Mastica la lingua della mistica, Margiad Evans. Le pupille asperse di oscurità, il corpo una foresta nera. Rosa dal morbo sacro dell’epilessia, preda di elleniche allucinazioni – la patologia come sagoma di un dio che trafigge l’encefalo, della Musa adirata, emblema d’estro artistico, trascurata per gli impegni della vita mortale.
Una cicatrice a decorare il cervello, l’esistenza sdoppiata dall’infiltrazione della malattia – dal greco επιλαμβάνω, ‘invadere’, l’epilessia sfocia nel contagio del linguaggio. Con l’incosciente approssimarsi delle prime manifestazioni, lettura e scrittura volgono verso la veste più austera della parola – la poesia.
“Incorporare un pensiero in prosa è come tentare di dare forma ad una figura con l’argilla molle piuttosto che con la pietra dura della poesia” riporta fra le pagine di Un Raggio di Oscurità (Magog, 2023) – diario clinico, cinico, spirituale, spettrale. La gestazione della prosa assume dunque forme travagliate, la poesia, screziata di naturalismo metafisico, si fa invece concreta astrazione dall’estranea entità che simula un ingresso nel corpo. Concerto d’estasi nello sconcerto, orgasmo mistico.
Insensibile al richiamo di civici cenacoli, Evans aderisce al solo appello, monastico, della campagna gallese – immersa nella Natura, in via elusiva ed esclusiva, non avverte sintomi patologici. Mai un attacco epilettico prenderà vita all’aria aperta, sempre all’interno, fra domestiche cinta. E in prossimità di una porta. Stanza interiore in cui avventurarsi. In profondità.
La forma della scrittura segue e insegue quella cerebrale, affanna, approda infine nel porto incerto della poesia. Ricerca del sé, intrecciata alla ricerca di un linguaggio che aderisca addosso – la lingua muta pelle come un pitone.
Composizione di sonetti, lettura dei salmi – ogni notte, alle tre, nel letto –, l’affezione mentale che scricchiola sotto il peso del ferreo allenamento elaborato per tenere in vita il cervello. Svigorito da un tumore non ancora individuato.
Poesia e malattia s’avviluppano in una virtuosa unione – entrambe esistono in quanto prossime alla morte. La crisi epilettica s’inserisce nello spazio bianco lasciato dalla poesia, la poesia, s’insinua nell’attimo di incoscienza scatenato dalla crisi. Lambire la morte è rivelazione, vero rito di iniziazione alla poesia. Non è lontana, Margiad Evans, dallo Zivago di Boris Pasternak che s’avventura a concepire poesie solo dopo il logorio del tifo. Ha la caratura del romanzo russo. Scrittura è malattia.
Nondimeno legame con Dio. Nello strascico della patologia, Evans ne intravede il perimetro non più unicamente nell’istituzione della Natura bensì negli aspetti della vita ordinaria. Se la poesia le consente di ascendere a Dio, è solo costui a tenerla ancorata alla vita terrena. Nell’istante di interruzione della coscienza – acme della crisi – quando tutto è oscurità, pena lo smarrimento interiore suole aggrapparsi a visioni concrete – una brocca del latte blu e bianca, un orologio verde, gli occhi gialli del suo cane.
Per rivelarlo, percorre la via dell’idioma mistico – definirà il misticismo come ‘la conoscenza dell’unione’. Linguaggio come consapevolezza. Il ritorno all’Uno, quindi, a fare seguito all’arcano sdoppiamento fra coscienza e incoscienza. Il corpo, intorpidito dalla crisi, naufrago, che rientra in patria.
“Solo quando gli attacchi furono più frequenti, la malattia suscitò in me l’idea della sua potenza mistica e poetica”.
E aveva ansie da poeta autentico, Margiad Evans. La ricerca della forma perfetta come problema esistenziale, essenziale, esiziale.
“Voglio parole. Più parole per il colore – per il blu che è oltre il cielo grigio; per un altro blu che vive sulle colline per giorni ed è sostanza di una terra che sta scomparendo. Voglio parole che aprano, parole per lo spazio, parole che non pieghino il pensiero. Esiste un linguaggio del genere? Credo di sì. Credo di sentirlo”.
