone di bambù artiglia
una pietra, il lacero manto sventola

un uccello solitario si inabissa nel blu
remote sorgenti si riflettono nei suoi occhi:
nessun pensiero lo strugge, canta un inno
senza tempo, infinito è il suo viaggio

*

si è rotto il mantello, piagato dalle ombre
i sandali sono inutili: mi aggiro a piedi nudi
verso casa – lavo le gambe, mi tengo la testa
tra le mani: ho caldo? ho freddo? non so più nulla

*

i rumori della montagna impongono una glaciale
saggezza: la fontana bisbiglia tenui leggende
la brezza dei pini attizza il fuoco su cui scaldo
il tè, l’ombra del bambù trafigge le vesti

pesto l’inchiostro: le nubi negli abissi recano
versi – imito gli uccelli calligrammi che si posano
sui rami mentre il mondo scorre: ogni
evento evidenzia il pregio della non-azione

*

il sentire del mondo fa compassione
ma le colline non hanno paura:
rivestite di alberi e di foreste
sono il terreno di caccia della poesia

il mio cuore è libero come le bianche nubi
il corpo è leggero come una foglia
scimmie e uccelli mi guidano, il loro vigore
è candido: si erge, sorpassa ogni cosa

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