(da: Moira Dearnley, Margiad Evans, 1982, University of Wales Press)
Visionaria, la Evans nasce pittrice – unica arte cui affida l’autenticità del proprio nome, Peggy Eileen Whistler. Prima delle epifanie della fine – vedasi i versi, danteschi, de La foresta – batte sentieri orientali, inscritti nel mito esotico. I suoi primi trenta disegni sono effigiati in un’edizione del 1930 dei Tales of the Panchatantra, raccolta di favole indiane in prosa e in versi tradotte dal sanscrito dal poeta inglese Alfred Owen Williams.
Traboccano, i suoi primi scritti, di materia incantata, incatenata. Come A Fairy Story, storia di una donna che costruisce gabbie per uccelli in un paese senza uccelli. Il racconto non verrà mai pubblicato, ma la gabbia tornerà, sotto forma di versi avversi – ‘la tigre rinchiusa da striature che pungono’; l’ape dai ‘raggi intrecciati alla chioma aurea del cielo’. Il corpo come gabbia, fra raggi di oscurità.
Incautamente ricondotta nell’alveo degli scrittori modernisti – dal poeta e critico Derek Savage, in The Withered Branch –, con la vituperata Virginia Woolf si spartì il dilemma della coesistenza fra attività intellettuale e artistica e maternità. L’una accomodata nella stanza tutta per sé, l’altra covando nella propria camera gestazionale vita e morte. Alla scoperta dell’epilessia si fonderà quella di una figlia inattesa, da cui la genesi di Gemini, poesia che supera il dualismo con l’unità di una nuova luce – “Oscurità, addio!”.
La ratio della responsabilità – che nessuna opera d’arte è in grado di trasmettere –, non la ragione di una vita agli esordi, costringe dunque l’artista alla revisione del proprio rapporto con la morte. Morte che non equivale più a più vezzo, orpello, effimera esigenza, bensì a fatalità, stella avversa.
Perché la madre-artista non può più osare il più alto gesto estetico – morire. (Fabrizia Sabbatini)
***
Calma
Elevami con biasimi o umiliami con l’amore,
non puoi licenziare questa calma indolore
quando siamo un’epifania di vetro.
Sospesa è la nostra offesa,
stentoreo alita il vento. Mai nessuno
tanto esausto non s’è fiaccato, così prossimo
così distante, così vecchio e invero nuovo,
così ferito che poco dolore ha tollerato!
La tua voce ha perduto il mio spirito! Il tuo dolore in me
la sua nota; il cuore che ha cagionato il mio naufragio ora mi squassa
in questo strano viaggio, amaro, galleggiamo
su tempeste risorte. Da un sonno mortifero
verrò destata o mi desterò io stessa
quando sarai felice o le mie lacrime andranno in pezzi.
*
Come appaiono le cose
Questo giglio in embrione ha inebriato un’ape
viscosa, una stilla d’ambra di ruggine estiva:
mi affaccio per osservare il candido collo gonfiarsi
le labbra bislunghe sorridere.
Mentre guardo, sulla sua lingua angelica
l’ape striscia fuori, come una stella velata
i suoi raggi intrecciati alla chioma aurea del cielo,
balenano su di noi attraverso le ali degli scarabei.
Poi via, l’astro biondo
ronza intorno al gambo, e a doppio giro l’ombra del giardino
è ghermita nel turbine del lazo di un’ape –
e i raggi di oscurità evaporano.
*
Fiori nell’oscurità
Il lampo che spiava affacciato alla collina
si eclissò in un nodo di oscurità: immobile
resto in piedi, solida come la pioggia
nel folto degli alberi, prossima ai fiori sul sentiero.
Fiori bianchi, niveo emblema di solitudine!
Se fossi cieca la loro essenza sarebbe
come un’ombra che ciascuno può scorgere:
un’ombra che riluce attraverso l’onta di Dio
tramonterebbe su di me nel luogo feroce
dove esistevo senza ombra.
Margiad Evans
*Un florilegio di poesie di Margiad Evans è pubblicato come “Poesie dall’Oscurità” nella collana “La Matta” delle edizioni Magog.
La collana “La Matta” edita libri pensati come dono agli abbonati delle edizioni Magog.
*In copertina: Vilhelm Hammershøi, Interno con ragazza vista nel nero, 1903